Anziché rispondere alle accuse attacca i giudici, Prodi, De Benedetti, Ariosto e Dotti
Comizio di Berlusconi in tribunale
"La legge è uguale per tutti, ma per me è più uguale perché io sono stato eletto dalla maggioranza degli italiani"
Il neoduce si rifiuta di rispondere alle domande del Pm in aula
Il 17 giugno, alla vigilia dell'approvazione in parlamento del "lodo Schifani", Berlusconi è comparso davanti al tribunale di Milano per la sua seconda "deposizione spontanea" in ordine al processo Sme, che lo vede coinvolto con l'accusa di aver corrotto i giudici per far fallire l'acquisto dell'allora azienda alimentare di Stato da parte dell'industriale De Benedetti.
Con la sicumera di chi sa di avere già in tasca il salvacondotto che lo mette al riparo da tutti i processi almeno finché rimarrà a Palazzo Chigi e forse anche oltre, e l'arroganza sfacciata dell'imputato che si erge ad accusatore ben sapendo che l'accusa non può rivolgergli domande ma solo stare ad ascoltarlo, il neoduce ha svolto il suo comizio di un'ora, sotto le telecamere delle sue televisioni, e poi se n'è andato rispondendo sprezzante al pm Ilda Boccassini, che gli ha chiesto se avrebbe accettato un interrogatorio sulle accuse che gli vengono contestate, che se i giudici vogliono interrogarlo devono venire a Palazzo Chigi, perché lui ha cose più importanti da fare.
Il comizio di Berlusconi era stato preparato con ogni cura, come uno show mediatico pianificato e diretto da una sapiente regia. Al neoduce era stato riservato il privilegio inedito di deporre nell'aula magna del tribunale, quella riservata alle cerimonie solenni. Una "sede anomala - ha osservato contrariata il pm Boccassini - questa è un'aula che è sempre stata usata per le celebrazioni". Allo show erano state riservate ben dodici telecamere e trenta microfoni, la cui dislocazione, come anche l'impianto delle luci, è stata gestita direttamente dai tecnici e dai curatori dell'immagine del neoduce, che hanno voluto perfino cambiare il tavolino a lui riservato, perchè "troppo piccolo". Non mancava neanche una nutrita schiera di manutengoli forzitalici a fare da claque al comizio del capo del governo e per sovrastare i suoi contestatori con cori assordanti di "Silvio, Silvio". Un'ambientazione, del resto, perfettamente coerente con la vanteria con cui il nuovo Mussolini ha sfacciatamente esordito, e cioè che se è vero che la legge è uguale per tutti è anche vero che egli è "un cittadino forse un po' più uguale degli altri, dal momento che la maggioranza degli italiani gli ha conferito la responsabilità di governare il Paese".

Al di sopra della legge
Sulla scia di questa arrogante premessa non ha esitato anzi ad attaccare frontalmente i giudici per avergli rifiutato l'udienza a Palazzo Chigi anziché a Milano (facoltà che gli sarebbe spettata come testimone, ma non come imputato qual è, ndr), perché - si è lamentato teatralmente adombrando un conflitto istituzionale a suo danno da parte del tribunale - "decidere che cosa possa essere accettato come impedimento e che cosa non possa essere accettato significa volersi sovrapporre al presidente del Consiglio su come debba governare il Paese. E questo lo trovo francamente inaccettabile".
Non contento ha invocato ancora una volta il suo ruolo politico per ergersi al di sopra della legge, quando ha rimproverato al tribunale che "non è uno spettacolo così degno che un premier si trovi imputato in un'aula di tribunale, perché ciò comporta una lesione del prestigio e dell'orgoglio dell'Italia. Io sono molto fiero del mio Paese. Buttando ombre e fango sul presidente del Consiglio si buttano ombre e fango sul Paese". Insomma, il danno all'immagine del Paese non sarebbe causato dal fatto in sé di avere al suo vertice un inquisito per gravi reati di corruzione, falso in bilancio, ecc., ma dal fatto che si tenti di applicare anche a lui la legge come a un qualsiasi altro cittadino. Davvero l'impudenza e l'arroganza di quest'uomo non hanno limiti! Ma del resto che cosa ci si poteva aspettare di meno, da chi sa che il più autorevole sostenitore della tesi che per salvare il "prestigio" del Paese occorreva bloccare i processi a carico del capo del governo, a costo di violare sfacciatamente la Costituzione, è nientemeno che il "primo cittadino" d'Italia, Carlo Azeglio Ciampi?
Con queste certezze in tasca e senza possibilità di contraddittorio il comizio di Berlusconi si è potuto srotolare senza freni, evitando accuratamente di rispondere sui fatti per i quali è stato citato in giudizio, e cioè sui pagamenti dai conti esteri della Fininvest (ammessi anche dal funzionario Fininvest Livio Gironi) a conti di Previti e Pacifico, e da questi girati ai giudici Squillante e Verde per emettere un verdetto sfavorevole a De Benedetti sull'acquisto della Sme. In compenso ha sparato a zero e gettato fango su tutti quelli che lo accusano o che hanno testimoniato a suo sfavore, a cominciare dai magistrati inquirenti, che a suo dire hanno imbastito un processo in cui "manca il morto, manca l'arma del delitto e manca anche il movente", e alla cui base c'è solo "la fervida fantasia di chi ha inventato questo teorema", gettando su di lui "tonnellate di fango".

Da accusato ad accusatore
Ha attaccato Prodi (all'epoca dei fatti presidente dell'Iri, protagonista della vendita della Sme alla Buitoni di De Benedetti), fingendo malignamente di non volerne parlare per rispetto alla sua funzione istituzionale europea ("Mi hanno consigliato di non pronunciare il suo nome in aula, ma non è colpa mia se era presidente dell'Iri..."). E ha parimenti attaccato De Benedetti, ritornando sulla presunta tangente che costui avrebbe pagato alla DC in cambio del contratto Sme, comportandosi in tal modo - ha detto il neoduce cercando l'ironia ad effetto con una maldestra citazione di un celebre film - "come Totò che voleva comprare il Colosseo".
Una particolare perfidia, al fine di screditarla, il cavaliere piduista l'ha riservata alla principale teste a suo carico, Stefania Ariosto, e al suo ex fidanzato e allora capogruppo di Forza Italia Vittorio Dotti. La Ariosto (il teste "omega") è una "mentitrice" e una "mitomane", una poveretta "assediata dai creditori", che "si presentava come una contessina, quando sua madre era casalinga e suo papà un impiegato", ecc. ecc. Quanto a Dotti, che aveva confermato alcune testimonianze della Ariosto, ce l'aveva con lui perché per le sue ambizioni politiche puntava a un ruolo all'interno di Forza Italia "ove si potesse mettere nei guai il presidente".
Non solo Berlusconi non ha risposto a nessuna delle accuse contestategli, ma si è pure permesso di fare lo strafottente ironizzandoci sopra. Come quando, nel ripetere con impareggiabile faccia tosta la favola che i soldi dai conti esteri Fininvest a Previti erano "acconti sulla parcella", ha detto - come se questa fosse una prova inoppugnabile a suo discarico - che se avesse voluto fare dei pagamenti in nero non avrebbe certo usato bonifici bancari, ma sarebbe bastato che si "frugasse in tasca", dal momento che poteva contare su un patrimonio di centinaia e centinaia di miliardi.
E quando al termine del suo comizio ha raccolto le sue carte per andarsene, e la Boccassini lo ha fermato chiedendogli se fosse allora disposto ad accettare un interrogatorio sui precisi fatti a lui imputati, e cioé i bonifici esteri sui conti di Previti e Pacifico, Berlusconi si è permesso l'ultimo insulto al tribunale, rispondendo che se volevano interrogarlo dovevano venire a Palazzo Chigi. Il pm ha ribattuto che essendo lui imputato e non testimone, "l'unica sede istituzionale è il tribunale". Al che il neoduce, accampando "urgenti motivi" per rientrare a Roma, si è dichiarato disponibile a fare altre dichiarazioni il giorno 25, "perché - ha detto senza paura di apparire ridicolo - non credo debba esserci neppure un'ombra su chi rappresenta il governo del Paese". Ben sapendo, naturalmente, che per quella data Ciampi avrebbe già firmato l'infame "lodo Schifani" che lo salva dal processo Sme e dagli altri ancora pendenti.