Mentre milioni di lavoratori cinesi lottano per i diritti (Le principali tappe della Cina capitalista - Area di libero scambio al vertice dell'Asean)
La Cina capitalista estende la sua influenza in America Latina
Accordi e investimenti miliardari a Cuba, in Brasile, Cile e Argentina
Castro esalta il "socialismo" della banda revisionista, borghese e fascista di Pechino
Il mese di novembre ha proposto importanti novità negli assetti della politica mondiale capitalista e imperialista. L'attivismo politico ad ampio raggio della Cina capitalista ha confermato che questa potenza regionale, in forte ascesa economica, ambisce a un futuro ruolo di superpotenza mondiale, andando a ricoprire quelli che erano stati gli spazi vitali del socialimperialismo sovietico.
Sfruttando il vertice dell'Associazione dei paesi dell'Asia e del Pacifico (Apec) svoltosi a Santiago del Cile, il presidente cinese Hu Jintao ha guidato personalmente una foltissima delegazione che dall'11 al 25 novembre ha visitato Argentina, Brasile, Cile e Cuba, stringendo importanti accordi di vario genere. Per la prima volta la Cina capitalista si è cioè spinta in quello che è da sempre considerato il "cortile di casa" dell'imperialismo americano. Con il risultato che gli Stati Uniti rischiano di perdere il ruolo di interlocutore privilegiato sia con la regione sudamericana che con quella asiatica. L'Apec infatti è nata come collante delle due vaste zone in forte sviluppo capitalistico che si affacciano sul Pacifico, con gli Usa come punto di riferimento centrale. Oggi l'America sta perdendo il controllo della regione a vantaggio della Cina. Traendo il bilancio del vertice Apec la grande industria americana ha lanciato un allarme alla Casa Bianca: a Santiago sono stati negoziati ben 30 accordi commerciali tra paesi Apec e Cina, solo 4 con gli Stati Uniti. E il "New York Times" in un editoriale ha avvertito Bush: "L'America Latina di recente non ha avuto molta attenzione da Washington, mentre è stata oggetto di uno straordinario interesse da parte di Pechino. Washington farebbe bene a non dare più per scontata la sua influenza".
Se nel Sudest asiatico, area "di casa" per la potenza cinese, questo processo era già iniziato da tempo e l'ultimo vertice dell'Asean lo dimostra (vedi articolo pubblicato a parte), in Sudamerica la cricca revisionista, borghese e fascista di Pechino ha sviluppato rapporti molti forti. Ormai uomini d'affari cinesi sono la norma in Brasile e Argentina, molto di più di quanto non lo siano oggi gli americani. Anche in Centro America la Cina si è mossa sviluppando rapporti con la Repubblica Dominicana dopo che l'isola ha rotto le relazioni diplomatiche con Taiwan. Ha persino investito 23 milioni di dollari a Antigua, isoletta dei Caraibi, che ha però una rappresentanza e un voto alle Nazioni Unite. Lo stesso sta avvenendo con l'Africa, dove la Cina sta sviluppando rapporti diretti di fornitura e si sta assicurando materie prime e contratti che le consentiranno di esercitare un'enorme influenza nel continente africano.

All'assalto dei mercati dell'America Latina
La Cina è partita in quarta alla conquista dell'America Latina, che fino a poco tempo fa era una destinazione secondaria dei suoi flussi economici, ma che già nel 2003 era balzata al secondo posto quanto a investimenti all'estero con 799 milioni di euro e il 36,5% del totale, dietro all'Asia con 1.151 milioni di euro e il 52,6%. In dieci anni la Cina investirà cento miliardi di euro.
La tournée di Hu Jiantao iniziata in Argentina, proseguita nel Brasile di Lula e in Cile, si è conclusa il 23 novembre a Cuba. Ovunque il presidente cinese si è presentato con una montagna di soldi e si è lasciato dietro un fiume di accordi economici: 20 miliardi di investimenti in Argentina, oltre 6 in Brasile, un Trattato di libero scambio proposto al Cile. A Cuba Hu e Castro hanno firmato vari accordi su investimenti e commercio in diversi campi (nichel, biotecnologie, petrolio, telecomunicazioni, agricoltura). Del resto Pechino guarda al Sudamerica come a un grande fornitore di materie prime come petrolio, gas, cemento, ferro, alluminio, rame e nichel per il suo piano di sviluppo industriale capitalista, ma anche soia, carne e altri prodotti agricoli a buon mercato per il proprio fabbisogno alimentare.
I 6,5 miliardi di euro cinesi al Brasile governato dall'imbroglione socialdemocratico Lula saranno destinati alla costruzione di ponti, strade e ferrovie per portare le merci ai porti d'imbarco per l'estremo Oriente. In cambio dell'apertura del mercato cinese per la carne bovina e i polli brasiliani la Cina ha guadagnato lo status di paese ad economia di mercato, condizione che gli permetterà di evitare molte delle norme antidumping poste in passato contro i suoi prodotti, soprattutto quelli elettronici e tessili, a buon mercato.
Più breve ma non per questo meno proficua la visita della delegazione cinese a Buenos Aires. Anche qui, sul modello di energia e cibo in cambio di infrastrutture, China Beiya Escom e China Railway contribuiranno con quasi 6 miliardi di euro alla costruzione di nuove reti ferroviarie per collegare le province del nordest argentino e quelle patagoniche, due aree ricche di minerali e metalli preziosi, ai porti di Mar del Plata e di Buenos Aires. Il governo affamatore di Nestor Kirchner ha ottenuto l'eliminazione delle barriere sanitarie per l'esportazione di carne bovina, polli e frutta per un valore complessivo di 153 milioni di euro all'anno.
In Cile, a margine della riunione dell'Apec, la Cina ha stretto un accordo col governo di Santiago per iniziare le negoziazioni per un Trattato integrale di libero commercio, il primo stipulato da Pechino nella regione. La domanda cinese si concentra soprattutto sul rame, di cui il Cile è il primo produttore mondiale.

Castro, il solito imbroglione antimarxista-leninista
Oltre agli aspetti economici-commerciali già citati in precedenza e che vedono la Cina già ora come terzo partner mondiale dell'Avana, la visita di Hu a Cuba ha avuto una forte eco politica. Una cerimonia in pompa magna con Castro che esordisce: "Il socialismo rimarrà come l'unica speranza di pace e di sopravvivenza dell'umanità, come ha dimostrato il partito comunista della Cina popolare". L'imbroglione dell'Avana perpetua nei suoi inganni. Mente ben sapendo che di fronte aveva il leader di un paese convertito al capitalismo da oltre vent'anni. Addirittura il presidente cubano si è felicitato per il nuovo "ruolo della Cina come motore dell'economia mondiale".
Il presidente cinese ha retto il sacco e risposto: "Noi siamo fratelli, e ci auguriamo sinceramente che il popolo cubano non si fermi lungo il cammino della costruzione socialista". Due artefici della restaurazione capitalista nei rispettivi paesi che si definiscono ancora "socialisti" per ingannare le masse operaie e popolari che credito possono avere dai sinceri combattenti per il socialismo?
Pechino intende sostituire Mosca nel sostegno al regime castrista in funzione antiamericana e sopprassiede volutamente sul fatto che Castro dagli anni Sessanta si schierò apertamente con l'Unione Sovietica revisionista di Krusciov prima e con quella socialimperialista di Breznev poi, sputando veleno sulla Cina di Mao e sull'esperienza dell'edificazione e della difesa del socialismo nel paese asiatico. Per questo il "compagno" Hu rivolgendosi al "compagno" Fidel (roba da chiodi) ha riaffermato che i legami tra Cina e Cuba hanno "resistito al test del tempo e ai cambiamenti nelle situazioni internazionali".
Per chiudere la questione ricordiamo ai nostri lettori che nel 1966 Castro dichiarò a Carlos Franqui, ex direttore del giornale cubano "Revolucion" e dal 1968 esule all'estero: "Mao Tse-Tung è arteriosclerotico e un vecchio rimbambito", mentre la Cina era un paese del Terzo mondo dove vigeva un "socialismo rozzo" e antipopolare. Il socialismo "vero" per l'imbroglione dell'Avana era quello dei revisionisti sovietici. Oggi, di fronte ad una Cina capitalista, afferma: "Per tutti coloro che, come noi, credono nel socialismo, quello che la Cina sta facendo rappresenta una speranza. Non è azzardato affermare che il futuro del socialismo nei prossimi decenni dipenderà in larga misura da quello che la Cina saprà realizzare. Mi rendo conto con gioia che la Cina, col suo potenziale umano, le sue ricchezze, sarà il gigante del XXI secolo" (citazione tratta dal messaggio di Castro per il 50• della fondazione della Repubblica popolare cinese del 1• ottobre 1999). Mao tuttavia aveva le idee chiare su Castro. Nel "Discorso a una riunione dell'Ufficio politico" (20 marzo 1966) così si esprimeva: "Abbiamo detto che è una cosa buona che i rinnegati, i traditori degli operai dell'Unione Sovietica siano anche nemici della Cina. Dal momento che ci si mettono contro, noi possiamo intraprendere qualcosa. In generale, i rinnegati e i traditori degli operai devono essere nemici della Cina. La nostra bandiera deve essere luminosa e chiara, non dobbiamo essere negligenti. Castro è soltanto una bestia feroce al potere".

La repressione delle lotte dei lavoratori
Infami risultano le espressioni interessate di Castro sulla Cina. Perché la crescita economica di questa potenza è avvenuta, come tutti i passaggi al capitalismo, sulle spalle del popolo, e in particolare su quelle dei lavoratori. Per garantire il motto del rinnegato, revisionista e fascista Deng Xiao Ping "arricchirsi è glorioso", la Cina sta proseguendo l'opera di distruzione dell'industria pubblica, iniziata con decisione alla fine degli anni '90, quando il governo guidato da Zhu Rongji decise di varare una drastica riforma delle aziende statali tramite un piano di chiusure, dismissioni, accorpamenti e privatizzazioni. Così dal 1998 alla fine del 2003 il numero delle aziende interamente controllate dallo Stato è stato ridotto da 238mila a 150mila; i dipendenti complessivi di queste ultime sono stati tagliati del 40% fino a circa 43 milioni di addetti; frattanto, i profitti complessivi delle industrie pubbliche sono saliti da 2,6 a 60 miliardi di dollari, mentre a 75 miliardi di dollari ammontano il valore dei collocamenti in Borsa effettuati dalla Cina dal 1992.
Di fronte a questo scenario liberista e liberticida le masse cinesi non potevano che reagire. Le stesse fonti ufficiali riportano 58mila episodi di proteste nel 2003 che hanno riguardato oltre 3 milioni di persone. Per il 2004 riportiamo in ordine cronologico le ultime proteste antigovernative di cui si è a conoscenza.
Ad agosto l'occupazione degli operai della fabbrica di veicoli speciali Shanhua, svenduta dallo Stato ai privati, è stata stroncata con la forza dalla polizia. Dal 14 settembre e per sette settimane nella fabbrica tessile Tianwang Xianyang, provincia dello Shaanxi, 6.800 lavoratori, per la maggior parte donne, hanno occupato gli impianti per impedire l'attuazione dei piani di ristrutturazione della fabbrica, un tempo proprietà statale oggi privatizzata. I nuovi proprietari vogliono far tabula rasa: liquidazione di tutti, riassunzione con contratti a tempo determinato di un numero non precisato di lavoratori che ripartono da zero, anche se dipendenti da decenni, con una paga molto inferiore alla precedente. Ai riassunti si chiede poi "un periodo di prova" di sei mesi nel corso del quale riceveranno solo il 60% del nuovo salario. Accessoriamente non saranno versati contributi né per le future pensioni né per la presente assistenza sanitaria. Gli operai si organizzano per un lungo braccio di ferro con turni di guardia ai cancelli 24 ore su 24. La polizia stronca la protesta con la forza e arresta una ventina di operai.
Nel mese di ottobre si registrano le proteste dei lavoratori tessili di Bengbu, nella provincia dell'Anhui, che hanno bloccato la città per una settimana per ottenere una pensione dignitosa. A Jining City, nella provincia dello Shandong, migliaia di lavoratori hanno assediato il distretto dei supermercati pubblici, di recente privatizzati, per protestare contro le arbitrarie riduzioni di salario e l'impiego eccessivo degli straordinari. Il 18 ottobre a Chongoing 50mila persone hanno dato vita ad una rivolta per protestare contro il pestaggio di un lavoratore migrante da parte della polizia. Gas lacrimogeni e proiettili di gomma sono stati usati dalla polizia per disperdere i manifestanti.
3 morti, due contadini e un poliziotto, si sono registrati negli scontri nella provincia del Sichuan contro la costruzione di una enorme diga. Le manifestazioni di protesta sono iniziate il 27 ottobre interessando 40mila contadini. Un esercito di oltre 100mila persone sono condannate a lasciare le fertili terre che saranno sommerse dalle acque del bacino artificiale. Agli sfrattati sono stati offerti risarcimenti ridicoli e nuovi insediamenti in una zona montagnosa a stento coltivabile. Una catastrofe sociale e ambientale.
Infine le miniere. Il 28 novembre nella miniera Chenjiashan, provincia dello Shaanxi, 166 minatori sono morti per un'esplosione di gas. L'ennesima tragedia in un panorama minerario cinese che ormai è costretto a constatare stragi quasi quotidiane. 7.000 morti l'anno secondo stime ufficiali, almeno tre volte di più secondo fonti alternative. Vite quelle dei minatori che per il regime di Pechino non valgono nulla, visto che i leader cinesi continuano a definire il carbone "il combustibile più a buon mercato". Nel 2003 ne sono state prodotte 1,7 miliardi di tonnellate. Per quest'anno le autorità hanno confermato il tetto di 1,9 miliardi per compensare il petrolio, troppo caro. Quando una settimana prima dell'incidente nella miniera di Chenjiashan erano scoppiati incendi nei pozzi, la direzione aveva deciso imperterrita di continuare il lavoro di estrazione, nonostante il gas che impestava la già scarsa aria delle gallerie. Alcuni minatori si erano rifiutati di lavorare ma molti altri hanno continuato, non potendo permettersi il taglio dei salari decretato dalla direzione, che avrebbe tolto 100 yuan (oltre 11 euro) per ogni giorno non lavorato. Turni di 12 ore per sette giorni consecutivi in condizioni di lavoro criminali, con attrezzature antiquate e inadeguate ai ritmi di produzione richiesti.
E' questa la Cina capitalista di oggi.

9 dicembre 2004