Il culto di Diliberto revisionista
Confessiamo di aver fatto fatica a capire che non si trattava di uno scherzo. Eppure ci aspettavamo di tutto da un partito falso comunista come il PdCI. Ma stentavamo a credere che fossero arrivati a celebrare in pompa magna nientemeno che il compleanno del proprio segretario, come se avesse raggiunto chissà quale traguardo e avesse compiuto chissà quali imprese.
Invece. Due intere pagine, più un vistoso richiamo in prima, su "la Rinascita della sinistra" del 20 ottobre per annunciare i cinquant'anni di Oliviero Dilibero: "Auguri Diliberto, mezzo secolo ma non lo dimostra".
All'interno una grande vignetta di Vauro e un'intervista alla grande amica del segretario PdCI, l'attrice Marisa Laurito, che non riesce a descrivere di lui "nessun particolare difetto".
Il pezzo celebrativo lo scrive invece la direttora Manuela Palermi, già redattrice di "Liberazione" e sua portavoce e attuale capogruppo del PdCI al Senato, che ne ripercorre gli ultimi anni e ne canta amorevolemente le lodi. Qualche perla: "un ragazzo cordiale, con l'aria intelligente e cocciuta"; "Oliviero ha un pregio grande. È un uomo, un dirigente politico, che sa ascoltare le ragioni degli altri quando queste lo meritano". E fiato alle trombe: "leader rispettato e riconosciuto", "cavallo di razza". Poi, per attenuare le possibili accuse di megalomania e narcisismo che potrebbero facilmente piovergli addosso, ne canta la modestia: "È un uomo schivo", "paziente", "dovevo litigarci perché andasse in televisione", "è severo, eticamente severo, molto più di quanto non sembri. Gli dà fastidio sprecare il tempo". Per finire c'è anche il ritratto familiare: il rapporto con la moglie Gabriella, con la gatta Lucrezia e persino la "grappetta che alla fine della giornata lo rifocilla".
Non è finita. Il servizio è condito con un pezzo del professore di letteratura comparata all'università di Cagliari, nonché consigliere comunale del PdCI della stessa città, Radhouan Ben Amara, che dedica al "figlio del male e della luce", Diliberto, una vera e propria agiografia esaltando il "suo sarcasmo arabesco", "la sua marcia funambolesca oscillante verso la conoscenza del sé e dell'altro", il suo credere "nell'incrocio delle radici e delle provenienze", nel "vagabondaggio delle identità", e così via.
A chiudere il cerchio è mancata solo la richiesta di "santo subito". Alla faccia del "culto della personalità" che i falsi comunisti alla Diliberto hanno sempre contestato ingiustamente ai grandi maestri del proletariato internazionale, specie a Stalin e Mao, che al contrario l'hanno sempre combattuto.
Il segretario del PdCI, fra l'altro, si è limitato a commentare: "Un po' imbarazzanti tutte quelle parole, quelle lodi". Facendo trasparire che non sia stata proprio una sorpresa.

Chi è davvero l'imbroglione revisionista Diliberto
Diliberto è forse un "cavallo di razza", ma certamente non di una razza comunista bensì di una razza borghese e revisionista.
Nato a Cagliari il 13 ottobre 1956 da una famiglia borghese cattolicissima, padre funzionario del consiglio regionale e poi avvocato, madre insegnante di liceo. Nessuno dei due comunisti. Il primo incontro con la politica è nel 1969, in quarta ginnasio quando comincia a militare "in formazioni studentesche dell'estrema sinistra", come si racconta lo stesso Diliberto. Ma ben presto si avvicina al PCI revisionista. "Non avevo nessuna passione per le esperienze cinesi. Assistevo allibito alle eterne discussioni sul Libretto Rosso di Mao. Non avevo nemmeno il mito del Che".
L'approdo inevitabile è nella FGCI, l'organizzazione giovanile del PCI, a cui si iscrive nel 1974 divenendo prima responsabile degli studenti, poi segretario provinciale di Cagliari, organizzatore regionale, quindi membro della segreteria provinciale del partito. Nel frattempo si laurea in giurisprudenza. Deve scegliere fra la carriera di funzionario di partito o quella universitaria. Sceglie la seconda anche per avere mano libera politicamente. Abbandona per lungo tempo la politica attiva. Si trasferisce prima a Roma, poi Francoforte, va a studiare anche a Parigi. Inizia la carriera universitaria come docente di Storia del diritto romano all'università di Cagliari per poi diventare, nel 1994, forse il più giovane in Italia, professore ordinario presso la Facoltà di Giurisprudenza dell'Università La Sapienza di Roma.
Alla politica attiva torna solo nel 1989 dopo la Bolognina per impedire la liquidazione del PCI. Si impegna nella seconda mozione, quella ingraiana, poi si avvicina alla mozione di Cossutta nonostante il percorso diverso. Sì, perché in realtà Diliberto è sempre stato un revisionista di destra. A chi gli ha chiesto se è un vero comunista ha risposto: "Nella versione italiana... Il mio punto di riferimento era Giorgio Amendola (lo storico destro del PCI, ndr). Sono rimasto lì. Tutti gli altri mi hanno scavalcato a destra".
Partecipa alla fondazione del PRC. Al primo congresso entra nella direzione nazionale del Partito. Nel '92 dirige la stampa e propaganda. Nel 1994, con il secondo congresso, che elesse Bertinotti, entra nella segreteria nazionale e viene nominato direttore di "Liberazione" con l'obiettivo di farne un quotidiano. È proprio su questo incarico che si addensano le prime nubi. "L'Espresso" accusa il PRC di avere reso possibile il passaggio di "Liberazione" da settimanale a quotidiano grazie all'intermediazione dell'antico amico di Diliberto, il massone sardo Nicola Grauso, già finanziatore di Rinascita del PCI e de "il manifesto" e stretto alleato di Berlusconi. Seguiranno querele. Ma l'amicizia con Grauso, Diliberto non la smentisce, "non cambio amicizie a seconda delle convenienze" si schernisce.
Grauso sarà anche testimone, insieme a Cossutta, alle sue seconde nozze con la sua ex allieva Gabriella. La prima moglie, Delia, oggi magistrato, era la figlia di Umberto Cardia, padre nobile del PCI sardo.
Le amicizie scomode non lo scompongono. Non solo Grauso. C'è anche quella col mafioso Marcello Dell'Utri, col quale condivide la passione per i libri antichi, o col gladiatore Cossiga che lo tratta quasi come un figlioccio. A Diliberto piace anche l'ex ministro degli interni del governo Berlusconi, Giuseppe Pisanu, anche lui sardo.
Da direttore di "Liberazione" passa a capogruppo del PRC alla Camera. E' l'unico a schierarsi contro l'apertura della crisi del primo governo Prodi, anche se poi toccò a lui spiegare in parlamento i motivi per cui il PRC intendeva ritirare la fiducia. Era il 1997. La crisi rientrò, ma l'anno successivo nuova crisi e questa volta scissione dei "Comunisti italiani". Cossutta, Diliberto e Marco Rizzo decidono di soccorrere il "centro-sinistra" ed escono dal PRC e fondano un nuovo partito, il PdCI.
In premio giunge l'incarico di ministro di Grazia e Giustizia nel primo governo D'Alema, che Diliberto ricoprirà dall'ottobre 1998 alla primavera 2000 attirandosi molte lodi a destra e critiche da sinistra. Fra le altre cose Diliberto è per la separazione delle carriere dei magistrati. Lo stesso obiettivo indicato dal "piano di rinascita democratica" e dallo "Schema R" di Gelli, Craxi e Berlusconi. Proprio di Craxi ebbe a dire nel 2001: "E' stato un dirigente politico vero. Ha dominato la scena politica italiana per più di quindici anni. Ha contribuito a cambiare l'Italia" (sic!).
Lascia il ministero per diventare segretario del PdCI. All'epoca dichiara che lui sarà solo il segretario ma che "Cossutta rimane il capo del partito". Le sviolinate al vecchio volpone revisionista si sprecano: "è il mio secondo maestro", "è una persona squisita". Cossutta ancora non sa di essersi allevato una serpe in seno.
Alla fine del 2005 Cossutta annuncia che "il comunismo non c'è più" e che è l'ora di rinunciare alla falce e martello suscitando un vespaio al vertice del partito. Quando è l'ora di formare le liste elettorali, Diliberto si presenta ovunque capolista, mentre vengono esclusi tutti i fedelissimi di Cossuta a cominciare dalla figlia Maura. Cossutta, che si dimette da presidente, è andato in avanscoperta ed è stato sacrificato da Diliberto senza batter ciglio. Fra i due in realtà c'è solo una contraddizione di tempi e di poltrone non di obiettivi, anche perché da sempre perseguono entrambi la "Confederazione della sinistra" e hanno sostenuto la lista Arcobaleno con i Verdi.
Già nel 2001, Diliberto aveva detto che "noi siamo comunisti del Duemila, non poniamo questioni ideologiche nel momento in cui scegliamo le alleanze" ("La Stampa", 11 gennaio 2001). Tanto più che di lotta per il socialismo non se ne parla nemmeno: "Non credo che la nostra generazione, e temo, neppure la prossima, possano concretamente lottare per il superamento del capitalismo. Possiamo lottare per una società più democratica e più giusta. E lo dobbiamo fare insieme alle altre forze democratiche come ci ha insegnato un signore che si chiamava Palmiro Togliatti" ("Unità", 17 dicembre 2001).
La proposta di Diliberto è quella di creare una "Confederazione della sinistra" indirizzata "a tutti coloro che sono alla sinistra del partito democratico", ossia diessini che non entreranno nel partito democratico, PRC, Verdi, Fiom, Arci, ecc. "Una soggettività politica unitaria, all'interno della quale continua e continuerà ad esistere il Partito dei comunisti italiani" (Comitato centrale del PdCI del 22 ottobre 2006). In sostanza, il PdCI potrebbe continuare formalmente ad esistere pur essendo stato di fatto liquidato.
Diliberto viene spesso descritto come un comunista ortodosso. La verità è che mentre continua a professarsi formalmente comunista, tanto da non perdere la sua base elettorale e strapparne agli avversari, PRC in primis, che si spostano sempre più a destra, non perde occasione per assicurare fedeltà assoluta al governo della "sinistra" borghese Prodi, qualunque nefandezza esso compia. Finanziaria e missioni militari comprese.

2 novembre 2006