Non è bastata la "stima" espressa al mafioso da parte del presidente della Camera alla vigilia della sentenza
Dell'Utri condannato per mafia
9 anni di carcere, 2 anni di libertà vigilata, interdizione perpetua dai pubblici uffici
Era l'ambasciatore di "Cosa nostra" presso Berlusconi
Nonostante i sensi "più profondi di stima e amicizia" espressi pubblicamente al mafioso Marcello Dell'Utri alla vigilia della sentenza di primo grado dal presidente della Camera Pier Ferdinando Casini (la terza carica dello Stato), l'11 dicembre i giudici della seconda sezione penale del tribunale di Palermo hanno condannato il senatore di Forza Italia a 9 anni di reclusione con l'accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Dell'Utri è stato anche condannato a due anni di libertà vigilata, oltre all'interdizione perpetua dai pubblici uffici e il risarcimento dei danni alle parti civili: Comune e Provincia di Palermo.
La sentenza è stata letta dal presidente del collegio Leonardo Guarnotta, a latere Giuseppe Sgadari e Gabriella di Marco, nell'aula bunker del carcere circondariale di Pagliarelli di Palermo. I pm Antonio Ingroia e Domenico Gozzo al termine della loro requisitoria, durata per 18 udienze e supportata da una memoria conclusiva di 2.500 pagine, avevano chiesto la condanna a 11 anni.
La sentenza è giunta dopo 13 giorni di camera di consiglio, 7 anni di dibattimento, 256 udienze, migliaia di atti, centinaia di intercettazioni ambientali e telefoniche e 270 testi ascoltati (di cui 40 collaboratori di giustizia: da Salvatore Cancemi a Francesco Di Carlo, fino a Gaspare Mutolo, Nino Giuffrè, Giovanni Brusca e Tommaso Buscetta, quest'ultimo sentito come teste della difesa).
A sette anni più l'interdizione in perpetuo dai pubblici uffici è stato invece condannato il coimputato Gaetano Cinà, il super boss mafioso di Malaspina, finora incensurato, ma considerato dai giudici il trait-d'union di Palermo tra "Cosa nostra" e la Fininvest.
Era stato il "pentito" Salvatore Cancemi a fare le prime dichiarazioni sulle inquietanti frequentazioni di Dell'Utri il 18 novembre del '94, portando all'apertura del fascicolo numero 6031/94, in cui sono confluiti via via moltissimi atti processuali, fino a formare un dossier di centinaia di migliaia di pagine. In quest'ambito è stato indagato per cinque volte anche il neoduce Berlusconi, e altrettante sono state le archiviazioni decise dalla Procura.
"è una sentenza che conferma la validità del materiale probatorio presentato - ha commentato il pubblico ministero Ingroia - e spazza via tutti gli insulti che ci sono stati rivolti durante questi sette anni".
Nelle requisitoria, durata per 18 udienze dal 5 aprile all' 8 giugno, Ingroia e Gozzo, avevano definito Dell'Utri come "l'ambasciatore di Cosa nostra", il garante degli interessi mafiosi, all'interno di uno dei gruppi economico-finanziari più potenti del paese, la Fininvest" nonché uomo "a disposizione dei mafiosi nell'arco di un trentennio, a partire dagli anni '70 fino a oggi, il cui contributo risulta più che significativo al consolidamento di Cosa nostra". Un rapporto di scambio con i boss, secondo i Pm, che sintetizzano così: "Dell'Utri ha favorito, ma è stato anche favorito".
Il dibattimento ha confermato che tutta l'attività di collaborazione esterna con l'associazione mafiosa si è svolta tra la Sicilia e Milano esclusivamente nell'interesse della Fininvest fin dalla sua fondazione, è proseguita negli anni ed è andata di pari passo crescendo con le grandi affermazioni imprenditoriali del gruppo e le consistenti accumulazioni finanziarie di Berlusconi.
Penalmente però il presidente del Consiglio, grazie alle leggi ad hoc votate dal parlamento nero e alle provvidenziali prescrizioni dei reati per decorrenza dei termini, è riuscito fin qui a cavarsela. Ma è indubbio che tutta la sua inquietante storia personale, politica e imprenditoriale si è svolta all'ombra della P2 di Gelli ed è indissolubilmente legata a a doppio filo nero con quella del mafioso Dell'Utri sul versante siciliano esattamente come quella finanziaria è legata con il suo "avvocato degli affari sporchi" Cesare Previti sul versante romano e dei giudici corrotti.
Per questo, anche se Berlusconi non è direttamente coinvolto nel processo, i Pm durante la requisitoria hanno sottolineato che: "Certo, non possiamo nascondere il rammarico per un'occasione mancata", cioè l'interrogatorio rifiutato dal presidente del Consiglio. Il 26 novembre di 2 anni fa, il Tribunale di Palermo si recò a Palazzo Chigi per sentire Berlusconi, che si avvalse della facoltà di non rispondere: "Ci attendevamo che desse il suo contributo di verità per chiarire i buchi neri: sull'assunzione e l'allontanamento di Vittorio Mangano, sui rapporti con Dell'Utri, su certi anomali movimenti di denaro nelle casse delle holding alle origini di Fininvest", spiegano i pm. Berlusconi, in veste di imputato di reato connesso (la Procura di Palermo lo aveva indagato per concorso esterno e riciclaggio, accuse archiviate per cinque volte), "si avvalse della facoltà di non rispondere, legittimamente. Un appuntamento mancato con la verità".
Una verità inconfessabile del neoduce dal momento che: "A un certo punto dell'infiltrazione di uomini per mezzo del cavallo di Troia Dell'Utri - affermano i magistrati - non si può nascondere la consapevolezza di Berlusconi dello spessore mafioso di Dell'Utri" e del suo ruolo di emissario della mafia a Milano con lo scopo di riciclare denaro e trovare gli agganci giusti con la politica. Infatti nel quadro accusatorio il senatore di FI è indicato come l'organizzatore nel 1974 di un incontro "diretto e personale" fra Berlusconi e alcuni mafiosi dell'epoca come Stefano Bontade, Mimmo Teresi, Gaetano Cinà e Francesco Di Carlo, quest'ultimo oggi collaboratore di giustizia. E che fu ancora Dell'Utri, sempre nel '74, a "consigliare" a Berlusconi l'assunzione del boss Vittorio Mangano, uomo d'"onore" morto in carcere due anni fa, nella villa di Arcore, ufficialmente come fattore, in realtà per proteggere il "Cavaliere" e i suoi familiari dall'anonima sequestri.
Fino al 1977 Dell'Utri è ritenuto rappresentante degli interessi mafiosi di Stefano Bontade e Mimmo Teresi all'interno di un altro gruppo imprenditoriale milanese, quello di Filippo Alberto Rapisarda, dove viene assunto proprio grazie al decisivo intervento di Cinà.
Nel 1979, dopo il rientro nel gruppo Berlusconi, Dell'Utri è ritenuto dalla Procura ancora l'intermediario con "Cosa nostra" per lo sbarco delle antenne del "biscione" in Sicilia. E sarebbe stato proprio Dell'Utri a consegnare a Cinà le somme di denaro necessarie per ottenere la protezione degli interessi televisivi del gruppo in Sicilia.
Il boss Gaetano Cinà della famiglia di Malaspina, ufficialmente solo l'ex titolare di una lavanderia a pochi passi da dove fu ucciso il generale Dalla Chiesa, non è mai comparso davanti i giudici di Palermo. Parlò solo la prima volta che fu interrogato dai pubblici ministeri di Palermo, all'inizio dell'inchiesta, quando ancora il processo era in fase istruttoria per dire che: "Mio figlio giocava a calcio nella Bacigalupo, allenata da Dell'Utri. Io stesso sono stato dirigente della squadra per dieci anni. è da allora la mia grande amicizia con Dell'Utri, che io considero come un figlio". Ma è proprio attraverso la sua lunga memoria difensiva che i Pm hanno cominciato a scavare sul conto del senatore di Forza Italia. "Un giorno - disse fra l'altro in quella occasione Cinà - Dell'Utri venne da me sfiduciato, dicendomi che voleva partire missionario e voleva lasciare il lavoro. Io cercai di dissuaderlo, anche perché lo considero persona di grande levatura". E ancora: "Ammetto di conoscere Mimmo Teresi (il mafioso - ndr), in quanto nipote di mio cognato Benedetto Citarda. Ma non conosco affatto Bontade, persona che ritengo troppo importante per me".
E per ironia della sorte il primo importante riscontro a quell'antica amicizia fra il boss mafioso Cinà e Dell'Utri che è alla base del processo è arrivata ai giudici di Palermo proprio da Silvio Berlusconi. Nel processo, il neoduce si è avvalso della facoltà di non rispondere. Ma nell'87, ai magistrati di Milano, aveva affermato: "Chiesi a Marcello di interessarsi per trovare un fattore lui mi presentò il signor Vittorio Mangano come persona a lui conosciuta, più precisamente conosciuta da un suo amico con cui si davano del tu, che da tempo conosceva e che aveva conosciuto sui campi di calcio della squadra Bacigalupo di Palermo, squadra di dilettanti". All'epoca, il nome di Cinà non fu quasi notato dai giudici. Ma a distanza di anni rischia di diventare l'epitaffio giudiziale di Dell'Utri.
Tra gli atti dell'accusa ci sono le registrazioni telefoniche. In particolare quella del 20 dicembre del 1986, quando Cinà annuncia a Dell'Utri l'arrivo della cassata siciliana, anche per Berlusconi: "La sua cassata è grossa dieci chili, sto facendo fare la cosa dal falegname, adatta...". Alla fine del colloquio Cinà chiese anche un consiglio su cosa fare incidere sulla torta: "Lo stemma di Canale Cinque", suggerì Dell'Utri.
Dalla ricostruzione dei fatti prospettata dalla Procura emerge inoltre che nel 1981, dopo la guerra di mafia e l'assassinio di Stefano Bontade, il rapporto fra Dell'Utri e il clan Pullarà, mediato dallo stalliere Mangano, sarebbe stato assunto personalmente da Totò Riina, per il tramite dell'asse Ganci-famiglia Malaspina-Gaetano Cinà perché l'interesse di Riina era quello di attivare, tramite Dell'Utri e Berlusconi, un possibile collegamento con il PSI di Craxi, "per costituire un referente politico alternativo alla Democrazia cristiana".
Nel 1990 "Cosa nostra" vuole ristrutturare i suoi rapporti con la politica. In questo contesto, per l'accusa, matura la strategia degli attentati alle sedi della Standa di Catania, appena acquisita da Berlusconi: "Dell'Utri fu protagonista della trattativa politica messa in campo da Cosa nostra dopo le stragi". Egli sarebbe intervenuto in prima persona per porre fine alle intimidazioni, incontrando il capomafia catanese Nitto Santapaola. In quella occasione, avrebbe offerto nuove garanzie (non solo finanziarie, ma anche politiche) all'associazione mafiosa. E gli attentati cessarono.
Non a caso "Negli anni successivi al biennio terribile '91-'93 - dice Ingroia - matura in Dell'Utri l'idea di fondare un movimento politico", proprio "mentre Cosa nostra sta azzerando i rapporti con i vecchi referenti politici. E tra l'ipotesi interna a Cosa nostra, con la `Sicilia Libera' di Bagarella, e l'idea di Dell'Utri, viene scelta quest'ultima, perchè il senatore ha dimostrato grande affidabilità". Il nuovo impegno di Dell'Utri in politica lo rende tramite altrettanto prezioso per la realizzazione degli interessi di "Cosa nostra" "a tutto campo". L'ultimo pentito che ha accusato Dell'Utri è stato Antonino Giuffrè: "Il senatore di Forza Italia - ha detto l'ex padrino della Cupola - fu protagonista della trattativa politica messa in campo da Cosa nostra dopo le stragi Falcone-Borsellino". Ecco perché alle politiche del '94, secondo i pm, "Riina fece votare la neonata Forza Italia".
La prova dell'agire mafioso di Dell'Utri i Pm l'hanno avuta proprio dai collaboratori di giustizia Giuseppe Chiofalo e Cosimo Cirfeta, citati a difesa di Dell'Utri, che avrebbero cercato di convincere altri pentiti a smentire Francesco Di Carlo e Francesco Onorato, due dei principali accusatori di Dell'Utri. Una vicenda che per i pm è prova "della capacità di inquinamento delle prove di questo processo da parte dell'imputato. Un tentativo destabilizzante che avrebbe demolito non solo il processo a suo carico" e parte di un piano per creare "una schiera di pentiti che avrebbe giovato non solo a Dell'Utri, ma all'intera Cosa nostra".
Anche per questo Ingroia definisce Dell'Utri "l'uomo della provvidenza mafiosa". E afferma che "Cosa nostra" "ha contribuito alla trasformazione di Dell'Utri da manager a esponente politico col fine di riattivare i contatti con la politica".
Alla fine della requisitoria i pm puntualizzano: "Nessun intento di delegittimare Forza Italia: non è stato e non è il partito della mafia. Il punto è che era il partito di Dell'Utri. E questo per Cosa nostra e per i suoi affiliati era sufficiente". E chiedono una "una sentenza non esemplare, ma equa", che tenga conto dei rapporti tra Dell'Utri e i mafiosi "sempre boss di primo piano da Bontade, a Totò Riina, a Bernardo Provenzano". Proprio quest'ultimo dovrebbe a Dell'Utri la propria soppravvivenza in seno a "Cosa nostra". I due magistrati sostengono che "dopo l'epoca delle stragi quando Riina viene arrestato, in Cosa nostra convivono due anime: quella secessionista, capeggiata da Leoluca Bagarella, e quella della trattativa con lo Stato. E se Provenzano alla fine si assume la responsabilità di sostenere ancora la trattativa, è soltanto grazie alle garanzie che gli provengono da Marcello Dell'Utri".
Con questa condanna Marcello Dell'Utri macchia ulteriormente la sua fedina penale: ai nove anni per mafia subiti a Palermo va aggiunta la condanna passata in giudicato a poco più di due anni per reati finanziari, deve sommare due anni per tentata estorsione insieme al boss trapanese Vincenzo Virga inflitta a Milano perché aveva tentato estorcere 500 milioni di una fattura di Publitalia all'ex presidente della pallacanestro Trapani, Vincenzo Garraffa.
Per il momento questa sentenza ci dice che le relazioni mafiose del senatore Dell'Utri e il suo ruolo di ambasciatore della mafia presso la Fininvest, sono state ampiamente provate; dalle motivazioni, che saranno rese pubbliche entro novanta giorni, sapremo anche se esse si sono protratte, come sostengono i Pm, sino alla stagione delle stragi, questione che rimane ancora un capitolo oscuro su cui ora bisogna fare piena luce.

12 gennaio 2005