Contro il federalismo, per l'Italia unita, rossa e socialista
Il federalismo dal Risorgimento al regime neofascista

Documento dell'Ufficio politico del PMLI


Introduzione

Quest'anno ricorre il 150° anniversario dell'Unità d'Italia. Ma quello Stato unitario proclamato il 17 marzo 1861 non esiste più. È stato frantumato dall'instaurazione del federalismo, che ha diviso l'Italia in 20 staterelli. Vediamo come ciò è accaduto.
Fin dal periodo napoleonico, in un'Italia allora divisa in una molteplicità di Stati tra loro differenti sotto molteplici punti di vista (politico, economico, sociale, giuridico), la via federalista fa capolino come un'opzione per l'unificazione del Paese. La Rivoluzione francese borghese e l'arrivo delle truppe napoleoniche infiammarono per la prima volta i patrioti italiani. Furono loro a rendere manifeste le due principali rivendicazioni della borghesia della Penisola: da un lato, la libertà contro le teste coronate e l'aristocrazia e, dall'altro, l'indipendenza dalla dominazione straniera. Da allora, il federalismo balzò al centro del dibattito politico come opzione liberal-democratica nel processo di unificazione dell'Italia.
Allora, federalisti furono anche democratici, repubblicani, socialisti: tutti accomunati dall'esigenza di dare risposta al desiderio di protagonismo delle masse popolari, che raggiunse la sua massima espressione nel corso dei moti del 1848. La vittoria della reazione in quel giro di anni, che culminò a livello internazionale nel 1851 con il colpo di Stato di Napoleone III, aprì in Italia a una nuova stagione politica, all'alleanza di fatto tra borghesia, comprese le sue frange più democratiche (in primo luogo i mazziniani), e casa Savoia, l'unica a disporre di un Regno storicamente dotato di capacità e potenzialità espansive, di forza militare e persino di una carta costituzionale (lo Statuto albertino) tanto elastica da lasciare intravedere principi liberali (si considerino, su tutti, i diritti di pubblica riunione e di libertà di stampa). L'unità purchessia divenne la nuova parola d'ordine, tuttavia contestata dai federalisti più conseguenti (da Cattaneo ai socialisti riformisti come Montanelli e Ferrari), consapevoli che da quell'intesa sarebbe scaturita semmai una "unità astratta", costruita sopra la testa delle masse.
Una volta raggiunta l'unificazione della Penisola, dopo la liberazione del Sud da parte di Giuseppe Garibaldi, che ebbe l'appoggio delle masse popolari, e i plebisciti che sancirono l'annessione a casa Savoia, la borghesia stessa con i suoi principali esponenti (Cavour, Farini, Minghetti) aprì a ipotesi di timido decentramento amministrativo attraverso il regionalismo. I federalisti si collocarono di conseguenza tra le forze anti-sistema (democratici radicali, socialisti e repubblicani), in decisa opposizione non all'unità in quanto tale del Paese, quanto al soffocante e centralistico regime sabaudo e al suo scollamento con le masse. Caratteristiche che raggiunsero il massimo grado di insopportabilità con la feroce centralizzazione della dittatura fascista.
Abbattuto il regime mussoliniano, al fine di allargare la base di consenso dello Stato borghese attraverso l'inclusione della classe operaia e delle masse popolari che gli erano state fin lì estranee e ostili, si ripropose tra i "padri costituenti" la questione di "democratizzare" le istituzioni dello Stato borghese. Tra le diverse ipotesi in campo, l'Assemblea costituente alla fine optò per un "nuovo regionalismo", preferito all'ipotesi federalista la quale, dando fiato alle forze reazionarie e monarchiche, rischiava di rompere l'unità delle forze antifasciste. Questo "nuovo regionalismo" rimaneva ben lontano dal mettere in questione la natura capitalistica del nuovo Stato repubblicano, anche da parte del PCI revisionista di Togliatti e del PSI di Nenni. Ragione per cui ancora una volta non fu superato il rigido e soffocante centralismo politico, economico e sociale a cui il capitalismo italiano fin dall'Unità costringeva il Paese. Per tre lunghi decenni le regioni esistettero solo sulla carta.
L'opzione federalista tornò al centro del dibattito politico italiano a metà degli anni Settanta del Novecento, il decennio della pesante ristrutturazione capitalistica internazionale seguita alla crisi petrolifera del '74-'75. Da corrente di pensiero democratica borghese di matrice risorgimentale, con la teorizzazione di Gianfranco Miglio sulla "Padania" il federalismo si tramutò nel vessillo reazionario della secessione del Nord. Un progetto golpista sincronizzato sulle esigenze della nascente Europa imperialista, alle prese con la progressiva costituzione di un vasto mercato interno unificato, il superamento degli Stati nazionali, e, di conseguenza, ritagliato nel suo insieme sulle esigenze di competitività dei monopoli italiani e dei medi e piccoli capitalisti settentrionali, accomunati dal desiderio di staccarsi dalla parte restante, più povera, della Penisola. Da qui il federalismo diventa nel tempo parte integrante dei progetti eversivi della P2 di Cefis, Gelli, Craxi e Berlusconi, dei progetti di "Grande Riforma" presidenzialista e federalista della Costituzione di Miglio e Craxi, così come del capo dei gladiatori Cossiga e della destra politica, economica e finanziaria, fino a giungere a Bossi, leader della Lega Nord razzista, xenofoba e secessionista.
Tuttavia, ad aprire la strada alla nascita dell'Italia federale ci hanno pensato in primo luogo i governi di "centro-sinistra" D'Alema e Amato, a dimostrazione dell'ormai compiuta omologazione dei partiti della "sinistra" borghese, inclusi gli eredi del PCI revisionista, all'Europa imperialista e all'Italia capitalista, neofascista, presidenzialista, federalista, interventista, razzista e xenofoba. L'una e l'altra una sciagura per le masse popolari, la cui alternativa non può che essere l'Italia unita, rossa e socialista.
Prima di descrivere a grandi linee la storia delle teorie federaliste partendo dal Risorgimento, è bene fare una premessa e ricordare a tutti i sinceri democratici, e in primo luogo ai veri comunisti, la argomentata e chiara, posizione generale di condanna del federalismo da parte di Marx e Engels. In forte polemica con tutte le correnti reazionarie e riformiste della borghesia, nonché con le varianti anarchiche e pseudo-socialiste della piccola-borghesia, già nel marzo del 1850 nell'Indirizzo del Comitato centrale alla Lega, scrivevano senza mezzi termini: "Inoltre i democratici lavorano direttamente per una Repubblica federale o almeno, qualora non possano evitare la repubblica una e indivisibile, cercheranno di paralizzare il governo centrale con ogni possibile indipendenza e autonomia dei comuni e delle province. Gli operai debbono opporsi a questo piano e lavorare non soltanto per la repubblica tedesca una e indivisibile, ma anche, entro di essa, per una decisissima centralizzazione del potere nelle mani dello Stato. Essi non debbono lasciarsi ingannare dalle chiacchiere democratiche sulla libertà dei comuni, sul governo locale autonomo, e così via. In un paese come la Germania, in cui occorre ancora liquidare tanti residui del medioevo, e si devono spezzare tanti particolarismi locali e provinciali, non si deve in nessun modo tollerare che ogni villaggio, ogni città, ogni provincia ponga un nuovo impedimento all'attività rivoluzionaria che, in tutta la sua forza, può diffondersi soltanto dal centro. Non si deve tollerare che si rinnovi l'attuale stato di cose in cui i tedeschi debbono battersi di volta in volta, separatamente, in ogni città, in ogni provincia, per conseguire un solo progresso, sempre lo stesso. E meno ancora può tollerarsi che una forma di proprietà che è ancora più arretrata della proprietà privata moderna e si dissolve dappertutto necessariamente in questa - la proprietà comune - e i conflitti che ne derivano fra comuni ricchi e poveri, così come il diritto pubblico comunale, esistente a fianco del diritto pubblico di Stato, si perpetuino attraverso una cosiddetta libera costituzione dei comuni, con i suoi cavilli contro gli operai''.
Lenin in "Stato e Rivoluzione", analizzando tutte le possibili forme dello Stato borghese, chiarirà ancor meglio questa affermazione di Marx e Engels: "Engels, prove alla mano, smentisce con il più preciso degli esempi il pregiudizio straordinariamente diffuso - specie nella democrazia piccolo-borghese, - secondo il quale una repubblica federale significhi necessariamente maggiore libertà di quanto non si abbia in una repubblica centralizzata. E' falso. I fatti citati da Engels relativi alla repubblica francese centralizzata del 1792-1798 e alla repubblica federale svizzera confutano questa affermazione. In realtà la repubblica centralizzata, effettivamente democratica, diede maggiore libertà che non la repubblica federale. In altri termini: la maggiore libertà locale, regionale, ecc., che la storia abbia conosciuta è stata data dalla repubblica centralizzata e non dalla repubblica federale".
 

Capitolo I
Il federalismo nel Risorgimento


Unitari e federalisti nel periodo napoleonico
Storicamente il modello dello Stato-nazione si afferma con la Rivoluzione francese. In Italia furono perciò i cosiddetti "giacobini" a porre per primi la questione dell'unità della Penisola, insieme al tema della sua indipendenza e delle libertà politiche. Erano giacobini tutti i propugnatori dell'Unità d'Italia da realizzarsi tramite la lotta di classe della borghesia italiana e delle larghe masse popolari in funzione antifeudale ed antimonarchica e tramite la guerra popolare, unitaria, di liberazione nazionale dall'oppressione straniera. Erano intellettuali di ispirazione giacobina, gli eroici patrioti antiborbonici che diedero vita alla Repubblica partenopea del 1799, affogata nel sangue dalle armate di "briganti e lazzari" assoldate dal sanguinario Cardinale Ruffo.
Il generale Bonaparte aveva da poco liberato con la sua armata il Piemonte e la Lombardia. Gli italiani cominciarono a sperare in forme di autogoverno. Lo stesso Napoleone creò addirittura un prototipo di Regno d'Italia avente il suo centro a Milano.
Nel 1796 l'Amministrazione generale della Lombardia chiese "a tutti i buoni cittadini e amanti della libertà" di rispondere al quesito: "Quale dei governi liberi meglio convenga alla felicità d'Italia" per rendere "familiari al popolo gli eterni principi della libertà ed eguaglianza?". Il concorso fu vinto da Melchiorre Gioia, filosofo ed economista piacentino, fautore di una repubblica unitaria, come la maggior parte dei partecipanti.
Non mancarono "giacobini" che consideravano il federalismo l'opzione più idonea per unire l'Italia, come Giovanni Antonio Ranza e Gianmaria Bosisio. Secondo Ranza, "siccome l'Italia è divisa da molti secoli in domini e costumi, e dialetti, ed interessi diversi, non è ora possibile di darle una forma di governo unica per tutti". Egli propugnò perciò "l'unità del governo federativo degli Stati Uniti d'America e dei Cantoni Svizzeri". In entrambi i casi il federalismo aveva consentito di realizzare finalmente l'unità statuale fra enti prima sovrani e confederati. La Costituzione di Filadelfia, entrata in vigore nel 1789, rispetto alla precedente Confederazione costituita da tredici stati sovrani non immuni da ostilità reciproche, definisce il nuovo Stato federale "una unione più perfetta".
È richiamandosi a quel significato che Ranza introduce la soluzione federalista per l'Italia. L'unità della Penisola sarebbe sorta dall'organizzazione di undici repubbliche federate, ossia "Stati liberi federati d'Italia". Il vero momento di unione sarebbe stato rappresentato dal Congresso generale, le cui competenze dovevano essere la guerra, la pace e il commercio con l'estero. Sorgendo come unità di repubbliche, la federazione non sarebbe stata retta né da un monarca né da una figura dello Statolder (luogotenente generale, la cui carica era diventata ereditaria). Del resto, lo stesso Ranza aveva sollevato i piemontesi contro i Savoia.
Bosisio, a sua volta, dava fondamenta alle sue argomentazioni federaliste basandosi sulle teorie del filosofo illuminista Montesquieu, secondo il quale anche il clima va considerato tra i fattori che determinano le diverse forme di governo. Siccome in Italia vi è "una tale varietà di climi quanti ve n'ha forse in tutta Europa", per Bosisio era necessario pensare per la Penisola a "diverse forme di regime".
Ranza e Bosisio, coerenti con la matrice illuministica del loro pensiero, ritenevano il federalismo la forma più adeguata per unire l'Italia e per sostituire ai piccoli Stati dei prìncipi le repubbliche federate dei popoli liberi.
Tuttavia, i progetti unitari avanzati dai "giacobini" italiani furono presto frustrati dall'espansione della grande Nation e dalla dominazione napoleonica. In realtà il Regno d'Italia creato da Napoleone era nulla più che uno Stato fantoccio; in effetti i governanti francesi miravano piuttosto a porre l'Italia settentrionale sotto il controllo della repubblica "madre".
La legislazione napoleonica dell'anno VIII delineò in Italia e in Europa, per più della metà della popolazione del vecchio continente, un assetto amministrativo fortemente centralizzato, tramite l'istituzione prefettizia e la completa centralizzazione dell'assetto amministrativo. Tale modello sopravvisse a Napoleone e fu adottato anche dal Congresso di Vienna.

Dal Congresso di Vienna al federalismo neoguelfo di Gioberti
Con la caduta dell'impero napoleonico, la situazione all'interno dell'Italia torna fluida per le mire delle potenze vincitrici. All'interno, però, si cercano soluzioni per evitare una nuova dominazione straniera e soddisfare le aspirazioni alla nazionalità e all'indipendenza. Attraverso proposte moderate e attente alle esigenze della diplomazia internazionale, si cercava di mantenere in vita il Regno italico. In questa fase l'opzione federalista appariva la più realistica e pragmatica. Anzi, progetti federativi furono ispirati persino dalle cancellerie europee.
Benedetto Boselli nel suo "Nota d'un italiano agli altri principi alleati" (1814), diede voce alle preoccupazioni della diplomazia francese per l'allargamento del potere dell'Austria nella Penisola. Di qui la richiesta di Boselli di dare ascolto al desiderio di indipendenza dei popoli della Penisola, con la costituzione di una Lega italiana (sul modello delle confederazioni svizzera e germanica) che spegnesse le mire egemoniche di Francia e Austria.
Persino un repubblicano come Francesco Benedetti, pur di raggiungere l'indipendenza d'Italia, arrivò a proporre per il Paese una federazione di monarchie costituzionali. Luigi Angeloni, legato ad ambienti massonici e settari, poco sensibile alle esigenze della diplomazia internazionale, faceva esplicito riferimento al modello americano e svizzero. Egli parlava di vincolo federale tra gli Stati italiani, per fare della Penisola "quasi un solo dominio", in grado di tutelare la propria autonomia. Ciò sarebbe stato possibile solo escludendo gli Asburgo e i francesi dall'Italia. Gli Stati membri avrebbero poi dovuto darsi ordinamenti liberali, garantiti dal vigile controllo di una Dieta nazionale.
Angeloni, esule in Francia e in Inghilterra, divenne punto di riferimento dell'emigrazione politica italiana, da Buonarroti a Mazzini. Nel 1818 pubblica a Parigi "Dell'Italia": dura requisitoria contro le decisioni prese a Vienna che avevano negato agli Stati italiani la libertà e l'indipendenza, le promesse fatte durante la lotta antinapoleonica. Angeloni rilancia come modello gli Stati Uniti d'America, una federazione "retta a popolo" repubblicana.
Anche alla luce delle rivoluzioni del 1820-21 e 1830-31 si consolida l'idea che il progresso culturale e civile aveva ormai generato negli Stati italiani il bisogno sia di un regime costituzionale sia dell'indipendenza nazionale (Gian Pietro Vieusseux). Al tempo stesso, il problema italiano veniva inquadrato in quello più generale dell'equilibrio europeo. Con la rivoluzione parigina del 1830 si polarizzano le correnti moderata e democratica del federalismo, entrato a fare corpo con le ideologie risorgimentali. Prevalse largamente l'opzione liberale, gradualista e attenta a rendere le istanze di libertà e indipendenza nazionale con la conservazione del potere dei principi, in un quadro di riferimento istituzionale che privilegiava la federazione di Stati monarchici.
L'impostazione riformistico-gradualista trovò il suo punto di maggiore coagulo nel "Primato" del sacerdote Vincenzo Gioberti, opera uscita nel 1843 a Bruxelles ma destinata a influenzare il dibattito politico e culturale in Italia fino alla rivoluzione del 1848.
Per Vincenzo Gioberti la configurazione politica, economica e geografica rendeva più adatta una struttura federale fra i sette Stati che componevano l'Italia. Lo Stato pontificio, anziché ostacolo, poteva trasformarsi nello strumento più valido per una unità federata. Il Piemonte sarebbe dovuto esserne il baluardo militare. Grazie alla supremazia del religioso sul politico, versione riverniciata dell'oscurantismo medioevale, all'Italia doveva essere riconosciuta la guida della rinascita europea, una teoria che ritroviamo costantemente nelle odierne encicliche del papa nero Ratzinger.
Per quanto riguarda il riordinamento interno degli Stati, per conciliare esigenze dei prìncipi e aspirazioni dei popoli, Gioberti tratteggiava un sistema di monarchia consultiva, in linea con la tradizione del riformismo settecentesco.
Con l'avvicinarsi del '48 e con la rapida evoluzione politica in corso, persino il moderatismo e il neoguelfismo apparivano rivoluzionari. Si pensi all'elezione di Pio IX e il suo programma di riforme e il disegno di una Lega doganale tra gli Stati italiani preunitari sul modello dello Zollverein tedesco, che attraverso l'integrazione economica portò nel 1871 all'unificazione della Germania. Entrambi i progetti trovarono in realtà ostacoli insormontabili e lo scoppio del '48 mise definitivamente in crisi il progetto moderato di riformismo dall'alto. Con l'allocuzione ai vescovi del 29 aprile fu lo stesso Pio IX a dichiarare con chiarezza di non volere partecipare alla guerra contro l'Austria e di non volere presiedere a una federazione nazionale.
Fu la rivoluzione del 1848 a svelare tutte le contraddizioni del "realismo" giobertiano, la volontà cioè di conciliare tutto (cattolicesimo e civiltà moderna, papato e movimento nazionale, prìncipi e popolo, conservazione e innovazione) e quanto saggi e acuti sarebbero stati gli avvertimenti espressi da Engels nel 1877 nell'opera L'evoluzione del socialismo dall'utopia alla scienza: "il grande centro internazionale del feudalesimo era la chiesa cattolica romana. Essa riuniva tutto l'Occidente feudale europeo, malgrado tutte le sue guerre intestine, in un grande sistema politico che era in contrasto sia con i greci scismatici che con il mondo mussulmano. Essa circondava le istituzioni feudali dell'aureola di una consacrazione divina. Essa aveva modellato la sua gerarchia su quella della feudalità, e infine era essa stessa diventata il più potente di tutti i signori feudali, perché almeno un terzo di tutti i possedimenti fondiari del mondo cattolico le apparteneva. Prima di poter attaccare il feudalesimo profano separatamente in ogni paese, bisognava abbattere questa sua organizzazione centrale, sacra".
Accadde ciò che presagì Giacomo Durando, per il quale le libertà politiche erano un'esigenza imprescindibile dei tempi, da cui inevitabilmente sarebbe scaturito lo scontro con l'Austria. Egli riteneva inaffidabile il cosmopolitismo cattolico e l'utopismo giobertiano: mai il papa avrebbe potuto portare fino in fondo le esigenze nazionali e i fini anti-austriaci. La soluzione per Durando era perciò una federazione di tre Stati, un ordinamento di transizione verso l'obiettivo ultimo di un più stabile e compiuto assetto unitario.

La crisi del '48 e la frattura nella corrente democratica
Fu nell'aprile del 1848 che tramontò definitivamente l'idea che l'unità d'Italia potesse realizzarsi come federazione dei sette Stati pre-unitari. Il fermento delle masse popolari favorì lo sviluppo del movimento nazionale, così come la volontà di esistere alle diplomazie e alle opinioni pubbliche dei governi stranieri. Tuttavia le contraddizioni interborghesi si rivelarono funeste per il movimento nazionale e le aspirazioni di unità, indipendenza e libertà.
Oltre al progetto neoguelfo, fallì anche quello della "costituente" democratica, lanciato con l'obiettivo di dare alle forze della rivoluzione nazionale una unità di direzione attraverso un parlamento e un governo italiani. Questo progetto, di chiara ispirazione democratico-mazziniana, si arenò per le contraddizioni delle divisioni politiche, dei municipalismi e delle diverse velleità autonomistiche, nonché per l'intervento militare di Francia e Austria che soffocarono nel sangue i governi democratico borghesi e quelli repubblicani in varie città d'Italia. Di conseguenza, con la restaurazione post '48 si esercitò la riflessione delle varie correnti borghesi. Si aprì una grande stagione di dibattiti e si accentuò la frattura tra Mazzini e gli unitari da un lato e Cattaneo e i democratici federalisti dall'altro.
I primi chiedevano "indipendenza e unità", non importa "in quale forma". Mazzini era convinto che "l'Italia, se divisa in una dozzina o mezza dozzina, o anche soltanto in un paio di Stati separati, sarebbe [stata] ridotta in pezzi dalla guerra civile, e sarebbe [stata] prima o poi soggiogata da guerre esterne". E tuttavia molti ex repubblicani ed ex mazziniani finirono poi per accettare le tesi unitarie di collaborazione con la monarchia piemontese.
Cattaneo si opponeva non all'unità dell'Italia in quanto tale ma a quella che definiva la "nuda unità", ovvero quel tipo particolare di soluzione unitaria che la monarchia piemontese voleva dare al problema italiano e che sacrificava la libertà all'indipendenza. Per Cattaneo, viceversa, il "voto di indipendenza trionfante e di libera unità" del mazzinianesimo "non poteva mai, mai compiersi se non colla forma repubblicana".
Egli poneva perciò in secondo piano l'obiettivo dell'indipendenza (posizione che gli attirò l'accusa di spia degli austriaci), ritenendo che essa sarebbe derivata come naturale conseguenza della conquista della libertà. Coerentemente con il suo credo repubblicano, egli riteneva che il nuovo Stato nazionale sarebbe dovuto sorgere sulla base di un patto federale tra liberi popoli. Era questa la "sola possibile forma d'unità" che egli ammetteva. Il patto federale non era principio di isolamento e separazione, ma di associazione.
Egli si premurava di raccomandare agli amici di spiegare bene che la teoria federalista si opponeva sì alla fusione tumultuosa di tutti gli Stati italiani in uno solo, ma non si opponeva né all'unità nazionale immediata né alla graduale unificazione delle leggi: per giungere all'unità nazionale, all'assorbimento di tutti gli Stati in uno solo, la federazione di Stati liberi rappresentava la via più democratica e partecipativa per i popoli. Da qui, di nuovo, l'assunzione della Svizzera e degli Stati Uniti d'America a modelli di democrazia federale.
Tuttavia, con il susseguirsi delle rivoluzioni ottocentesche, la resurrezione dell'Italia come fatto nuovo, come movimento energicamente indirizzato all'unità e libertà della nazione, era ormai avviato. L'opzione federalista di Cattaneo, non al passo con la presa di coscienza di sé della nazione italiana, seppure assai sensibile alla questione democratica, divenne fortemente minoritaria.

Le guerre d'indipendenza
L'Italia disegnata dal Congresso di Vienna era divisa in più Stati e ducati. Situato a nord-ovest vi era il Regno di Sardegna che dal 1815 comprendeva pure l'importante centro marittimo di Genova. Più a oriente, vi era il regno Lombardo-Veneto, governato direttamente dagli austriaci, i quali controllavano anche il ducato di Parma e Piacenza, il granducato di Toscana, il ducato di Modena e Reggio e il ducato di Lucca. Il controllo asburgico sulla Penisola si estendeva anche allo Stato Pontificio, con il diritto di presenza militare sul suo territorio, mentre tutto il Sud e la Sicilia erano sotto il dominio dei Borbone napoletani, alleati degli austriaci. Nel 1848 cominciarono a esplodere varie insurrezioni nei domini sottoposti agli austro-ungarici, in particolare a Venezia e Milano e nei domini sottoposti ai borbonici. La prima insurrezione in tutta Italia scoppiò a Palermo il 12 gennaio e nel giro di pochi giorni si estese a tutto il Mezzogiorno. Governi democratici borghesi e, in taluni casi, repubblicani si ebbero in diverse città, tra cui Roma. Tuttavia, il '48 italiano e la prima guerra di indipendenza si conclusero con la vittoria austriaca e dei sovrani reazionari.
Nel 1852 divenne primo ministro del Regno Sabaudo Camillo Benso Conte di Cavour, il quale attuò numerose riforme economiche al fine di rendere lo Stato di Sardegna più moderno, potenziando le ferrovie, ampliando il porto di Genova e favorendo la nascita dell'industria, fino ad allora inesistente nel Paese. Nel 1855 il Regno di Sardegna, sotto indicazione di Cavour, partecipò alla guerra di Crimea, inviando 15 mila uomini. Questa partecipazione permise al Regno Sabaudo di essere presente al congresso di Parigi l'anno seguente dove il primo ministro attaccò il comportamento austriaco e si creò simpatie tra inglesi, francesi e prussiani.
Nel 1858 Cavour strinse con Napoleone III un accordo segreto a Plombières, con il quale i francesi avrebbero sostenuto i Savoia in caso di attacco austriaco a patto che fossero gli austriaci ad attaccare. Napoleone III avrebbe infatti salutato con giubilo la creazione di un compatto Stato dell'Italia del Nord in cui l'influenza della Francia si sarebbe sostituita a quella dell'Austria.
Adottando un comportamento provocatorio nei confronti degli austriaci, Cavour riuscì nell'intento di farsi dichiarare guerra, dando inizio alla seconda guerra di indipendenza italiana, che iniziò il 29 aprile 1859. Dopo una serie di vittorie franco-italiche, Napoleone III cominciò le trattative, all'insaputa dei piemontesi, che terminarono, con i trattati di Villafranca, con la cessione da parte degli austriaci della Lombardia ma non del Veneto e di Venezia (come invece previsto dagli accordi di Plombières). Cavour deluso tentò, senza successo, di convincere il re a continuare da solo. Terminata la seconda guerra di indipendenza i ducati di Modena, Parma, Emilia, Romagna e Toscana vollero unirsi allo Stato sabaudo. Gli accordi di Plombières prevedevano però l'annessione di Nizza e della Savoia alla Francia, cosa che provocò ulteriori proteste.
Il Regno di Sardegna comprendeva a questo punto i territori delle attuali regioni Valle d'Aosta, Piemonte, Sardegna, Lombardia, Emilia-Romagna, Liguria e Toscana, mentre rimanevano esclusi quelli di Umbria, Marche e Lazio, sottoposti al dominio pontificio, oltre al sud. Nel 1860 Garibaldi organizzò e guidò la spedizione dei Mille. La liberazione del Mezzogiorno fu irresistibile grazie all'appoggio delle masse popolari che combatterono a fianco del generale. La sconfitta finale dei borbonici avvenne sul Volturno il 1º ottobre 1860. Il 21 ottobre si tennero i plebisciti che decretarono l'annessione dei territori delle Due Sicilie al Regno Sabaudo. Mancavano ancora Veneto e Friuli, Roma, Trentino-Alto Adige e Venezia Giulia. Il parlamento sardo decise allora di proclamare nel 1861 il Regno d'Italia consegnando la corona a Vittorio Emanuele II e ai suoi eredi. Lo Statuto albertino venne esteso a tutto il Regno. Ne restavano fuori soltanto Roma, con la sua guarnigione francese, e Venezia insieme con il Trentino e Trieste sotto il dominio austriaco.
Il processo di unificazione fu portato a termine con la terza guerra d'indipendenza. Per conquistare Veneto e Friuli nel 1866 il Regno d'Italia dichiarò guerra all'Austria alleandosi con la Prussia. Le sconfitte però furono molte, le più famose a Custoza e Lissa. Gli unici successi vennero ottenuti da Garibaldi. La vittoria prussiana, però, fu d'aiuto all'Italia, che poté quindi richiedere l'annessione di Veneto e Friuli-Venezia Giulia.
Mancava Roma e per due volte Garibaldi ne tentò la conquista con i suoi volontari: nel 1862 e nel 1867, venendo fermato nel primo caso dalle truppe italiane, nel secondo dall'esercito francese, che anche nel 1862 aveva costretto l'esercito regio a intervenire. La guerra franco-prussiana e la sconfitta di Napoleone III favorirono una mossa militare da parte dell'Italia contro Roma, che il 20 settembre 1870 venne conquistata in seguito alla Breccia di Porta Pia.

Dal federalismo risorgimentale al regionalismo post-unitario
Cattaneo assistette con distacco e scarsa convinzione agli avvenimenti che dal Congresso di Parigi al trattato di Villafranca portarono alla liberazione della Lombardia. Non ritornò a Milano e non partecipò ai lavori del Parlamento, dove era stato eletto deputato. Si recò invece a Napoli, dove lo chiamò Garibaldi nell'ottobre 1860, quando con l'impresa dei Mille sembrava riaprirsi uno spazio all'iniziativa democratica. Pur rendendosi conto che l'unica soluzione della crisi era il plebiscito per l'annessione del Mezzogiorno al Regno di Sardegna, avrebbe voluto che, contemporaneamente, fosse eletta un'assemblea con lo scopo di stabilire i criteri dell'unificazione. A essa egli rivolgeva l'ultima speranza di avanzare la tesi federalista. Persino Mazzini si era espresso a favore dell'assemblea.
Tuttavia, ogni ipotesi di "sistema federativo", auspicato tra gli altri dal socialista riformista Giuseppe Ferrari, fu respinto con decisione. Esso, si rispose, rende deboli di fronte allo straniero e provoca discordie insanabili all'interno: nel concreto, avrebbe legittimato le ambizioni di Napoleone III sulla Penisola e, contemporaneamente, avrebbe dato fiato alla reazione borbonica e papalina, la quale costituiva la vera alternativa all'annessione. Queste convinzioni, condivise dalla larga maggioranza dei deputati, riflettevano le idee della maggior parte dell'"opinione pubblica" del tempo e l'ideale federalista, privo del suo sostegno e fortemente minoritario, imboccò, negli anni successivi la conquista dell'unità, la strada del regionalismo. Ciò avvenne tuttavia sulla base di un rovesciamento delle istanze federaliste. Conseguita l'unità, infatti, per gli stessi federalisti e autonomisti la decentralizzazione non poteva più essere realisticamente considerata un patto tra eguali, fondamentalmente derivava ormai da una delega del potere gerarchico centrale.
Per questa ragione il regionalismo fu valutato come opzione possibile persino dai moderati. Già nel maggio 1860 lo stesso ministro degli Interni Luigi Carlo Farini aveva sostenuto la necessità di conciliare "le ragioni dell'unità e della forte autorità politica dello Stato colla libertà dei comuni, delle province e dei consorzi". Farini fece inoltre riferimento ad "altri centri più vasti", le regioni ("le membrature naturali dell'Italia"), poste "al di sopra delle province, al di sotto del concetto politico dello Stato".
L'iniziativa di Farini era più o meno ispirata da Cavour, il quale, dopo le annessioni del marzo 1860, aveva ravvisato l'opportunità di un certo riconoscimento delle libertà locali, stando ben attenti a non sfociare nel federalismo. Nel progetto di Farini le province e i comuni avrebbero avuto un consiglio elettivo, mentre le regioni sarebbero state sede di un governatorato di nomina regia, affiancato da una rappresentanza di delegati eletti dai consigli provinciali. Successivamente Minghetti, che sostituì Farini al ministero degli Interni nell'ottobre del 1860, ridusse la portata politica del progetto del suo predecessore e trasformò le regioni in un mero "consorzio tra province".
Cattaneo, fallito il federalismo, dopo il 1861 ritenne di dover puntare a sua volta sull'istituto regionale, chiaramente non in chiave anti-unitaria, semmai per allentare la soffocante morsa accentratrice dello Stato sabaudo. Obiettivo raggiungibile soltanto con la costituzione della regione come ente autonomo e dotato di potestà legislativa. Per i suoi stessi epigoni democratici, repubblicani e filo socialisti, si trattava di ottenere insieme unità e democrazia. Un obiettivo che lo Stato unitario, nella forma assunta dopo il 1861 - con la centralizzazione, i prefetti, la burocrazia, la coscrizione militare e la legge unica - denunciavano, non era riuscito a raggiungere. Anzi, la promulgazione della legge comunale e provinciale del 20 marzo 1865 (nomina regia del sindaco, elettorato ristretto, presidenza della deputazione provinciale riservata al prefetto, difficoltà poste alla convocazione straordinaria dei consigli, durata limitata delle loro sessioni e scarsa pubblicità dei lavori) confermò nei fatti la continuità dell'apparato statale del Regno di Sardegna nel Regno d'Italia.
Se è vero che tale legge porta la firma della Destra storica, la "sinistra" borghese, una volta giunta al potere con Agostino Depretis, confermò quella rigida centralizzazione, pur avendola criticata dall'opposizione. Del resto, l'accentramento monarchico era funzionale al ruolo che il neonato Stato doveva svolgere nel processo di sviluppo e nella creazione dei prerequisiti della "modernizzazione" capitalistica. Ecco perché, laddove esisteva invece una borghesia emergente come in Lombardia, persino i moderati, a seguito della Legge provinciale e comunale di Crispi del 1888 che ratificò la legge accentratrice del 20 marzo 1865, per rivitalizzare lo Stato liberale, recuperarono la tradizione regionalistica italiana, seppure nella tradizione liberal-moderata di Farini e Minghetti, anziché repubblicano-federalista di Cattaneo.
A quest'ultimo, semmai, a partire dalla "crisi di fine secolo" e dalla ulteriore svolta accentratrice delle cosiddette "leggi speciali" di Giolitti, si richiamarono autori meridionalisti di parte socialista e repubblicano-democratica, i quali, denunciando l'unificazione forzata del 1861 e la svolta protezionista del 1887 a vantaggio dell'industria del Nord che aveva ridotto il Sud a "colonia di consumo", richiesero autonomie regionali legislative per rovesciare a favore delle forze popolari gli equilibri politico-sociali del Mezzogiorno.
Negli anni dall'unità allo scoppio della prima guerra mondiale, l'istanza regionalista affiora perciò costantemente e con particolare incisività nei movimenti socialista, repubblicano e liberal-democratico come proposta di riforma "dal basso" dell'autoritarismo dello Stato monarchico accentratore, fondato sulla protezione dell'industria settentrionale e gli interessi degli agrari del Mezzogiorno. Poi sarà soffocata dall'avvento del fascismo.

Capitolo II
Il federalismo dal fascismo alla Resistenza


Centralismo, autoritarismo e dittatura capitalistica aperta: l'avvento del fascismo
La fine della prima guerra mondiale imperialista provocò un forte sommovimento nella società italiana e ne mutò dal profondo i rapporti di forza interni. La crisi che investì le strutture fondamentali dello Stato liberale fece tornare al centro del dibattito anche il problema dell'assetto politico-istituzionale. L'annessione all'Italia di nuovi territori con tradizioni amministrative diverse - Trentino, Alto Adige, Trieste, Gorizia, Istria, alcuni territori della Carinzia e della Carniola - rilanciò la questione regionalista e autonomistica. L'esigenza di riordinare in senso decentrato lo Stato italiano fu avvertito pure da uomini e gruppi politici che fino a quel momento avevano avversato con tenacia una simile ipotesi. Persino Giolitti, il maggiore esponente politico della classe dominante borghese, fino ad allora apertamente antiregionalista, nella discussione sulla risposta all'indirizzo del re, in Senato espresse la necessità di creare "rappresentanze elettive delle singole regioni", arrivando a "determinare ben chiaramente quali attribuzioni si tolgono allo Stato per darle alle regioni".
Decisiva fu la spinta potente del movimento dei lavoratori per un mutamento nell'indirizzo della classe dominante borghese, resa evidente tra l'altro dai risultati delle elezioni amministrative dell'autunno del 1920 che evidenziarono la grande forza dei socialisti. Contestare e rinnovare l'ordinamento amministrativo dello Stato, significava mettere in discussione i rapporti di classe affermatisi in Italia dall'unità nazionale in avanti. Per la prima volta si cominciò a parlare di "democrazia del lavoro" e addirittura di "parlamento del lavoro" per aumentare il peso decisionale dei lavoratori non solo in fabbrica e nei luoghi di lavoro, ma anche nella gestione delle politiche economiche e sociali (rimanendo tuttavia nell'ambito del capitalismo e dello Stato borghese). In questi casi, si spingeva per il passaggio dal federalismo politico-territoriale al "federalismo sociale", come risposta alla crisi dello Stato liberale. La stessa borghesia liberista manifestava l'esigenza di liberare il paese dal centralismo, il cui apparato burocratico era cresciuto a dismisura durante la guerra, insieme agli interventi in campo economico e sociale.
I nuovi equilibri politico-sociali spinsero il riformista e anticomunista Salvemini a rilanciare gli insegnamenti federalisti di Carlo Cattaneo, coniugando la "ricostruzione delle autonomie locali" anziché alle regioni, "organi inesistenti", al potenziamento dei comuni e delle province. La strada indicata da Cattaneo e Ferrari, per far superare al Paese il "periodo di dissoluzione", fu seguita anche dal movimento repubblicano, preoccupato con Oliviero Zuccarini di "conquistare all'Italia ordinamenti nuovi basati nella ricostruzione della vita locale coordinata alla nazionale"; il termine di decentramento andava integrato con quello di unità federale, per ottenere quella "migliore unità che fosse a tutti benefica". Come nel corso del Risorgimento, anche negli anni della crisi del primo dopoguerra, l'ordinamento federale anziché contrastare con l'unità nazionale, si ergeva a sua più sicura garanzia. Il "regionalismo dal basso" di Zuccarini per una repubblica "democratico-federale" conviveva in stretta sintonia con la "nuova democrazia" a cui conduceva il "federalismo dal basso" di Salvemini.
Che l'unità fosse ormai un dato storico acquisito è provato anche dalle posizioni assunte dal sacerdote Luigi Sturzo e dal movimento cattolico, tradizionalmente accusati di non volere accettare la realtà dello Stato unitario (in linea con il "Non expedit" più volte espresso dal Vaticano dal 1868 in avanti contro la partecipazione dei cattolici alla vita politica dell'Italia, avendo il papa perso a causa dell'unità il potere temporale). La regione che Sturzo tratteggiò al Congresso del Partito popolare tenuto a Venezia nell'ottobre 1921 non aveva più alcun rapporto con le sue precedenti aspirazioni al federalismo che miravano in precedenza a mobilitare le masse contadine del Mezzogiorno in chiave anti-unitaria. "Lo Stato italiano era unitario, non federale", dichiarò solennemente e l'istituzione della regione come ente autonomo ne rafforza le capacità d'intervento nelle sue funzioni fondamentali. Fin dal principio il regionalismo di Sturzo "si saldava con l'immissione nella vita politica delle masse contadine del Mezzogiorno". Il Partito popolare italiano (da cui nacque nel 1942 la Democrazia cristiana), apertamente regionalista, in realtà e a fini anti-comunisti si collocava a mezza strada fra lo Stato tradizionale italiano e il movimento dei lavoratori guidato dai riformisti e dai revisionisti. Per l'affermazione dell'istanza regionalista, infatti, i cattolici, con un occhio rivolto anche agli interessi agrari, puntavano più sull'iniziativa dei poteri statuali borghesi anziché sul movimento "dal basso" delle masse popolari.
Proprio per esse, per le masse popolari e le masse lavoratrici, anche negli anni del dopoguerra, autori "meridionalisti" come il liberale Guido Dorso continuavano a invocare l'autonomismo, per "completare la rivoluzione liberale del Risorgimento anche a vantaggio delle popolazioni meridionali", contro il potere regio, il trasformismo politico e il "blocco agrario". Anche in questo caso, la natura borghese e capitalistica dello Stato unitario non era minimamente messa in discussione.
Tendenze separatiste, semmai, affioravano in Sicilia su iniziativa degli agrari. In Sardegna le rivendicazioni al limite del separatismo trovarono espressione in alcune frange del Partito sardo d'azione, nato nel 1919. Proprio sulla questione del separatismo avvenne il progressivo distacco del Partito sardo d'azione dal fascismo, con cui aveva in comune l'origine degli ex-combattenti e l'antisocialismo. Il fascismo stesso, infatti, nel programma del 1919 aveva sviluppato contenuti autonomistici che rientravano, in realtà, in un più vasto piano di ristrutturazione dell'amministrazione dello Stato improntata alla mera efficienza tecnica. Nel dibattito che ne scaturì, il Partito sardo d'azione, al II Congresso del 1923, precisò la sua proposta autonomista come primo passo verso l'istituzione di uno Stato federale e non come semplice riforma amministrativa. Lo stesso ente regione, fu dichiarato, aveva senso solo come proposta "dal basso" e non imposta dal governo centrale.
La risposta del fascismo alle richieste di autonomia e di regionalismo "dal basso" trovò espressione nella circolare inviata nel febbraio 1923 da Mussolini ai membri del suo governo, con cui troncava qualsiasi apertura verso ogni forma di decentramento "dal basso", definendoli pericolosi per la stabilità dello Stato unitario e per il mantenimento della "disciplina" della nazione. Il fascismo si giovò dell'esperienza delle risposte fornite dai governanti precedenti alle pressanti richieste volte ad allargare il raggio delle autonomie e delle magistrature decentrate. In pratica, il fascismo istituì un numero notevole di nuove province nell'ambito di un decentramento meramente burocratico dello Stato italiano, che accentuò così i suoi caratteri reazionari e antipopolari. Prima ancora il boia di Predappio aveva scatenato una furia devastatrice contro i "comuni rossi" e, una volta al potere, avviato lo scioglimento di comuni e consigli provinciali. Fino ad arrivare al 1925, anno in cui cominciò la "riforma" fascista degli enti locali, con l'istituzione dei podestà e delle consulte municipali. Nel 1926, inoltre, tra le leggi "fascistissime" si distinsero quelle che abolivano le amministrazioni locali elettive.
Tutti i tentativi di decentramento furono soffocati con la violenza dal regime fascista, accentratore e ferocemente autoritario, utilizzato dai liberali per riprendere il controllo della situazione.
All'indomani del colpo di Stato del 3 gennaio 1925, fu un giovane repubblicano che poi avrebbe aderito al Partito socialista, Rodolfo Morandi, a denunciare l'accentramento fascista e monarchico e il ritardato sviluppo del capitalismo italiano. "Lo sviluppo del capitalismo nel nostro paese - scrisse nel 1925 nell'articolo 'Problema delle autonomie', pubblicato su 'Rivoluzione liberale' di Piero Gobetti - iniziatosi più tardi che altrove [...] tende logicamente al più rigoroso accentramento monopolista di ogni forma d'attività. È necessario al capitalista che da Roma si muovano i fili da cui dipende la vita d'ogni grande o piccolo centro di produzione, perché gli è necessario poter disporre d'un governo che abbia in mano direttamente tutto il paese, per il gioco incontrastato dei trust e delle speculazioni bancarie. D'altro canto solo una tal forma di costituzione rende possibile all'alto capitalismo di manovrare la politica interna ed estera conforme ai propri esclusivi interessi, a danno effettivo di quelli generali della Nazione". Riformisticamente però Morandi sosteneva nel suo programma, a cui si indirizzavano "le correnti evolute del socialismo", che "l'ordinamento autonomistico non potrebbe che riuscire oggi un colpo formidabile e forse decisivo alla società capitalista".

Autonomie e regionalismo dall'antifascismo alla Resistenza
Dal momento in cui il fascismo - presentato dal filosofo del fascismo Giovanni Gentile come lo "Stato nuovo" autoritario, gerarchico e militarizzato - aveva annullato ogni ipotesi di decentramento, anche la più velleitaria e astratta, l'istanza regionalista e autonomista divenne patrimonio comune delle forze antifasciste. Per la corrente liberal-democratica il fascismo rappresentava l'estrema manifestazione dello Stato monarchico e centralistico nato dal Risorgimento, fondamentalmente ostile fin dalla sua nascita alla libera espressione delle autonomie locali e al principio liberal-democratico di matrice anglosassone dell'autogoverno. Negli anni della dittatura fascista, la corrente liberal-democratica si riallacciò così alle correnti autonomiste e federaliste sconfitte nel Risorgimento e nell'Italia post-unitaria. A loro volta, le correnti socialista e comunista revisionista legavano la questione delle autonomie al problema della concezione della democrazia borghese e della partecipazione delle masse popolari e contadine alla direzione dello Stato capitalistico.
Tra le riviste antifasciste impegnate nel dibattito sul decentramento, fu "Il Quarto Stato" di Pietro Nenni e Carlo Rosselli a porre le basi di una convergenza tra forze liberal-democratiche e socialiste, individuando i pilastri della rinascita dello Stato borghese nell'autonomismo e nella forma repubblicana. Proprio questi due principi rappresentarono il punto di partenza del programma liberaldemocratico di "Giustizia e Libertà" del '32. Esso delineava un nuovo Stato borghese fondato sulle autonomie e con un governo centrale le cui prerogative si sarebbero limitate alle sole "intraprese [...] nazionali". Non mancò neppure chi, come Emilio Lussu nell'articolo "Il federalismo" pubblicato nel 1933 sui "Quaderni di Giustizia e Libertà", richiamandosi alla tradizione risorgimentale, ripropose la "repubblica regionale" con competenze legislative e amministrative. Per Lussu, come per il "socialista-liberale" Rosselli, l'obiettivo era di trovare il modo di avviare un'azione "rivoluzionaria dal basso", per arrivare a una riforma del capitalismo, individuato nella sua concentrazione monopolistica come uno dei principali supporti della dittatura fascista e nazista. Proprio per questo, nell'illusione di potere "democratizzare" il fascismo e il capitalismo, i torinesi di "Giustizia e Libertà" come Leone Ginzburg, sulla scorta di Gramsci e Gobetti, preferivano parlare chiaramente di federalismo dei "sovieti" e di "consigli di fabbrica".
Dopo l'assassinio di Rosselli da parte dei fascisti, le idee degli intellettuali democratico borghesi di "Giustizia e Libertà" culminarono nella riflessione di Silvio Trentin, approdato nel corso degli anni Trenta dal precedente radicalismo democratico borghese al "socialismo federalista e rivoluzionario", in virtù del "riconoscimento della necessità di una rivoluzione che si proponga d'instaurare nuove istituzioni economiche e politiche sulle rovine del capitalismo". Così scriveva Trentin nel 1933 in "Riflessioni sulla crisi e le rivoluzioni", la stessa opera in cui egli annunciò di guardare "al socialismo e di conseguenza all'accettazione incondizionata dell'economia collettivista, della politica di piano, e alla presentazione dell'Unione Sovietica [...] come un indispensabile alleato per la futura rivoluzione italiana". Molte delle idee di Trentin, va sottolineato, confluirono nella "Carta ideologica" di "Giustizia e Libertà"" del 1938.
Dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale, l'idea federalista dell'antifascismo conobbe un ulteriore grande sviluppo con la Resistenza. Nacque la Federal Union a Londra nel 1939, il Comitato francese per la federazione europea nel 1944, e, soprattutto, il Movimento federalista europeo, con il "Manifesto di Ventotene" del 1941 e gli scritti del trotzkista Altiero Spinelli, espulso nel 1937 dal PCI revisionista con l'accusa di voler "colpire dall'interno le basi della dottrina marxista e minare l'ideologia bolscevica", ed Ernesto Rossi, tra i fondatori di "Giustizia e Libertà". Essi, per superare il "bellum omnium contra omnes" degli Stati capitalistici nazionali sovrani, proponevano una federazione europea, l'unica forma politico-istituzionale che potesse garantire, secondo loro, all'intero continente pace, libertà, giustizia sociale, sviluppo economico e progresso culturale. Fondamentalmente Spinelli e Rossi, nella loro prospettiva complessivamente liberal-democratica e interclassista, finivano per giudicare non antagonistici gli interessi di borghesia e proletariato.
Con il conseguente ingresso di Spinelli e Rossi nel Partito d'Azione, le tesi federaliste permearono l'azione del partito nel Nord Italia. Il regionalismo del Partito d'Azione era accolto favorevolmente dai repubblicani, alcuni liberali e dai democristiani eredi della tradizione di Luigi Sturzo. Ne diffidavano inizialmente PSI e PCI revisionista preoccupati che organismi locali dotati di vasti poteri potessero cadere in mano delle forze conservatrici e reazionarie. Era già cominciato quel dibattito sul regionalismo che troverà nell'Assemblea Costituente la sua più approfondita e consapevole espressione.

Capitolo III
Il federalismo nell'Assemblea Costituente

Con la caduta della dittatura fascista, nei progetti di riforma dello Stato borghese il regionalismo si trovò a rappresentare un'opzione liberal-democratica. Fin dal 1944 il governo Bonomi istituì un'apposita Commissione per lo studio di riforma dell'amministrazione locale. L'anno successivo il ministero per la Costituente nominò una Commissione per la riforma dello Stato in cui cominciarono ad articolarsi le posizioni dei diversi partiti. Da un lato vi era la destra conservatrice e liberale contraria al regionalismo (con l'eccezione di Luigi Einaudi), dall'altro DC, repubblicani e azionisti appoggiavano soluzioni favorevoli all'autonomismo regionale e persino federaliste. A entrambi, in quella fase, erano fermamente contrari PCI e PSI, anche se il partito revisionista, con un intervento di Togliatti al V Congresso, apriva all'autonomismo regionale per i casi specifici di Sicilia e Sardegna.
La posizione di Togliatti (unità nazionale e decentramento per le isole) non rappresentava certo una novità nel partito, dal momento che già Gramsci nel 1923, in una lettera che aveva scritto per la fondazione dell'"Unità", analizzando la questione meridionale, per evitare il pericolo di una secessione del Sud, si dichiarò a favore dell'autonomia locale per non isolarsi dai contadini del Mezzogiorno, tra i quali i movimenti autonomistici erano molto diffusi in qualità di punto di riferimento per la risoluzione del problema della terra. L'obiettivo di Gramsci, in realtà, era di aprire alle richieste di decentramento delle masse contadine meridionali per meglio includerle nello Stato unitario borghese, tradendo la rivoluzione e il socialismo. "Il Mezzogiorno è in fermento e tende a darsi una figura di opposizione nazionale territoriale - dirà Gramsci in una lettera del 1924 -, mettendo in grave pericolo l'unità". Negli anni immediatamente successivi alla presa del potere da parte del fascismo, ciò che più contava per Gramsci (così come per Togliatti in seguito) era di salvaguardare l'integrità e di conseguenza la solidità dello Stato borghese, anche se questo aveva indossata la camicia nera.
Anche nel pieno della dittatura fascista, quando la Chiesa si smascherava agli occhi del mondo intero barattando i suoi antichi privilegi feudali con la fascistizzazione dell'Azione cattolica (Concordato del 1929), anziché avvalersi della forza dirompente dei contadini e dell'alleanza di questi con la classe operaia, con le "Tesi sul lavoro contadino nel Mezzogiorno" redatte nel 1926 da Ruggero Grieco, il PCI revisionista si preoccupò semmai di legare più saldamente allo Stato fascista unitario le regioni meridionali in odore di secessionismo, immaginando di organizzarle in tante "repubbliche soviettiste", le quali, insieme alla Federazione settentrionale, avrebbero costituito l'"Unione soviettista italiana". Un disegno politico totalmente fuori dalla realtà, in quel particolare momento storico, che aveva come esito soltanto quello di ingannare le masse contadine dirottandole su falsi obiettivi e di rafforzare di conseguenza la dittatura fascista.
Nel 1931, al Congresso di Colonia, il PCI revisionista chiese per le regioni meridionali "l'autonomia politico-amministrativa" e parlò di una sola repubblica per il Mezzogiorno, al posto delle diverse "repubbliche soviettiste". La bandiera del federalismo serviva a illudere le masse popolari che fosse ancora possibile ottenere "la più larga democrazia" negli anni bui della dittatura fascista.
La verità è che il PCI revisionista non intese la natura di dittatura di classe del fascismo. Piuttosto considerò il feroce regime mussoliniano come un momento di crisi drammatica dello Stato di diritto borghese italiano, caratterizzato fin dalla sua nascita dallo scollamento tra masse popolari e classe dominante borghese e, di conseguenza, contrassegnato da un rigido e soffocante centralismo (prima sabaudo, ora fascista). Una crisi da cui era possibile uscire, secondo il PCI revisionista, in modo democratico e riformista con "la più larga partecipazione delle masse al governo dei propri affari", l'unico modo per non mettere a repentaglio l'unità nazionale territoriale, la quale in quel preciso momento storico, semmai rappresentava la base materiale dell'accentramento monopolistico della classe dominante borghese sostenuta dal regime fascista, un dominio feroce contrastato dalle masse popolari (soprattutto contadine e del Mezzogiorno).
Ispirata da Stalin, la XIIIª sessione plenaria del Comitato Esecutivo dell'Internazionale Comunista fondata da Lenin, in diretto contrasto con la cecità di Gramsci e il settarismo del trotzkista Amedeo Bordiga (primo segretario del partito revisionista), definirà il fascismo: "una dittatura terroristica aperta degli elementi più reazionari, più sciovinisti e più imperialisti del capitale finanziario. Il fascismo si sforza di assicurare al capitale monopolistico una base di massa in seno alla piccola borghesia, facendo appello ai contadini disorientati, agli artigiani, agli impiegati, ai funzionari e in particolare agli elementi déclassés delle grandi città, e tenta di penetrare anche nelle file della classe operaia".

Il dibattito sulle regioni nelle commissioni
Il dibattito sulle autonomie toccò il suo momento topico durante i lavori dell'Assemblea Costituente, eletta il 2 giugno 1946. Sulla linea del regionalismo si confermavano DC, Partito repubblicano (figlio della tradizione democratica del Risorgimento), il Partito d'Azione (erede di "Giustizia e Libertà" e combattivo fautore del federalismo) e il Movimento indipendentista siciliano (che voleva fare dell'isola una Repubblica libera e indipendente). Contro l'opzione autonomistica si ergevano il PCI revisionista e il Partito liberale (con l'eccezione di un gruppo di dissidenti, tra cui Luigi Einaudi).
Una volta insediatasi, l'Assemblea Costituente delibera la nomina di una Commissione per la Costituzione, detta anche "dei Settantacinque" dal numero dei suoi membri, presieduta da Meuccio Ruini del gruppo misto e incaricata di redigere un progetto da sottoporre all'approvazione dell'intera Assemblea. Nella sua prima seduta (20 luglio 1946) la Commissione decide di dividersi, per l'analisi delle singole questioni, in tre Sottocommissioni, alla Seconda delle quali, che si occupa dell'ordinamento dello Stato, viene affidato il compito di dibattere il problema delle autonomie, che costituirà, poi, oggetto specifico di trattazione del "Comitato dei Dieci".
Un dato singolare che emerge ad una prima analisi è l'affievolirsi della spinta regionalistica, man mano che si passa dai documenti prodotti dal Comitato a quelli della Sottocommissione, fino al dibattito in Assemblea plenaria. Infatti, per sconfiggere il rigido centralismo statale si ritiene, da più parti, che si debba partire da aree politico-amministrative piuttosto ampie e omogenee, in modo da creare non un semplice decentramento, ma un reale ordinamento autonomistico che, però, non sconfini nel particolarismo.
Il compito di introdurre il tema è affidato al democristiano Ambrosini, il quale opta per la creazione di una regione elevata a persona giuridica e dotata di autonomia politica. Allo stesso modo, non esclude la possibilità di introdurre, per talune materie attinenti a interessi prevalentemente locali, una potestà legislativa di carattere esclusivo, accanto a una potestà concorrente, per altre materie nelle quali lo Stato ometta di intervenire, e una facoltà di emanare norme di esecuzione, in campi nei quali gli organi legislativi nazionali abbiano fissato i principi fondamentali. Infine, Ambrosini tocca la questione della finanza regionale, essenziale perché l'ente possa esercitare le funzioni conferitegli.
Per Ambrosini lo Stato regionale si collocava a un livello intermedio tra lo Stato unitario e lo Stato federale. Per il PCI revisionista, invece, la proposta di attribuire alla regione una potestà legislativa talmente ampia da configurarsi addirittura come "esclusiva" per talune materie, altro non era che una forma di federalismo sotto mentite spoglie. Le posizioni non variano di molto se si sposta l'attenzione sugli interventi dei deputati del PSI, tutti convinti, in linea di massima, della necessità del decentramento, ma non della regione. Si arriva così a una prima mediazione, per cui tra federalismo (scartato perché porterebbe ad una disgregazione almeno momentanea dell'unità) e decentramento (considerato insufficiente, poiché comporterebbe la presenza di funzionari statali, nel caso di decentramento gerarchico o, nella migliore delle ipotesi, cioè il decentramento autarchico, non contemplerebbe alcuna potestà legislativa) la soluzione migliore sembra essere l'autonomia, con la quale si attribuirebbero alla regione dei "diritti propri", garantiti dalla Costituzione, tra cui quello di legiferare.
La discussione sull'ordinamento regionale inizia, nell'adunanza plenaria della Commissione Ruini, il 17 gennaio del 1947. Proprio nel primo giorno di discussione del progetto relativo alle autonomie regionali viene presentato da Togliatti un ordine del giorno, votato dal PSI ma non dal neonato PSLI (Partito socialista dei lavoratori italiani) del socialdemocratico Saragat, appena scissosi da destra dal partito di Nenni in occasione del XXV Congresso del PSI.
"La Commissione dei 75 - recitava l'ordine del giorno di Togliatti -, d'accordo sulla necessità di un ampio decentramento amministrativo e sul più ampio sviluppo delle autonomie locali; d'accordo sulla necessità di un regime di ampia autonomia per la Sicilia, la Sardegna e le zone mistilingui; è però contraria a che vengano introdotti nella Costituzione elementi anche indiretti e attenuati di federalismo. La creazione dell'ente Regione dovrà essere fatta attenendosi a questa direttiva e in questo senso debbono essere riveduti gli articoli relativi alle autonomie locali". L'ordine del giorno viene respinto con una larga maggioranza (15 voti favorevoli e 32 contrari).

Il dibattito sulle regioni in Assemblea
L'ordinamento regionale, definito dal Ruini nella sua relazione introduttiva come "l'innovazione più profonda introdotta dalla Costituzione", non suscita però molte simpatie in Assemblea. A difenderlo non vi sono che i democristiani e i repubblicani, più gli azionisti, i quali, sebbene insoddisfatti del grado di autonomia concesso ai nuovi enti, hanno deciso di ripiegare su posizioni meno "avanzate", nella speranza di consolidare almeno il risultato raggiunto in Commissione.
Nel suo intervento dell'11 marzo, Togliatti si dichiara favorevole unicamente ad un ampio decentramento amministrativo e alla concessione di un regime particolare di più ampia autonomia a determinate regioni (Trentino, Valle d'Aosta e Isole). Durante la successiva discussione generale sul Titolo V le posizioni sono ancora le stesse: Gullo (PCI), in particolare, denuncia l'artificiosità della regione, soprattutto nel Mezzogiorno, dove, contrariamente all'opinione di chi ritiene che essa favorirebbe l'emancipazione e lo sviluppo economico di quelle terre, si corre il rischio che "le classi possidenti si riapproprino del potere".
Al termine di questa fase del dibattito, tuttavia, l'ordine del giorno presentato il 7 giugno da Laconi e Grieco (PCI) è di tenore sensibilmente diverso. In esso viene non solo riconosciuta la necessità di attuare il decentramento anche tramite l'istituzione dell'Ente regione, quanto poi si attribuisce ad esso la facoltà legislativa integrativa ed attuativa delle norme statali. Questo è, però, solo un piccolo indizio del mutamento di posizione che si attuerà dopo qualche giorno.
Per avere un'idea esatta delle dimensioni del cambiamento di prospettiva da parte del PCI revisionista bisogna attendere il 12 giugno, quando Laconi, parlando a nome del Gruppo comunista revisionista, afferma che esso voterà contro gli ordini del giorno che contengono il rinvio o la reiezione del progetto di ordinamento regionale, nella convinzione che "il problema delle regioni [vada] esaminato e risolto nella carta costituzionale" e che "l'Italia [abbia] necessità di un largo decentramento sulla base regionale", anche in corrispondenza dell'esigenza autonomistica avvertita dal popolo italiano.
La stessa parabola è compiuta, si può dire, anche da parte del PSI, i cui deputati si dichiaravano, sin dal principio, ostili a "quella specie di federalismo regionale, balzato fuori dalle improvvisate deliberazioni della Commissione" (Nenni, 10 marzo).
Come spiegare quella che a prima vista potrebbe sembrare una fulminante conversione? Per comprenderlo dobbiamo, per un attimo, abbandonare il lavoro costituente e indirizzare lo sguardo verso la vita politica del Paese, che continuava, parallelamente, a svolgersi secondo i suoi ritmi.
Dopo le elezioni per la Costituente, i tre grandi partiti di massa (DC, PCI e PSI) avevano continuato a governare insieme, dando vita al secondo governo De Gasperi. L'esperienza di coalizione non si era interrotta nemmeno dopo la scissione di palazzo Barberini, che aveva provocato una crisi di governo per il ritiro dei rappresentanti del PSLI, ma non aveva impedito la formazione di un terzo gabinetto presieduto dal suddetto leader democristiano (gennaio 1947), con il concorso ancora dei socialisti e dei comunisti revisionisti. I tempi della lotta partigiana erano, però, sempre più lontani e la contrapposizione ideologica, di fronte alle grandi questioni della politica interna ed internazionale, si accentuava. La DC, sempre più insofferente di questa condizione di "coabitazione" forzata, traendo spunto da contrasti insorti nella coalizione, apre la crisi (maggio 1947), che si risolve con l'estromissione del PCI revisionista e del PSI riformista dal governo e la formazione di un gabinetto monocolore democristiano (quarto governo De Gasperi).
Questi avvenimenti si consumano proprio mentre è in discussione in Assemblea il Titolo V della Costituzione, per cui non è azzardato riconoscere un nesso tra il passaggio all'opposizione delle "sinistre" e il loro nuovo atteggiamento rispetto al problema regionale. Difatti il dibattito relativo alla crisi di governo occupa le sedute dal 9 al 21 giugno, mentre quello riguardante le autonomie locali si svolge dal 27 maggio al 22 luglio.
Ma qual è la relazione esistente tra i due fatti? Finché si trovavano al governo, le "sinistre" erano spinte all'antiregionalismo. Quando questa situazione viene meno, il problema si ribalta: socialisti e "comunisti", esclusi dal potere centrale, sperano di aprirsi, con l'istituzione delle regioni, nuove prospettive di lotta politica. Non si comprenderebbe, in altro modo, il senso delle parole pronunciate da Laconi: "... particolarmente in quest'ultimo periodo, guardando intorno a noi e vedendo l'avviamento che va prendendo la situazione italiana, ci si è prospettata la necessità o l'eventualità di accedere a soluzioni diverse, di prendere in considerazione un rafforzamento degli enti locali che giunga anche a dare alla regione un volto autonomo. Uomini come siamo, aderenti alle situazioni, e sempre intenti a guardare la evoluzione delle cose, noi non abbiamo potuto non tener conto del fatto che in questo recente periodo l'avviamento delle cose italiane non è tale da non destare preoccupazioni a chiunque sia interessato alla difesa del regime democratico e desideroso di stabilire nel Paese dei solidi baluardi, contro qualunque tentativo volto a violare la libertà e i principi essenziali della democrazia. Ed è per questa ragione, soprattutto per questa ragione, che accediamo a questa soluzione intermedia: ordinamento regionale contenuto nei limiti che non pregiudichino l'unità politica del Paese ma capace, ove si renda necessario, nel corso degli eventi, di fare delle regioni dei solidi presìdi della libertà e della democrazia".
Viceversa la DC non aveva più lo stesso interesse di prima a privare il governo centrale di quel potere che adesso deteneva da sola. Prova ne è anche lo scarso impegno che il partito porrà nell'attuare l'ordinamento regionale previsto dalla Carta costituzionale.

Le ragioni del regionalismo del PCI revisionista
Il decentramento del tempo (sia nella versione federalista sia regionalista), invocato dai riformisti, che si trattasse sia dei democratici, dei repubblicani e degli azionisti, sia dei socialdemocratici e dei revisionisti, era il tentativo di quella parte della classe dominante borghese preoccupata dallo scollamento tra lo Stato unitario e le masse popolari per cominciare a dargli una base di massa che esso non aveva mai avuto.
Costoro non discutevano lo Stato borghese ma unicamente la forma centralizzata, repressiva e fortemente ristretta che avevano lo Stato liberale e lo Stato fascista. Salvemini e l'azionista Piero Calamandrei avevano appunto questo in comune: la loro critica anche feroce allo Stato unitario era una critica tutta interna al sistema capitalistico, da riformare e non da rovesciare. Costoro capivano che la borghesia per poter ambire a consolidare il suo dominio e impedire la rivolta delle masse meridionali e del proletariato industriale e agricolo che non si sentivano in alcun modo rappresentati, doveva avvicinarsi loro decentralizzando l'apparato burocratico statale e concedendo loro delle forme di maggiore partecipazione e rappresentanza locali senza toccare in alcun modo la classe borghese al potere.
Analogamente il PSI di Turati e Nenni e il PCI revisionista di Gramsci e Togliatti dovevano coprire e giustificare il loro tradimento della rivoluzione e del socialismo davanti al proletariato con la conquista di una serie di riforme che "democratizzassero" lo Stato unitario e riconoscessero le loro rappresentanze politiche. Insomma il partito revisionista, in particolare, si proponeva attraverso tali misure, tra cui il regionalismo, di allargare la base di consenso dello Stato borghese attraverso l'inclusione della classe operaia e delle masse popolari che gli erano state fin lì estranee e ostili.
Così Togliatti riassunse la questione: "Da una parte vi è uno Stato che non si regge perché gli manca l'adesione delle grandi masse e gli manca una classe dirigente che sia capace di conquistarsi questa adesione; dall'altra parte vi è una massa di milioni di lavoratori i quali si sono lentamente venuti risvegliando alla vita politica, chiedono di prendere ad essa una parte attiva, vogliono diventare la base di uno Stato nuovo, in cui si incarni la loro volontà".
Nel dibattito svoltosi nell'Assemblea Costituente nessuna delle principali correnti presenti mise mai in discussione la natura borghese dello Stato italiano ma solo la scelta delle forme più adatte per garantirgli un futuro solido. Togliatti aveva inoltre l'obiettivo di presentare quello disegnato dalla Costituzione come uno Stato democratico avanzato, non più classista, uno Stato nuovo dotato di una forte capacità dirigista nella sfera economica, una sorta di nuova base neutra che, a suo dire, avrebbe potuto attraverso "la via italiana al socialismo" e le cosiddette "riforme di struttura" acquisire gradualmente i caratteri dello Stato socialista. In questo quadro va visto anche il dibattito sul regionalismo.
Su queste basi, il progressivo sviluppo delle forze produttive, per Togliatti avrebbe consentito alla classe operaia di porsi pacificamente con il tempo come classe egemone. In questo modo, memore della lezione controrivoluzionaria di Gramsci, per il massimo dirigente revisionista si sarebbero create, in modo "democratico", le condizioni di un nuovo "blocco storico" (ossia un nuovo rapporto tra struttura e sovrastruttura) che avrebbe consentito al proletariato di organizzare la propria "egemonia" e il proprio avvento al potere nel perimetro della legalità borghese e parlamentare. Un riformismo smaccatamente antirivoluzionario che segnava un passo fondamentale di una lunga serie di slittamenti a destra del PCI revisionista, fino al suo definitivo dissolvimento nel PD liberale di oggi.

Capitolo IV
Il federalismo di Miglio e della Lega


I federalisti cattolici e il "Cantone Cisalpino"
Nel 1945 l'opzione federalista fu sostenuta in modo aperto dal movimento cattolico del "Cisalpino". Il primo numero uscì il 27 aprile su iniziativa dell'economista Tommaso Zerbi e con la collaborazione di Miglio, allora non ancora trentenne. "Il Cisalpino" era espressione della democrazia cristiana comasca con una dichiarata propensione al federalismo secessionista. Sosteneva Zerbi nell'articolo di spalla del primo numero che "l'insidia più pericolosa per l'idea federalista è il cosiddetto decentramento amministrativo regionale, più o meno esplicitamente promesso da alcuni partiti".
Alle regioni, "cavallo di battaglia piuttosto anzianotto", "senza alcun fondamento né storico, né geofisico, né economico", Zerbi preferiva un progetto di ordinamento cantonale. Il termine di cantone fu accuratamente scelto per evitare, quello tecnicamente più corretto, di "Stato", che avrebbe immediatamente prestato il fianco all'accusa di secessionismo.
Per i federalisti cisalpini, il Cantone "è un razionale spazio geofisico, economicamente e demograficamente individuato e costituito di unità capace di fornire materia per una vita politico-amministrativa autonoma e fattiva, col minimo possibile di ciarpame burocratico". I federalisti cisalpini si facevano promotori in particolare del "Cantone Cisalpino", formato dall'intera Italia "transpadana e cispadana" e che avrebbe dovuto avere un particolare rilievo, in virtù della sua specificità "economica, produttiva, storica e perfino linguistica". Su "Il Cisalpino" del 22 luglio si precisava che "La Liguria, il Piemonte, la Lombardia, l'Emilia e le Tre Venezie, ossia tutta l'Italia settentrionale nel suo insieme costituisce un'armonica unità geografica, economica, etnica e spirituale, ben degna di governare sé stessa: sarà il 'Cantone Cisalpino', con capitale Milano, baricentro della Val Padana".
"I cisalpini - scriveva poi Zerbi sul numero del 26 agosto - aspirano a trasferire alla competenza di governi locali gran parte del potere tributario, l'assistenza sociale, la legislazione del lavoro, la legislazione scolastica, i comuni servizi di polizia e d'igiene, la polizia ecclesiastica, l'amministrazione della giustizia". Il "Cantone Cisalpino" proposto da Zerbi era talmente ampio e ricco che si profilava, da un punto di vista geopolitico, come un vero e proprio Stato, in un orizzonte fondamentalmente secessionista. Da qui le accuse di "egoismo", a cui si affiancarono anche quelle di "razzismo".
Un articolo pubblicato su "Il Cisalpino" del 30 settembre, infatti, sosteneva che il "decentramento amministrativo e costituzionale", su cui sarebbe sorta la "Confederazione italiana a base cantonale", avrebbe eliminato "uno dei malanni maggiori lasciatici dall'unitarismo accentratore", l'"invasione" di meridionali negli impieghi pubblici. "Pochi impiegati pubblici, reclutati in loco e molto ben pagati: è questo il solo modo per bonificare la burocrazia del Nord", concludeva l'articolo. I cisalpini ritenevano che, in virtù del loro federalismo, l'allontanamento dei meridionali dal Nord, anziché essere precondizione per la nascita della confederazione cantonale, passabile dell'accusa di razzismo, ne sarebbe stato l'esito naturale. Chiaramente, al di là delle forme, nella sostanza dei fatti veniva confermata la natura razzista del loro progetto.

Il "mito della Padania"
In seguito, il movimento dei federalisti cisalpini si sciolse e riconfluì nella DC. Il "mito della Padania" tornò alla ribalta nel 1975 con un intervento sul "Corriere della Sera" di Miglio, il federalista cisalpino ed esponente della destra DC della prima ora, in veste di politologo e docente alla Cattolica di Milano. Nell'articolo in questione Miglio metteva in discussione, da un lato, la legittimità storica dello Stato unitario italiano e, dall'altro, l'efficienza dell'amministrazione
nazionale. "Se lo Stato italiano appare troppo grande per governare, la Regione è invece troppo piccola", sosteneva Miglio. Erano gli anni della crisi economica del '74-75, aperta dalla crisi petrolifera del 1973: l'Italia era flagellata da "rovina economica, inflazione, sfascio istituzionale e morale, instabilità governativa, terrorismo, mafia, camorra, faide e guerre per bande, scandali e corruzione. Siamo di fronte a una società in decomposizione, più che in decadenza" (dal Rapporto dell'Ufficio politico al II Congresso nazionale del PMLI).
"L'unica esperienza alternativa da tentare - sosteneva Miglio nell'articolo - è quella costituita dalla consapevole integrazione tra grandi aggregazioni geo-economicamente omogenee: il Nord, il Centro, il Sud (più le due isole autonome)". Di qui l'idea delle macro-regioni e, soprattutto, di "una Padania politico-amministrativa" con una forte componente etnico-razziale. Secondo Miglio, infatti, "i grandi Stati tendono ad adottare strutture federali o quasi-federali: e questo perché si afferma il vero nazionalismo. Che è il micronazionalismo". Solo a livello regionale è possibile ritrovare quell'"omogeneità etnica" che rappresenta l'"autentica radice nazionale". "La possibile articolazione in tre aree non è farina esclusiva del mio sacco - ricorderà Miglio -. Non ho inventato niente. Nel periodo della clandestinità, il gruppo del Cisalpino aveva già avanzato questo disegno".
Questo discorso federalista viene inserito da Miglio in un contesto più ampio di quello meramente istituzionale e riguarda le prime trasformazioni globali del modo di produzione capitalista. Infatti, "il tempo (quattro secoli buoni) in cui questo organismo [lo Stato moderno] ha dominato tutte le forme associative minori" si è esaurito alla luce dello sviluppo "delle nuove tecniche produttive", che "si moltiplicano e specificano senza posa" e richiedono così "strutture politico-amministrative incomparabilmente più articolate e diversificate di quelle tradizionali".
"Ho coniato il termine macroregioni. Guai a Dio, chiamarli Stati. La nostra cultura scolastica si ribellerebbe", rivelerà Miglio nel 1991, quando in un'intervista a "Repubblica" delineerà una sorta di "road map" per il processo di realizzazione dell'Italia federale. "Per ora, bisogna potenziare le Regioni, con maggiori autonomie legislative, con l' autonomia impositiva e soprattutto permettendo loro di stabilire e coltivare contatti, alleanze con le realtà vicine. Da queste alleanze potrebbero nascere le macroregioni. Il federalismo come traguardo ultimo".
Il discorso di Miglio sulla "Padania" spingeva perciò a una generale rifondazione dello Stato italiano, verso l'adozione di istituti federali. Più precisamente, già dagli inizi degli anni Ottanta, con la fondazione del "Gruppo di Milano", un pool di esperti di diritto costituzionale e amministrativo, Miglio studiò e propose un organico progetto di "riforma" neofascista della Costituzione del '48.
Tra le proposte avanzate dal "Gruppo di Milano" v'era il rafforzamento dell'esecutivo, guidato da un primo ministro dotato di ampi poteri, eletto direttamente dal popolo, e la fine del bicameralismo perfetto con l'istituzione di un Senato delle regioni. Queste posizioni trovarono speciale udienza nel PSI di Bettino Craxi, che accolse anche le idee di Miglio sul "decisionismo" di Carl Schmitt, il giurista tedesco che aveva aderito e fiancheggiato il regime hitleriano, in particolare nel sostenere la legalità delle leggi razziali in un sistema di diritto internazionale. Schmitt, sdoganato per la prima volta da Miglio, aveva affermato il "principio della dittatura" da realizzarsi attraverso il plebiscito, unico strumento, a suo dire, capace di esprimere la volontà popolare. Inoltre, Schmitt basava il "principio della dittatura" sulla uguaglianza della stirpe e sulla reciproca fedeltà tra capo e seguaci. Sul piano della sua biografia personale, le teorizzazioni dittatoriali di Miglio risalivano al suo lavoro di consigliere di Eugenio Cefis, il discusso e spregiudicato presidente dell'Eni vero fondatore della loggia segreta ed eversiva P2 (Licio Gelli e Silvio Berlusconi sono il punto di arrivo).
"Quando il Gruppo di Milano, che dirigevo, concluse i suoi studi sulle riforme costituzionali - ricorderà Miglio -, fui io a cercare De Mita per spiegargli i risultati. Era il 1983. Credevo fosse mio dovere di cattolico. De Mita non fece una piega. A differenza di Andreotti, non mostrò alcun interesse. Invece, fu Craxi a venire da me. Da me è venuto anche Bossi".

Il federalismo secessionista di Bossi
Il primo incontro con Umberto Bossi avvenne a casa di Miglio il 17 maggio 1990. Il colloquio con il leader secessionista, xenofobo e razzista durò circa due ore e mezzo; i due convergono sulla necessità di rovesciare le istituzioni della prima Repubblica con "un'autentica costituzione federale". "Gli confidai - racconta Miglio - che quando ero molto giovane (e militavo nel movimento clandestino dei federalisti cattolici) sognavo di diventare cittadino di una Repubblica Cisalpina". Sogno che Bossi, in quell'occasione, avrebbe promesso di esaudire.
Il movimento leghista, infatti, era attivo dal 1982 e suo obiettivo strategico, fin dall'elaborazione del primo programma, era, racconta Bossi nell'autobiografia "Vento del Nord", "l'accentuata autonomia della nostra e di tutte le regioni italiane, la nascita di un moderno Stato federale, la revisione del sistema fiscale centralista perché il frutto del lavoro e le tasse dei lombardi siano gestiti dai lombardi".
All'autonomia finanziaria si aggiungeva, in un'ottica separatista, la rivendicazione di un "sistema pensionistico lombardo, scuola e amministrazione della giustizia su basi regionali, servizio di leva vicino a casa come in Sud Tirolo (per rafforzare il legame dei giovani con la loro terra)", così come "la difesa delle tradizioni e della cultura locale".
Il federalismo secessionista della Lega Nord si distinse così fin da subito anche per il suo razzismo anti-meridionalista. Secondo Bossi, la "partitocrazia", la "burocrazia, il "clientelismo" e la "corruzione" della prima Repubblica erano tutte espressioni
dell'"egemonia meridionale", ossia quella "componente etnica dominante, la quale, attraverso gli stessi partiti, è riuscita a impossessarsi delle istituzioni e a volgere in favore dei propri interessi gran parte dell'attività statale, dalla giustizia alla pubblica amministrazione, dal fisco all'istruzione, dalla finanza all'ordine pubblico". Quel primo programma, perciò, prevedeva "lo smantellamento dei privilegi ai meridionali nei concorsi pubblici per favorire l'assegnazione di posti, abitazioni, assistenza, contributi finanziari ai residenti".
La bandiera del federalismo secessionista della Lega Nord si inseriva poi nella necessità dell'Unione europea capitalista di aggiornare, per essere sempre più competitiva sui nuovi scenari internazionali, le proprie istituzioni borghesi a un'economia sempre più globalizzata. "Tra pochi mesi - specificava Bossi nel 1992 - la nuova Europa avvierà un processo di svuotamento del ruolo dello Stato unitario nazionale". Ragione per cui, rivendicavano da subito i leghisti, "la Lega Nord è senza dubbio il più europeista dei movimenti politici in Italia", in quanto "ha riconosciuto e sostiene la necessità di una riforma istituzionale in senso federale [...] in perfetta sintonia con l'Unione Europea".
Con la "fine della logica di Yalta", ribadiva Bossi, nell'ottica della cosiddetta "Europa delle Regioni", "la titolarità complessiva dei poteri non può più essere assegnata in via esclusiva allo Stato centralista, occorre attribuire a ogni livello istituzionale competenze precise".
Del resto, per i leghisti, sono proprio le regioni "le autentiche nazioni dello Stato", in quanto fondate su "un'etnia in senso socio-culturale, intesa come identità affettiva radicata nella famiglia, nelle abitudini, nelle convenzioni, nel clima. Queste identità - millanta Bossi nell'autobiografia - differenziano tra loro uomini nati e cresciuti in luoghi diversi, per questo ritengo che in questo senso più ristretto l'etnia sia eterna". Anzi, "chi conosce la nostra terra, sa bene che intere città, intere vallate sono rimaste ai margini dei grandi flussi migratori. Nei secoli, le diverse dominazioni non hanno violato i ceppi originari, neppure nelle grandi città di pianura. Anche l'immigrazione del Sud non ha schiodato certi caratteri etnici". La difesa dell'etnia originaria si manifesta anche in xenofobia. "Certi diritti che riguardano la sfera dell'economia non possono essere garantiti a chiunque [gli extracomunitari] per il solo fatto che cammina sul territorio italiano". "I requisiti di sopravvivenza devono essere garantiti in primo luogo alle famiglie che da tempo garantiscono la ricchezza del Paese". In questo modo Bossi, legando il mito della razza alla specificità del territorio, fa suoi i principi dei nazisti. È importante ricordare a questo punto l'avviso del ministro degli Interni della Germania hitleriana Frick, apparso sulla rivista del partito nazista il 28 gennaio 1934: "sussisterà in eterno solo il popolo il quale mantenga puro il suo sangue e non smarrisca il legame con la zolla natia".
La "riforma" federalista delle istituzioni, secondo Bossi, avrebbe reso "possibile un neoliberismo serio in economia", e cioè "una politica di gabbie salariali", "privatizzazioni", "taglio alla spesa pubblica", "una serie di incentivi per gli imprenditori che hanno capitali da giocare al Sud", insieme alla "defiscalizzazione degli utili", la "riduzione degli oneri sociali" e il "contenimento del costo del lavoro". Una politica economica tanto ultra-liberista e filo-padronale, quanto anti-operaia e anti-popolare. Non per nulla, complice la crescita elettorale tra le elezioni politiche del 1987 e le amministrative del 1990, Bossi fu avvicinato dalla grande industria e dalla finanza. Risalgono a quel momento i primi contatti con Agnelli via Romiti, "con un esponente del Gruppo Ferruzzi, mandatomi da Gardini" (nome a cui sarà legata la vicenda della maxitangente Enimont e la condanna di Bossi per l'illecito contributo finanziario riscosso dai leghisti durante tangentopoli) e con Silvio Berlusconi, "che mi ha incoraggiato a tenere i contatti con i vertici del suo gruppo". Persino il Vaticano, sensibile ai temi della tutela delle tradizioni e delle radici territoriali, comincia ad avvicinarsi alla Lega. "A un certo punto, nell'estate del '90, sembrò che la gerarchia fosse disposta a dialogare con noi. Ratzinger [allora prefetto della congregazione per la dottrina della fede] fece notare che non esiste, o non dovrebbe esistere, il partito unico dei cattolici. [...] Ma dalla Conferenza episcopale italiana [distante dal razzismo e dalla xenofobia leghista] poco dopo arrivò un altolà". Tuttavia, evidenzia Bossi, proprio in quel giro di anni, "io credo che il disimpegno dei cattolici dalla DC [fosse] già cominciato", a tutto vantaggio della crescita elettorale dei leghisti.
La "nuova Europa", il federalismo e l'ultra-liberismo sono i tre termini che cominciano a tenere insieme Bossi e certi circoli finanziari e capitalistici del Paese, a loro volta fautori di una "riforma" profonda delle istituzioni della prima Repubblica. Tanto più che lo stesso Craxi, nel 1990, nell'ottica della "Grande Riforma" piduista presentata nel 1979 dalle colonne dell'"Avanti!", lancia il decalogo dell'autonomismo targato PSI con la "dichiarazione di Pontida". "Così facendo - racconta Bossi - il capo del Garofano ha portato i nostri temi al centro del dibattito politico". Sono stati i vertici socialisti, ammette Bossi, a offrire alla Lega "credenziali politiche", i quali arrivarono persino a dire "che il problema non è solo l'autonomia amministrativa ma anche quella finanziaria. Non è solo l'articolo 117 della Costituzione ma anche il 119: i soldi. Avevamo ottenuto un risultato impensabile: per la prima volta un partito politico italiano centralista e di potere dichiarava che non basta l'autonomia di spesa delle Regioni, serve anche l'autonomia delle entrate, impositiva".
Per non finire nell'ombra, la Lega decide di rilanciare e propone di dividere l'Italia in tre repubbliche (le macro-regioni di Miglio). "I partiti ci hanno seguito fino a un certo punto, hanno accettato un regionalismo spinto, ma non potranno mai digerire una riforma incisiva che spezza una volta per tutte i meccanismi del centralismo". Il 16 maggio 1991, anche lui da Pontida, riprendendo le tesi di Miglio, unico consigliere accettato, Bossi proclama la "Repubblica del Nord". Una soluzione ufficialmente abbracciata dalla fondazione Agnelli che già nel '92 avrebbe lanciato una ricerca dal titolo "La Padania: una regione italiana in Europa", allo scopo di adeguare il nostro Paese all' "economia globalizzata". Segno evidente che il federalismo risponde alle attuali esigenze economiche e commerciali di certi monopoli nazionali e dei capitalisti medi e minori delle regioni più ricche e più forti economicamente.
I proclami secessionisti anti-costituzionali di Bossi, passibili di incriminazione per attentato alla Costituzione o all'unità nazionale, convergevano con gli obiettivi eversivi della destra economica, finanziaria e politica che a un certo punto ha cominciato a proteggerlo e foraggiarlo. Il giorno della proclamazione della "Repubblica del Nord", Bossi dal palco lanciò invettive contro tutti. Augurò "lunga vita" solo a Cossiga, il capo dei gladiatori, l'anticomunista storico, l'uomo dagli antichi legami con i servizi segreti e le alte gerarchie militari italiane e americane, con i golpisti, la massoneria e la P2 di Licio Gelli. Proprio a maggio, Cossiga aveva accolto al Quirinale Bossi, un incontro "abbastanza disteso, se non proprio cordiale". "Il presidente mi accolse con un sorriso e una forte stretta di mano. Parlammo per più di mezz'ora, tranquillamente. Lui disse più volte che la grande riforma della prima Repubblica ha bisogno anche delle Leghe". Tanto più che lo stesso Gelli, in un'intervista a "Repubblica", fa capire di aver finanziato (e quindi di poter ricattare) anche la Lega del razzista e secessionista di Bossi. Quest'ultimo - sottolinea il capo della P2 - "è stato bravo, ma aveva molti debiti".
La carriera politica di Bossi a un certo punto si è quindi legata ai neri protagonisti dei cosiddetti "misteri della Repubblica". Non a caso oggi la Lega stessa, sulla falsariga del modello Baviera-Csu e Germania-Cdu, come partito del Nord è stata assorbita nel progetto più ampio e nazionale del PDL del neoduce Berlusconi che ha restaurato il fascismo in Italia, sia pure sotto nuove forme, nuovi metodi e nuovi vessilli.

Capitolo V
Il federalismo del regime neofascista

Il federalismo elemento fondante dell'Unione europea imperialista
Il disegno di un'Italia federale affonda, in primo luogo, nel cosiddetto "piano di rinascita democratica", elaborato nel '75, della P2 di Gelli, Craxi e Berlusconi. Da allora esso è avallato dalla classe dominante borghese in camicia nera che mira alla divisione dello Stato italiano in tante regioni-Stato. Il federalismo è divenuto la bandiera distintiva del neofascista, razzista e xenofobo Bossi - fautore con Miglio della "Padania" -, un progetto eversivo sostenuto ufficialmente della "Fondazione Agnelli" e dai circoli economici e finanziari del Centro-Nord d'Italia. Tuttavia, i maggiori e risolutivi passi verso l'Italia federale sono stati compiuti sotto la spinta della "sinistra" della seconda repubblica.
Tutti i partiti della borghesia e del regime neofascista, compresi il PRC e il PdCI, sono a favore del federalismo dal momento che la completa e ufficiale instaurazione dello Stato federale è un obiettivo che, da un lato, corrisponde alle nuove necessità economiche, finanziarie e istituzionali del sistema economico capitalistico italiano integrato nell'Unione europea imperialista; dall'altro, si inserisce nel progetto più ampio di integrazione federalista su base regionale dell'Unione europea stessa, processo necessario per rafforzare e unificare il mercato interno attraverso il superamento delle contraddizioni e dei particolarismi degli Stati nazionali che la compongono e per porsi di conseguenza quale superpotenza capace di competere con Usa, Giappone, Cina, Russia e India nell'arena globale per il dominio imperialista del mondo.
I tentativi di integrazione europea, del resto, risalivano alla creazione della Comunità europea del carbone e dell'acciaio nel 1951, alla conferenza di Messina nel 1955 e alla firma dei Trattati di Roma nel 1957. L'avvio effettivo della Comunità economica europea risale al 1958, nel clima della "guerra fredda", su basi anti-comuniste, fondamentalmente economiche e non ancora politiche. La questione della sovranità politica allora fu elusa, permanevano così le prerogative degli Stati nazionali. L'ideale della federazione europea tornò d'attualità negli anni settanta, come possibile risposta unitaria alla crisi internazionale di natura politica e finanziaria che si stava abbattendo. Non a caso risale a quel decennio la smascherata riconversione europeista e anti-comunista delle forze di "sinistra", compreso il PCI dell'arcirevisionista Berlinguer (vedi lo "strappo" con l'Urss socialimperialista e l'adesione alla Nato), da allora definitivamente integrate nei progetti di ascesa della superpotenza capitalista europea.
Fu così possibile rilanciare con maggiore decisione il disegno comunitario e raggiungere alcuni obiettivi: dall'istituzione nel 1978 del Sistema monetario europeo, da cui avrà origine l'euro, per iniziativa bipartisan del presidente di destra Giscard D'Estaing e del cancellerie tedesco socialdemocratico Helmut Schmidt, all'elezione diretta del parlamento europeo (1979) e al suo ruolo costituente (1981), fino ad arrivare, nell'arco di un decennio, all'Atto unico europeo, entrato in vigore nel 1987 e premessa del vertice europeo di Maastricht del dicembre '91, che varerà l'Unione europea entrata in vigore il 1° novembre 1993 e basata, in una prospettiva federale, sul mercato unico europeo, la moneta unica, una Banca centrale europea, una politica estera e della sicurezza comune, a tutto vantaggio, anche attraverso l'obbligo dei paesi aderenti di perseguire politiche ferocemente liberiste e antipopolari, dei monopoli e dei circoli imperialistici.
L'integrazione federale dell'Unione europea passa poi attraverso il superamento della centralità dello Stato nazionale e, di conseguenza, attraverso la riscoperta della dimensione regionale. Anzi, le regioni diventano parte integrante del processo di costruzione della superpotenza capitalistica europea sotto il profilo sia economico-sociale sia politico-istituzionale. Per quanto riguarda il primo, l'aspetto economico-sociale, l'Unione europea mira a un "equilibrio regionale", dal momento che aree regionali economicamente troppo disomogenee rappresentano un ostacolo allo sviluppo competitivo del capitalismo dell'intera comunità. Da qui la politica dei fondi strutturali che coinvolge direttamente le regioni e che comporta il superamento dell'impostazione che vedeva lo Stato centrale come unico interlocutore della Comunità. Del resto, fin dal 1984, il parlamento europeo aveva postulato la "necessità di permettere la partecipazione degli enti locali e regionali alla costruzione europea".
Da un punto di vista politico-istituzionale, il Trattato di Maastricht ha istituito una Camera delle regioni, composta dai rappresentanti degli enti locali, arrivando a riconoscere alle regioni una valenza sovranazionale. In relazione a questa regionalizzazione dell'Europa imperialista, fondamentale per il massimo allargamento possibile del mercato interno, la classe dominante borghese parla, in modo del tutto strumentale e opportunistico, di "Europa dei popoli".
In realtà, "l'Ue rappresenta un inferno per la classe operaia, i lavoratori e le masse popolari e un paradiso per un pugno di pescecani capitalisti e per tutti i loro rappresentanti politici e istituzionali che ne eseguono i voleri. Lo dimostrano le decine di milioni di disoccupati e poveri, l'attacco concentrico alle conquiste economiche e sociali dei lavoratori e delle masse, le disuguaglianze economiche e sociali tra le varie aree, acuite dall'ingresso dei paesi dell'Est, le disuguaglianze di sesso, la politica fascista e razzista di chiusura blindata contro gli immigrati, la responsabilità al pari degli Usa, dell'inquinamento della terra e dell'aria e la negazione del diritto inalienabile dell'accesso all'acqua come bene comune dell'umanità. L'Unione europea si è smascherata davanti agli occhi dei popoli, macchiandosi degli stessi crimini imputabili all'imperialismo americano" (dalle Tesi del 5° Congresso nazionale del PMLI).

Il federalismo e la seconda repubblica neofascista
La fine della cosiddetta "guerra fredda", a seguito dell'implosione dei regimi revisionisti dell'Est, ha perciò permesso ai circoli capitalistici e imperialisti del "Vecchio continente" di riavviare su basi federaliste il processo di unificazione europea. Un'esigenza ben presto assecondata dai partiti borghesi italiani in tempi non sospetti, già nel 1991, anno in cui è stata avanzata la proposta di un "nuovo regionalismo" da attuare attraverso la revisione degli articoli 70, 117 e 118 della Costituzione. I due assi principali del progetto, ruotanti intorno alla valorizzazione dell'istituto regionale, erano, da un lato, il ribaltamento del rapporto tra competenze statali e competenze regionali (sovvertendo così la Costituzione del '48) e, dall'altro, il conseguente abbandono della funzione statale di indirizzo e condizionamento delle Regioni. Parte integrante del progetto, era il passaggio dalla repubblica parlamentare a quella presidenzialista (da sempre caldeggiata nel dibattito pubblico dall'MSI prima e da Craxi poi), con un rafforzamento dell'esecutivo di mussoliniana memoria, i cui poteri sarebbero stati accentrati in una persona sola, il presidente del consiglio.
Due anni più tardi, il 27 ottobre 1993, la Commissione bicamerale per le "riforme" istituzionali, a guida Iotti-De Mita, presentò un testo di revisione del Titolo V della Costituzione che fu poi inserito in un più ampio progetto di revisione di tutta la parte seconda della Carta costituzionale. Quel giorno segnò l'avvio bipartisan del golpe bianco, il cui obiettivo era di lasciarsi alle spalle la prima Repubblica democratico-borghese e sostituirla con la seconda repubblica neofascista, in grado di competere dentro e insieme alla nascente Europa imperialista, avviata su un processo di riunificazione su basi federaliste. La Commissione bicamerale parlava chiaramente di "termine del primo tempo della Repubblica". Il progetto fu presentato dall'arcirevisionista Nilde Iotti, presidente della Commissione, che nel suo intervento esaltò "l'autonomia politica, legislativa e finanziaria delle regioni fino al limite del federalismo".
La Commissiome bicamerale si ricongiungeva dichiaratamente alla "Grande Riforma" piduista e neofascista delle istituzioni democratico-borghesi. Essa infatti si richiamava alla "cultura politica" che "fin dalla fine degli anni '70" dietro "le nozioni di efficienza, di capacità e di tempestività delle decisioni" è stata in grado di "caratterizzare ed orientare il movimento riformatore". L'obiettivo dichiarato della Commissione era quello di giungere, "al termine del processo di mutamento in atto del modello politico ed istituzionale italiano", a "un regime dei pubblici poteri" che "risulterà nettamente orientato a conseguire un grado assai elevato di capacità di provvedere, di decidere, di scegliere, in tempi certi e rapidi, con immediata efficacia, e concentrazione soggettiva di responsabilità".
Un chiaro richiamo al decisionismo mussoliniano, alla dittatura di un uomo solo, a un nuovo duce per l'appunto, considerato il più idoneo a servire con efficacia e prontezza le esigenze dei monopoli capitalistici italiani costretti a competere in nuovi scenari globali e all'interno dell'Europa imperialista. Il federalismo (o nuovo regionalismo che dir si voglia) si coniuga perciò con l'idea di un potere centrale forte, imperniato sulla indiscutibile prevalenza dell'esecutivo rispetto al legislativo, con un presidente dotato di ampie prerogative.
Il testo confermava il ribaltamento delle competenze legislative tra Stato e Regioni, per cui quelle rigidamente definite spettano allo Stato e tutte le altre sono lasciate alle Regioni; per questo stesso motivo, a livello istituzionale, le Regioni sarebbero divenute libere di optare per sistemi elettorali anche diversi da quelli in vigore sul piano nazionale, insieme alla possibilità di decidere la propria forma di governo; ultimo, ma ovviamente non meno importante, il testo della Commissione definiva l'autonomia finanziaria impositiva da attribuire alle Regioni. Solo tramite l'autonomia finanziaria, si sottolineava, le Regioni sarebbero state in grado di adempiere alle nuove funzioni loro attribuite.
È evidente la volontà di sincronizzare il regionalismo infra-nazionale alle esigenze del federalismo sovra-nazionale europeo. Il regionalismo, dall'Europa imperialista, è infatti visto come fattore di sviluppo economico e politico dell'intero continente.
Entrambi i poli borghesi, "centro-destra" e "centro-sinistra" più le loro appendici (da MSI a PRC), hanno perciò lavorato per la realizzazione di questo disegno. Paradossalmente i maggiori e risolutivi passi sono stati compiuti sotto la spinta della "sinistra" della seconda repubblica. "Ricordiamo la legge per la elezione dei consigli delle regioni a statuto ordinario del 23 aprile 1995, sotto il governo Dini, la legge Bassanini del marzo '97, sotto il governo Prodi, entrambe approvate anche dal PRC, la legge costituzionale per l'elezione diretta del presidente della giunta regionale e l'autonomia statutaria delle regioni del 22 novembre 1999, e, infine, il decreto legislativo sul federalismo fiscale del 13 gennaio scorso, entrambi promossi dal governo D'Alema. Questa legislazione federalista ha così distrutto l'attuale forma dello Stato e gettato le fondamenta del nuovo Stato federale diviso in 20 regioni-Stato" (dal Discorso di Giovanni Scuderi pronunciato a Forlì il 7 aprile 2000 "Delegittimiamo il federalismo e il presidenzialismo, astenendoci").

La commissione bicamerale D'Alema del 1997
I passi decisivi verso il completamento della seconda repubblica, ancor prima che il "centro-destra" tornasse al governo, sono stati perciò compiuti proprio dai governi Dini, Prodi e D'Alema. Durante il primo governo Prodi fu istituita con legge costituzionale il 24 gennaio 1997 la Bicamerale golpista presieduta dal rinnegato D'Alema. È sufficiente tornare sul progetto di revisione organica della parte seconda della Costituzione che la Commissione aveva approvato il 30 giugno 1997, frutto anche dell'accordo raggiunto dal quadrunvirato nero D'Alema-Marini-Berlusconi-Fini, non in parlamento ma in casa di Gianni Letta, soprannominato il "patto della crostata", per rendersi conto che la "sinistra" borghese già condivideva l'essenza della nuova costituzione neofascista e in primis il presidenzialismo e il federalismo.
Lo stesso D'Alema, in qualità di presidente della Commissione golpista, nella sua relazione introduttiva a nome della maggioranza evidenziava la "forte carica innovativa delle proposte avanzate: l'ispirazione federalista del nuovo ordinamento della Repubblica con il rovesciamento della tradizionale ripartizione delle competenze legislative tra Stato e Regioni e l'attribuzione di fondamentali competenze amministrative ai comuni e alle altre comunità locali; l'elezione popolare e diretta del Capo dello Stato ed una nuova forma di governo che estende e sviluppa nell'ambito nazionale le esperienze già in corso a livello locale; la riforma del Parlamento, con il superamento del bicameralismo perfetto, la riduzione del numero dei parlamentari e funzioni diversificate per le due Camere, una delle quali assume, prevalentemente, un ruolo di garanzia volto a proteggere in un sistema maggioritario, interessi e valori permanenti; la costituzionalizzazione del fine politico dell'Unione europea".
La revisione neofascista, federalista e presidenzialista rendeva carta straccia la Costituzione del '48, al fine di garantire e promuovere la competitività del capitalismo italiano all'interno dell'Unione europea imperialista.
La bicamerale D'Alema fallì per volere di Berlusconi e sul tema della giustizia, dal momento che essa, tra gli obiettivi, poneva, sia pure formalmente, la salvaguardia del principio "dell'autonomia e dell'indipendenza della magistratura". Ciò significava, per il neoduce Berlusconi, rischiare di non garantirgli il controllo assoluto dell'esecutivo sulla magistratura. Tuttavia, a colpi di maggioranza, il "centro-sinistra" approvò, sotto il governo Amato nel 2001, la controriforma federalista del Titolo V della Costituzione, nel tentativo (fallito) di intercettare i voti leghisti. Il risultato invece fu di fornire il pretesto a Berlusconi e Bossi per rilanciare la posta stravolgendo l'intera II parte della Costituzione.

Il tentativo della Cdl (ora PDL) di affossare la Costituzione antifascista
La vera e propria costituzione del regime neofascista, infatti, viene presentata nell'autunno 2005 dal governo del neoduce Berlusconi. Approvando in via definitiva la controriforma neofascista, presidenzialista e federalista della Costituzione, essa affossava definitivamente i principi antifascisti della Carta del 1948. In pratica, diventava operante realtà la forma dello Stato da nazionale e unitario a federale e la forma di governo da parlamentare a presidenziale.
Con il premierato si realizzava quel disegno della repubblica presidenziale che è sempre stato un vecchio sogno dei golpisti e degli eredi di Mussolini: a partire dal fucilatore repubblichino Almirante, che la mutuò dal movimento "Nuova Repubblica" del golpista repubblichino Randolfo Pacciardi facendone il cavallo di battaglia del MSI di Almirante e poi di Fini; per poi passare il testimone alla P2 e a Craxi, che fece della repubblica presidenziale l'obiettivo centrale del suo progetto di "Grande riforma". Non a caso il fogliaccio fascista "Secolo d'Italia", nell'esultare per il voto del Senato, ricordò tutto questo sottolineando anche che non c'è contraddizione col federalismo, ma che ambedue - presidenzialismo e federalismo - erano presenti nel disegno di repubblica presidenziale tra i cui "padri fondatori" individua il liberale Maranini, i repubblicani Pacciardi e Spadolini, il democristiano (poi craxiano e leghista) Miglio, oltre che Almirante e Craxi. Anzi, ritrova elementi di federalismo persino nel primo fascismo, che era "sorto regionalista sulla scia dei partiti di ex-combattenti fioriti nel Mezzogiorno dopo la prima guerra mondiale" (Giano Accame su il "Secolo d'Italia" del 17/11/2005).
La controriforma dell'allora Casa delle libertà (ora PDL) assegnava poteri enormi, di tipo mussoliniano, al presidente del Consiglio, che, eletto direttamente "dal popolo", "determina" la politica generale del governo (mentre adesso la "dirige" soltanto), nomina e revoca personalmente i ministri, non ha più bisogno del voto di fiducia del parlamento per governare e può sciogliere le Camere se queste lo sfiduciano.
"Questa opzione (il premierato, ndr) - dichiarò al 'Secolo d'Italia' del 17 novembre 2005 Nania, il presidente dei senatori di AN e uno dei '4 saggi' di Lorenzago che nell'estate 2003 elaborarono la bozza di controriforma costituzionale della Casa del fascio - era preferita anche dall'opposizione di centrosinistra con la quale abbiamo fatto tutto il possibile per dialogare. D'altronde nella Bicamerale di D'Alema il premierato era la forma di governo proposta da lui stesso e persino accettata da Salvi e dallo stesso Cossutta".
Il presidente della Repubblica veniva spogliato di ogni sua attuale prerogativa, tra cui quella di nominare lo stesso presidente del Consiglio e i suoi ministri e quella di sciogliere il parlamento e indire nuove elezioni, e ridotto a una figura decorativa svolgente solo funzioni notarili.
Il parlamento, istituzione centrale e caratterizzante della prima Repubblica, veniva drasticamente ridimensionato nel numero dei parlamentari e in competenze e poteri, nonché completamente stravolto nelle funzioni: spariva il "bicameralismo perfetto" (due camere con uguali poteri, doppia approvazione delle leggi), che garantiva in una certa misura la legiferazione dall'invadenza delle lobby e dai soprusi della maggioranza. Nasceva il Senato federale, espressione diretta degli interessi e degli egoismi delle borghesie regionali. La "devolution" federalista distrugge perciò il principio di universalità e uguaglianza dei servizi primari, come i diritti all'istruzione e alla salute, che dipenderanno dalla ricchezza o dalla povertà delle regioni eroganti. Essa dà il via alla disgregazione dell'unità del Paese, spezzettando l'Italia in 20 staterelli sotto le spinte secessioniste delle borghesie delle regioni del Nord più ricco che vogliono staccare il Sud più povero e arretrato dal resto del Paese.
La politica del governo aveva la precedenza su tutti i provvedimenti in discussione in parlamento. Anche la Corte costituzionale veniva subordinata agli interessi della maggioranza e delle lobby federaliste, diminuendo i giudici nominati dalla presidenza della Repubblica e dai vertici della magistratura e aumentando quelli nominati dal parlamento, di cui tra questi la maggior parte spetta al Senato federale.
La nuova costituzione, per di più, fu approvata a distanza di poco tempo dalla "riforma" dell'ordinamento della giustizia del ministro fascio-leghista Castelli, i cui capisaldi erano la separazione delle carriere dei magistrati, l'assoggettamento della magistratura al potere esecutivo, e perfino i test psicoattitudinali ai magistrati per l'accesso alla carriera. Con la "riforma" Castelli, il governo del neoduce Berlusconi realizzava in pieno e alla lettera l'obiettivo che il capo della P2, Licio Gelli, aveva messo nero su bianco sul suo "piano di rinascita democratica": riportare la magistratura ai tempi del fascismo, quando i giudici erano direttamente agli ordini del regime mussoliniano. La "riforma" Castelli andava perciò a colmare l'unico punto lasciato in sospeso dalla bicamerale D'Alema per completare la fascistizzazione delle istituzioni democratico-borghesi.
La nuova costituzione neofascista fu affossata nel giugno 2006 dalle masse popolari per via referendaria, grazie alla mobilitazione di un ampio fronte democratico e antifascista.

Il secondo governo Prodi
A fare rientrare dalla finestra la devolution bocciata dal referendum popolare insieme alla controriforma presidenzialista della Costituzione voluta dal partito di Berlusconi, ci pensò solo un anno dopo, nell'estate 2007, il governo Prodi.
Il 28 giugno, insieme al Documento programmatico e finanziario 2008-2011, il Consiglio dei ministri approvava, quasi alla chetichella, un provvedimento che assestava un colpo demolitore all'unità del popolo italiano e del Paese, facendogli fare un balzo indietro nel tempo di almeno 150 anni, quando l'Italia era ancora divisa in staterelli prima dell'unificazione nazionale. Si tratta del disegno di legge delega per la piena realizzazione del federalismo fiscale, una novità introdotta con la controriforma federalista del Titolo V della Costituzione attuata dal "centro-sinistra" nel 2001.
Il disegno di legge governativo fissava infatti i principi e i criteri attuativi per la piena applicazione dell'articolo 119 della Carta costituzionale modificata, che sancisce l'autonomia finanziaria di entrata e di spesa di comuni, province, città metropolitane e regioni, fornendo la base economica al trasferimento ad esse della potestà legislativa e di competenze amministrative (devoluzione) su tutta una serie di materie importanti, prima di esclusiva potestà dello Stato centrale, come stabilito nell'articolo 117.
Il provvedimento del governo stabiliva che le regioni a statuto ordinario possono finanziarsi, per le spese inerenti le materie di loro competenza fissate nell'articolo 117, istituendo propri tributi regionali e con la compartecipazione al gettito dei tributi erariali, cioè dello Stato. Anche comuni e province potranno imporre propri tributi.
Per compensare le differenze di gettito (e quindi di servizi alla popolazione) che con l'autonomia fiscale si creeranno inevitabilmente tra le regioni più ricche e quelle più povere, veniva istituito un "fondo perequativo a favore delle regioni con minore capacità fiscale per abitante", alimentato dalla fiscalità generale e dalla quota regionale Irpef. Tale fondo però non era destinato a coprire tutte le voci di spesa, ma solo quelle volte ad assicurare uno standard minimo uguale su tutto il territorio nazionale di servizi essenziali, tra cui sanità e assistenza, nonché le spese per il funzionamento delle amministrazioni locali.
Per tutte le altre voci di spesa, di competenza esclusiva delle regioni o concorrente con lo Stato, le quote del fondo perequativo venivano ripartite alle regioni più povere tenendo conto del numero e della capacità fiscale degli abitanti. Ma legate anche ad un meccanismo di "premi" e "punizioni" per obbligare le regioni beneficiarie a tagliare le spese e aumentare il gettito fiscale, in modo da ridurre le differenze con le regioni più ricche. Il fondo perequativo regionale assicurerebbe solo uno standard quantitativo e qualitativo minimo di servizi essenziali (sanità, assistenza, istruzione, trasporti); il che significa da Terzo Mondo, come del resto avviene già adesso in molte parti d'Italia, soprattutto nel Meridione.
Gli aiuti arriverebbero sempre più col contagocce e condizionati al taglio delle spese e all'adozione di criteri sempre più privatistici e di mercato nella gestione dei servizi. Fermo restando che col federalismo fiscale in tutte le regioni, nessuna esclusa, aumenteranno le tasse e i balzelli, sia nel numero che nelle aliquote, mentre diminuirà in proporzione la forza contrattuale unitaria dei lavoratori e delle masse popolari, spezzettata e dispersa in mille realtà locali.
Non stupiva quindi che Roberto Maroni, allora capogruppo della Lega Nord alla Camera, dichiarasse di apprezzare il provvedimento del governo Prodi "come un punto di partenza": per telefono "Prodi mi ha detto che il Senato federale rientra nei suoi progetti perché vuole una riforma del bicameralismo perfetto".
Con l'approvazione del federalismo fiscale, base economica delle nuove regioni-Stato, fregandosene della volontà popolare, il governo Prodi continuava imperterrito a portare avanti la stessa politica capitalista, neofascista, presidenzialista e federalista che aveva ereditato dal governo del neoduce Berlusconi e che le masse popolari avevano bocciato con il referendum.

L'abbattimento definitivo dello Stato borghese unitario
Un ulteriore salto di qualità si ha a fine aprile 2009, con l'approvazione della delega al governo n. 42, che ha incaricato l'esecutivo di procedere alla concreta applicazione del federalismo fiscale attraverso una manciata di decreti attuativi. "L'utilizzo della legge delega e dei decreti attuativi dovrebbe consentire un percorso parallelo del federalismo fiscale e di quello costituzionale", sottolineava il ministro della Semplificazione, Roberto Calderoli, ipotecando lo smantellamento definitivo della Costituzione democratico-borghese del '48.
Grave la responsabilità del PD, che si astenne in modo opportunistico rilanciando la "bozza Violante", e dell'IDV di Di Pietro che votò a favore. Entro la fine del 2010, si stabiliva nella legge delega 42/2009 di Calderoli, il governo s'impegnerà a emanare i decreti legislativi per riempire di contenuti il provvedimento. Considerati infine i cinque anni di tempo per transitare al nuovo modello, il federalismo fiscale dovrebbe andare a regime nel 2015. A partire da quella data l'Italia diventerà a tutti gli effetti uno Stato federale, in cui comuni, province, città metropolitane e regioni godranno di un'autonomia di entrata e di spesa, andando a rompere di fatto lo Stato borghese unitario in venti staterelli e a sovvertire perfino l'attuale ordinamento costituzionale. Un modello fiscale teorizzato alla fine degli anni Ottanta da Giulio Tremonti, ora ministro dell'Economia del IV governo Berlusconi, nel libro "Le cento tasse degli italiani". La formula del "vedo, pago, voto" sintetizzava l'idea federalista di Tremonti per la quale le mille lire di tasse versate da un milanese non devono necessariamente passare per Roma per tornare ai milanesi. Ciò implicherebbe più controllo della spesa, più efficienza e di conseguenza meno tasse. Come evidenzieremo, pura demagogia.
La legge 42/2009 confermava i principi del federalismo fiscale introdotti dal secondo governo Prodi (autonomia e responsabilizzazione finanziaria di tutti i livelli di governo; attribuzione di risorse autonome alle Regioni e agli enti locali, secondo il principio di territorialità; superamento graduale del criterio della spesa storica in favore del concetto di costi standard) e fissava una sorta di calendario di interventi e di tempistiche: attraverso il federalismo demaniale il governo ha già avviato la dismissione di una larga parte del patrimonio dello Stato per cederne l'amministrazione a regioni, province e comuni. Si tratta di una pluralità di beni tra i quali spiagge, fiumi, laghi, corsi d'acqua, caserme, miniere, terreni e immobili il cui valore è stimato attorno ai cinque miliardi di euro. Il cosiddetto federalismo municipale, approvato dalla Camera il 2 marzo 2011, porta in dote una stangata epocale con l'introduzione di nuove imposte (tassa di soggiorno e tassa di scopo), un inasprimento di quelle vecchie (vedi l'aumento delle addizionali Irpef, persino retroattivo), misure da un punto di vista sociale vergognosamente inique (vedi la cedolare secca sugli affitti che come dimostra il Sunia-Cgil colpisce lavoratori e pensionati e favorisce i ricchi), l'introduzione dell'Imu (Imposta municipale unica) in sostituzione dell'Ici, più onerosa di quest'ultima per artigiani e commercianti e che come per l'Ici ne sono esclusi dal pagamento gli enti di culto (con grande vantaggio soprattutto della Chiesa cattolica a danno delle finanze dello Stato) e gli enti "no profit" (la galassia del terzo settore e del privato sociale a cui il regime neofascista sta delegando parti crescenti del welfare). Neanche una parola ovviamente sul fondo di perequazione, continuamente propagandato dal regime neofascista come misura di "coesione nazionale" e di solidarietà tra regioni ricche e povere.
Al federalismo municipale farà da pendant la riforma fiscale delle regioni e delle province, con la complicata partita dei costi standard della sanità, con i presidenti di Regione che si stanno già accapigliando per spartirsi una torta legata alla sanità di 106,5 miliardi di euro.
Ma il punto più delicato - l'autentico spartiacque che segnerà i confini della nuova mappa federale - sarà la definizione dei costi standard in base ai quali parametrare la ripartizione delle risorse. In pratica il costo standard consentirà di determinare, per ciascun livello di governo (comuni, province, regioni), il fabbisogno di cui necessita un'amministrazione e quindi l'eventuale trasferimento perequativo cui avrà diritto in caso di entrate fiscali insufficienti a garantire i servizi.
Di sicuro i princìpi affermati di "autonomia fiscale" degli enti locali e di "territorialità delle imposte" non assicurano affatto una riduzione delle tasse, come si millanta di continuo. È vero anzi il contrario. Infatti, lo spostamento della fiscalità dallo Stato centrale alle regioni ed enti locali, comporterà nella migliore delle ipotesi una diminuzione dell'aliquota Irpef nazionale corrispondente a un aumento dell'addizionale Irpef regionale, un gioco in apparenza a somma zero ma con ricadute certamente negative per le masse, considerata la possibilità dei governatori di introdurre a loro volta nuove tasse regionali (per esempio sul bollo e sulla benzina per finanziare leggi speciali per lo sviluppo industriale) e dei neopodestà di imporre nuove tasse di scopo comunali per finanziare iniziative locali (per esempio le manifestazioni turistiche, la costruzione di una strada e così via).
Il federalismo fiscale, oltretutto, agirà come una mannaia sui servizi pubblici, soprattutto del Mezzogiorno. Introducendo il principio dei "costi standard" nelle prestazioni di sanità, scuola, assistenza e trasporti si è deciso di ricondurre in pratica i costi dei servizi a quelli della regione più efficiente (la Lombardia). Questo significa che le regioni più povere (per esempio Basilicata e Calabria), pur disponendo di minore capacità contributiva e non potendo più ricorrere alla "spesa storica", dovranno per forza spendere come le più virtuose. Dal momento che per loro, considerati i rispettivi rapporti tra spese ed entrate, è chiaramente un'impresa impossibile, saranno costrette ad accedere al fondo perequativo nazionale, gestito però non dallo Stato ma dai governatori, in quanto finanziato non dalla fiscalità generale ma dal gettito Iva delle singole regioni: in pratica il fondo perequativo sarà alimentato soprattutto dai soldi delle regioni più ricche, che dunque concederanno finanziamenti alle regioni più povere condizionandone gli indirizzi e le scelte e dettandone le condizioni di accesso (la strada più facile da percorrere sarà sicuramente ordinare il taglio della spesa sociale). Un iter che con tutta evidenza condanna il Sud a essere sempre più povero, economicamente arretrato e alla mercé del Nord, dove si concentreranno ancor di più le attività economiche e di ricerca più avanzate della Penisola. Ne è un primo esempio la famigerata controriforma Gelmini dell'università, recentemente approvata dal parlamento nero, che concentra le ridotte risorse pubbliche a pochi atenei (privati o in via di privatizzazione) ritenuti "virtuosi" e naturalmente concentrati al Nord, mentre gli altri sono abbandonati al loro destino di marginalità.
Anzi, i dati Svimez prevedono, a causa dell'attuale disegno di legge, uno spostamento di risorse per un miliardo di euro dal Sud al Nord del Paese. Per salvarsi dalla bancarotta, le borghesie e i gruppi dirigenti reazionari del Sud, grazie alla legge delega di Calderoli, molto probabilmente s'appresteranno a realizzare lo sciagurato sogno piduista e di Cosa nostra di fare del Mezzogiorno in generale e della Sicilia in particolare la Singapore del Mediterraneo, un paradiso offshore defiscalizzato, alimentando così sotto nuove forme l'illegalità che costringe ulteriormente le masse meridionali alla miseria. Un progetto criminale coltivato da più di tre lustri, dal crollo della prima Repubblica travolta da tangentopoli. Del resto fu proprio Miglio, in un'intervista a "Il Giornale" del 20 marzo 1992, a dichiarare sfacciatamente: "Io sono per il mantenimento anche della mafia e della 'ndrangheta... io non voglio ridurre il Meridione al modello europeo, sarebbe un'assurdità. C'è anche un clientelismo buono che determina crescita economica...".
Anche le masse del Nord hanno poco da rallegrarsi. Le regioni settentrionali, a loro volta, per confermarsi virtuose, ricorreranno sempre più alla sussidiarietà, un percorso del resto già intrapreso e che comporta una progressiva privatizzazione dei servizi sociali (scuola, sanità, assistenza e così via), che saranno erogati attraverso la mediazione del "libero mercato", ovvero tramite la logica del profitto capitalistico.
In conclusione, il federalismo fiscale comporterà un inasprimento delle tasse locali in cambio di minori servizi pubblici e sempre più costosi. I servizi sociali, al Nord come al Sud, saranno progressivamente sempre più erogati dai privati e quindi messi sul mercato a fini di profitto, andando a demolire i "diritti di cittadinanza" sanciti dalla Costituzione del '48, ormai ridotta a carta straccia dall'attuale regime neofascista.
Il federalismo è nemico della classe operaia italiana, del Nord come del Centro e del Sud, in quanto rompe la solidarietà e l'unità di classe, mette lavoratori contro lavoratori, ne indebolisce la forza contrattuale, ideologica e politica e li lega ai vari carri delle singole borghesie locali in feroce concorrenza tra di loro.
Per questo il PMLI lo combatte e non cesserà di combatterlo fino al suo affossamento, ormai nel socialismo. Il PMLI non verrà mai meno alla sua missione storica: la conquista dell'Italia unita, rossa e socialista.
Coi Maestri vinceremo!

L'Ufficio politico del PMLI

Firenze, 17 marzo 2011