Hanno perso più di 1.700.000 voti
DOPO IL CROLLO ELETTORALE ESPLODONO LE CONTRADDIZIONI NEI DS
Verso un congresso con linee e gruppi di potere contrapposti: dalemiani, veltroniani, ulivisti, salviani, "sinistri''. Fassino in pole position per l'incarico provvisorio a segretario
D'ALEMA E AMATO LAVORANO PER UN NUOVO PARTITO SOCIALISTA
La pesante sconfitta del 13 maggio ha fatto esplodere le contraddizioni tra le varie correnti interne al partito dei DS e rimesso in movimento una situazione che era stata ingessata per far fronte alla sfida elettorale. Del resto le dimensioni della disfatta sono tali da non offrire nessun serio alibi all'attuale gruppo dirigente per poter lasciare tutto com'è e continuare come se nulla fosse successo.
Rispetto alle precedenti politiche del 1996, infatti, sono ben 1.748.549 i voti persi dal partito della Quercia, che si è assottigliato fino al 16,6% dei voti validi (equivalente al 12,5% dell'intero elettorato!): un minimo storico, se si eccettuano le elezioni del 1992, dove si presentavano come PDS subito dopo la liquidazione del PCI. Se si pensa che dal punto più alto raggiunto nelle europee dell'84, quando sorpassò addirittura la DC, il partito dei rinnegati del comunismo ha praticamente dimezzato la sua consistenza, si ha un'immagine piuttosto eloquente del suo fallimento storico, politico e organizzativo, nonché delle inevitabili lacerazioni interne a cui andrà incontro, cosa che difatti è già cominciata.
In percentuale questo tracollo equivale al 4,5% dei voti validi, il che porta la Quercia a quasi la metà dei consensi ottenuti dal partito del neoduce Berlusconi, quando invece nel 1996 lo superava, sia pure di una frazione di punto. E come se non bastasse, mentre cinque anni fa l'allora PDS godeva di una posizione assolutamente egemone all'interno della coalizione dell'Ulivo, potendo ancora contare sullo "zoccolo duro'' del suo elettorato tradizionale e sul voto di appartenenza, stavolta si ritrova improvvisamente declassato al ruolo di comprimario con la Margherita, alla quale ha pagato un pesante contributo di voti in libera uscita dal suo serbatoio in direzione del centro. Infatti il raggruppamento di Rutelli, Parisi, Castagnetti, Mastella e Dini ha risucchiato voti dall'alleato un po' dappertutto, crescendo fino a contendergli da vicino la leadership dell'Ulivo, con il 14,5% dei voti validi, e a soli 770 mila voti di distacco.

LE DIMENSIONI DELLA DISFATTA
Non solo, quindi, non c'è stato lo "sfondamento al centro'' su cui i rinnegati di via Nazionale avevano puntato tutte le loro carte, e al contrario è stato il centro (si pensi anche a Di Pietro) a portargli via consensi, ma questa tendenza è stata confermata pesantemente proprio in molte delle sue tradizionali roccaforti elettorali, le cosiddette "regioni rosse''. In Umbria, per esempio, la Quercia ha perso oltre 45 mila voti, quasi un quarto dell'elettorato che aveva nel '96. In Emilia-Romagna perde oltre 220 mila voti, il 21% della base elettorale di cinque anni fa. Perfino nell'"isola felice'' della Toscana, che il partito dei rinnegati del comunismo considera il suo nuovo modello, c'è stata una perdita secca di oltre 113 mila voti, il 13% di ciò che resta di quella che una volta era una scontata e intangibile rendita di posizione.
Per non parlare poi di altre importanti regioni, del Nord come del Centro e del Sud. In Lombardia la Quercia lascia sul campo quasi 240 mila voti, un quarto secco del suo elettorato. A Milano si fanno addirittura sorpassare dalla Margherita. Nel Lazio subiscono un'emorragia di quasi 245 mila voti, equivalente a un elettore su tre che non gli ha rinnovato la fiducia. Nel Sud, poi, è una vera catastrofe: meno 176 mila voti in Campania (il 27,5% della propria base elettorale), meno 152 mila voti in Sicilia (un elettore su tre), meno 206 mila in Puglia, pari a ben il 40% in meno dei voti che aveva nel '96!
Il fatto è che se è vero che questo tracollo era già avvenuto in parte con le amministrative ed europee del '99, quando i DS persero addirittura il comune di Bologna, e soprattutto con le regionali dell'anno scorso, è altrettanto vero che questo partito non è riuscito ad intercettare il voto della quota di astensionisti che quest'anno (rispetto all'anno scorso, ma non al '96) sono tornati a votare, confermando in pieno la crisi di consensi che ha cominciato a minarlo fin dall'indomani della vittoria del '96, quando in pochi anni le masse hanno potuto toccare con mano l'illusorietà delle speranze elettorali suscitate da quell'evento, a fronte invece della sostanza neofascista, liberista e guerrafondaia della politica dei governi di "centro-sinistra''.
Insomma, gli astenuti di area Ulivo che sono tornati a votare sono in massima parte quelli di centro e di destra, che hanno votato la Margherita e Di Pietro. Gli astensionisti di sinistra hanno per la maggior parte confermato invece la loro sfiducia nella "sinistra'' neofascista continuando a disertare le urne. Senza contare che una quota consistente di voti i DS li hanno certamente travasati a sinistra verso i partiti dei falsi comunisti Bertinotti e Cossutta (voti che comunque non hanno potuto evitare lo stesso un loro arretramento secco, causato dall'emorragia a sinistra verso l'astensionismo). Ecco il perché di questo spostamento nei rapporti di forza tra le due maggiori componenti dell'Ulivo, DS e Margherita. E dire che dal punto di vista dell'attrattiva sull'elettorato borghese il partito dei rinnegati non partiva certo svantaggiato, potendo contare su cinque anni di permanenza al governo, di cui due con un proprio presidente del Consiglio, con tutti i legami di sottogoverno che ha potuto coltivare in questo frattempo per attingere ai serbatoi elettorali della destra.

VOGLIA DI RESA DEI CONTI
Non appena si è profilata la disastrosa sconfitta, subito sono esplose le contraddizioni e la voglia di resa dei conti tra le correnti e i capibastone diessini, che erano già state rinviate dopo la batosta elettorale dell'anno scorso, con l'uscita della "sinistra'' interna dalla segreteria, la tregua armata tra Veltroni e D'Alema e l'allineamento provvisorio alla maggioranza della corrente capeggiata da Salvi. Il fuoco è stato aperto dallo stesso capofila dei rinnegati, D'Alema, che forte della sua rielezione nel collegio di Gallipoli e secondo la regola classica che la miglior difesa è l'attacco, ha sparato a zero contro Veltroni e Rutelli e si è offerto come "uomo della provvidenza'' in grado di rialzare i DS dalla polvere grazie al suo progetto di farne un partito socialdemocratico europeo, guidato da lui stesso ed Amato, in cui far rientrare anche la ricucitura dei rapporti a "sinistra'' con Bertinotti, da lui magnanimemente giudicato non direttamente colpevole del tracollo diessino; il quale da parte sua ha subito raccolto entusiasticamente la gelida e strumentale "difesa'' del presidente DS trasformandola in un caloroso incoraggiamento alla sua proposta trotzkista della "sinistra plurale'' di stampo mitterrandiano.
"Il nostro partito ha sofferto per lo scarso rilievo che ha avuto il progetto di una nuova forza del socialismo italiano. Noi abbiamo bisogno di un progetto che si è in parte appannato, nel corso della campagna e non solo'', ha detto infatti D'Alema ai suoi supporter che lo festeggiavano, annunciando il "problema di un riassetto dei vertici interni''. E a chi gli chiedeva se questo equivalesse a candidarsi di nuovo alla guida dei DS, ha risposto sornione: "Beh, io un lavoro ce l'ho già, grazie al voto dei cittadini di Gallipoli. Sono presidente della Fondazione Italiani Europei, sono presidente del partito che è una carica altissima. Non è che sia proprio disoccupato. Poi vedremo''.
Sua è stata anche la proposta di eleggere Fassino a capo del partito in attesa del congresso che dovrà decidere sui nuovi assetti interni e la leadership futura dei DS. Quanto a Rutelli, riconfermato leader dell'Ulivo, gli ha lanciato uno dei suoi tipici siluri avvelenati: parlando in Sardegna a un convegno sulla "new economy'', il capofila dei rinnegati ha definito "sciocca'' la domanda postagli da un giornalista su chi guiderà l'Ulivo dopo le elezioni, perché "aprire una disputa sulla leadership a cinque anni anni dalle prossime elezioni è una tale stupidaggine che spero non appassioni nessuno''. E dopo aver così liquidato le ambizioni di Rutelli ha invece teso la mano a Berlusconi, definendo la sua "vittoria'' un "evento non traumatico'' frutto legittimo del sistema maggioritario dei "paesi democratici'', offrendo al cavaliere piduista un'opposizione "non antagonista, non primitiva, che tiene conto della sfida con la destra sulla modernizzazione e innovazione del paese''.

SALTATI I VECCHI EQUILIBRI
Ma se D'Alema affila i coltelli, chiama a raccolta il suo esercito (i vari Angius, Fassino, Bersani, Turco, ecc.) e si prepara a marciare su Roma muovendo da Gallipoli, mirando a ricongiungersi con Amato che a sua volta muove da Grosseto, neanche gli altri capicorrente DS stanno a guardare, e ciascuno ha dato la stura ai malumori e ai veleni che da tempo covavano sotto i vecchi equilibri ingessati dalla gestione del potere governativo e istituzionale e dalla comune necessità di salvarsi la poltrona in parlamento e nei comuni. Da qui certe dichiarazioni invelenite, come quella del segretario regionale dell'Emilia-Romagna, Mauro Zani, che ha attaccato entrambi i diarchi Veltroni e D'Alema, accusati di aver abbandonato il partito a sé stesso in campagna elettorale per curare il proprio orticello, a Roma il primo e a Gallipoli il secondo. Subito bacchettato, a sua volta, dal coordinatore della segreteria DS, il veltroniano Folena, che gli ha rinfacciato la perdita del 7% dei suffragi nella ormai quasi ex "regione rossa''.
Anche il liquidatore del PCI, il rinnegato Occhetto, rimasto trombato in Calabria, ha sparato a zero sull'attuale vertice diessino, che "ha toccato il fondo in questa tornata elettorale'', chiedendo di "farla finita con la politica dei dioscuri'' (Veltroni e D'Alema). Lo stesso ha fatto Bassolino, criticando apertamente i festeggiamenti di D'Alema a Gallipoli in un momento di lutto nazionale per il partito e per l'Ulivo.
A sua volta, Veltroni, si è tirato fuori dalla mischia annunciando che comunque vada il ballottaggio a Roma lui darà le dimissioni da segretario per dedicarsi alla sua città. Non senza però levarsi la soddisfazione polemica di rispondere a D'Alema che il bilancio degli errori del partito andrà fatto sull'intero arco di "questi ultimi anni'', come dire ribaltone anti Prodi e governi D'Alema compresi, e non solo sulle ultime settimane di campagna elettorale. In ogni caso ha chiesto di serrare le file e mettere la sordina a tutte le polemiche fino alla conclusione dei ballottaggi.
Richiesta accolta nella forma ma non nella sostanza, dato che la faida tra i gruppi di potere e i loro rispettivi esponenti non ha minimamente accennato a placarsi sui mass media borghesi. Da certi dirigenti DS di Reggio Emilia, per esempio, è già partita la proposta di dare vita senza indugio a un partito unico dell'Ulivo. Dunque scioglimento dei DS e sua confluenza in un "partito democratico'' di stampo clintoniano, come propone da tempo e riconferma adesso il liquidatore Occhetto.
Si muove anche la "sinistra'' di Marco Fumagalli, Gloria Buffo e Fulvia Bandoli, chiedendo un congresso straordinario da tenersi a breve, e si muove anche Cesare Salvi, che giudica arrivato il momento di abbandonare i tatticismi e porre la propria candidatura alla guida del moncone diessino: "Il dato della Quercia è pessimo - ha dichiarato senza mezzi termini il ministro del Lavoro uscente - e purtroppo conferma l'analisi che qualcuno, me compreso, andava facendo da tempo. Abbiamo perso due milioni di voti rispetto al '96. Il recupero dell'astensionismo di sinistra non c'è stato o è stato insufficiente. Paghiamo la divisione con Bertinotti. La sconfitta è qui, nella nostra area, con i DS che vanno malissimo e Rifondazione che arretra''. Dopodiché ha preso le distanze sia dall'ipotesi di un autoscioglimento nell'Ulivo, sia del partito socialdemocratico dalemiano a guida Amato, che al contrario di Cofferati, ha sottolineato Salvi rimarcando le sue riserve, "dovrebbe prima iscriversi al partito''.

UN PARTITO ALLO SBANDO
è stata fatta anche una riunione della segreteria, ma senza trovare un accordo, né sulla proposta ispirata da D'Alema di far eleggere dall'assemblea congressuale Fassino come "reggente'' del partito per preparare "con calma'' il congresso (dando cioè tutto il tempo a D'Alema e Amato di preparare il loro progetto), né sulla richiesta della "sinistra'' e dei salviani di saltare l'assemblea e convocare invece il congresso straordinario al più presto (luglio o al massimo settembre).
Alla fine è stato deciso di rimandare tutto a dopo i ballottaggi, ma la resa dei conti è all'ordine del giorno, perché la sensazione diffusa è che questo partito sia ormai arrivato al capolinea. Lo spettro dello scioglimento, per essere inghiottito dall'Ulivo, è sempre più incombente sullo sfondo, soprattutto ora che la Margherita si è ingrassata a sue spese. Da qui la guerra per bande che sta esplodendo al suo interno ricalcando le orme della peggiore DC dorotea. Ogni capobastone ormai tira l'acqua al suo mulino e chiama a raccolta le sue truppe: dalemiani, veltroniani, ulivisti, salviani e "sinistri'', mentre ai bordi del campo scalpitano i boss locali che dai loro feudi mirano a dare la scalata al centro, i Bassolino, i Chiti, gli Zani, per non parlare di Cofferati, che per ora si tiene coperto, ma che detiene un potere contrattuale decisivo potendo gettare sul tavolo il peso della Cgil; e chi più ne ha più ne metta.
Ecco la squallida fine di questo partito di rinnegati del comunismo: un'indegna accozzaglia di generali allo sbando, che si azzuffano rinfacciandosi l'un l'altro la responsabilità della disfatta e per decidere chi dovrà raccogliere i resti del loro esercito in rotta.