Con modifiche non sostanziali alla legge delega
Il governo Berlusconi vara la controriforma previdenziale
Tagliata la spesa pensionistica dell'0,7% sul pil. Alzata l'età pensionabile di 4-5 anni. Ridotte da 4 a 2 le "finestre" per andare in pensione
I sindacati non ci stanno e preparano la mobilitazione

Il governo del neoduce Berlusconi torna all'attacco sulle pensioni. Venerdì 20 febbraio il Consiglio dei ministri ha approvato l'emendamento alla legge delega di "riforma" del sistema previdenziale in discussione in parlamento. Lo stesso presentato il giorno avanti alle segreterie di Cgil, Cisl e Uil e alle associazioni padronali a partire da Confindustria.
Nell'occasione, la folta delegazione governativa capeggiata dal vicepremier Gianfranco Fini, e dai ministri del welfare e dell'economia, Roberto Maroni e Giulio Tremonti, ha illustrato a Epifani (Cgil), Pezzotta (Cisl), Angeletti (Uil) e a D'Amato per gli industriali l'ultima proposta governativa. Una proposta messa a punto dopo una discussione interna alla casa del fascio, voluta in particolare da AN e dall'UDC che, nella sostanza, ripropone i contenuti e soprattutto lo stesso taglio alla spesa pensionistica del precedente emendamento di Maroni inserito nelle legge finanziaria 2004, sia pure con delle modifiche di compromesso tendenti ad ottenere il consenso o quanto meno a smorzare il dissenso dei sindacati.

Gli stessi tagli del testo precedente
Lo conferma apertamente Tremonti quando sostiene che la nuova versione della delega previdenziale garantisce lo stesso risparmio previsto nel testo precedente. Quindi cambia la sua articolazione, ma non cambia il risultato. Che si concreta con un taglio dell'0,7% della spesa pensionistica sul pil (prodotto interno lordo) allorché la controriforma sarà a regime. Sempre che venga approvata così com'è dai due rami del parlamento; entro giugno secondo le previsioni del ministro del welfare.
L'attacco governativo alle pensioni passa essenzialmente dall'elevamento dell'età pensionabile di 3+1 (e forse +1 ancora) anni e dalla riduzione delle "finestre" annuali da 4 a 2 per lasciare il lavoro una volta maturati i requisiti anagrafici e contributivi pensionistici.
Mentre con la "riforma" Dini, ancora in vigore, si poteva andare in pensione di anzianità con 35 anni di contributi e 57 anni di età (35+57=92) con la "riforma" Maroni-Tremonti-Fini i requisiti per andare in pensione dal gennaio 2008 richiedono i soliti 35 anni di contributi ma 60 anni di età anagrafica (35+60=95) con un aumento secco di 3 anni. Nel 2010 gli anni anagrafici per il pensionamento necessari, bontà loro escluse le donne, saliranno a 61 (35+61=96). E nel 2013, dopo una verifica dei conti l'età pensionabile potrebbe andare a 62 (35+62=97). Con ciò aumentando di ben 5 anni l'età per andare in pensione.
Nella proposta governativa inoltre permane l'innalzamento di cinque anni di contributi da 35 a 40. Questa sarebbe l'altra possibilità di andare in pensione indipendentemente dall'età. Ma è una possibilità del tutto teorica considerando che è quasi impossibile maturare quel requisito pieno prima dei 60 anni, data l'età media in cui i giovani entrano nel mondo del lavoro e le difficoltà per loro di realizzare una vita lavorativa continuativa e a tempo pieno.
Insomma tra la vecchia proposta e quella nuova, specie su questo punto, non c'è una grande differenza: se non è zuppa è pan bagnato, dice un proverbio popolare. L'aumento degli anni anagrafici e di quelli contributivi c'è! Il famoso "scalone" che ritarda la pensione al gennaio 2008 è solo attenuato da 5 a 3 anni. Che però diventano 4 e forse 5 successivamente.
è vero, dalla delega sulle pensione è scomparsa la decontribuzione di 3-5 punti percentuali a favore delle aziende per i neoassunti (che avrebbe dissestato le casse dell'Inps), ed è stata sostituita l'obbligatorietà del versamento del Tfr dei lavoratori nei fondi pensione, con la formula del silenzio-assenso. Ma il governo è stato costretto ad apportare queste modifiche non solo e non tanto, verrebbe di dire, a seguito delle pressioni esercitate dalle lotte sindacali, ma del cattivo andamento del debito pubblico e dall'incostituzionalità dello scippo per legge delle liquidazioni. Quanto alle altre richieste dei sindacati (separazione tra assistenza e previdenza, aumento dei contributi previdenziali del lavoro autonomo, ecc.) non c'è traccia.
Non è come l'avrebbero voluta le associazioni padronali ma" fare una riforma complessiva - dice il presidente di Confindustria - in un momento così delicato rappresenta comunque un passo avanti".

Assemblea delegati, piattaforma e risposta di lotta
I sindacati confederali, tutti e tre, invece non ci stanno, nonostante le modifiche apportate alla legge delega. Epifani ha ribadito che la Cgil si conferma contraria alla "riforma delle pensioni del governo". Per Angeletti aumentare obbligatoriamente l'età pensionabile è un'idea antiquata. Pezzotta ha affermato: "Mantengo la contrarietà all'innalzamento dell'età l'impatto è notevole e il salto mortale rimane".
Ma la bocciatura dei leader sindacali va oltre e investe l'intera politica economica del governo definita sbagliata nelle priorità, inadeguata ad affrontare i problemi che stanno di fronte al Paese. I vertici di Cgil, Cisl e Uil, in una ritrovata unità sul tema delle pensioni (era già successo con la manifestazione del 6 dicembre scorso) hanno deciso di dire basta a un "dialogo sociale" dettato dal governo, nei temi e nei tempi, che non porta da nessuna parte; basti dire che Maroni ha già annunciato di aprire un confronto per collegare la trattativa del salario alle realtà locali che significa mettere da parte il contratto nazionale e resuscitare le "gabbie salariali".
I vertici sindacali hanno fatto sapere di aver stabilito di costruire una piattaforma rivendicativa unitaria che affronti la recessione economica, la crisi industriale e l'occupazione, i problemi del Sud, il costo della vita e la difesa del potere d'acquisto dei salari e delle pensioni, il welfare e le nuove povertà e altro ancora. Una piattaforma da sottoporre alla discussione di un'assemblea unitaria nazionale dei delegati di Cgil, Cisl e Uil fissata per il 10 marzo prossimo a Roma. In questa assemblea si parlerà anche di mobilitazione e di sciopero, compreso quello generale che allo stato nessun dei segretari sindacali esclude.
Il nostro auspicio è che la suddetta assemblea sia veramente democratica e non formale, di facciata, che la piattaforma rivendicativa sia adeguata ai bisogni delle lavoratrici e dei lavoratori di ambo i sessi, ivi compresi gli immigrati, dei giovani e degli anziani, dei disoccupati e delle popolazioni del Sud, che lo sciopero generale si faccia perché al governo Berlusconi non si deve dare tregua finché non cade sotto la spinta della piazza. 25 febbraio 2004