Cosa pensate della teoria della "decrescita"?

Cari compagni,
come voi sapete, in Italia alcuni partiti e movimenti sostengono la teoria della "decrescita". A me risulta che in Europa esistono anche dei partiti comunisti che sono d'accordo con tale teoria. Come, per esempio, il Partito comunista del Canton Ticino (Svizzera) di cui vi allego un documento dal titolo "Documento di discussione per una svolta eco-socialista dell'azione politica del Partito comunista".
Io non ho un'idea chiara sulla "decrescita", potete aiutarmi?
Saluti solidali.
Marco - Genova
 
La principale critica a questo documento risiede nel fatto che esso auspica un mondo diverso di cui non se ne definiscono tratti e caratteristiche e che sarebbe possibile costruire non combattendo e distruggendo il capitalismo e l'imperialismo ma nell'ambito del capitalismo stesso.
Constatata infatti "l'insostenibilità per il pianeta di garantire a 7 miliardi di persone i livelli di consumi energetici e alimentari quali quelli praticati in Occidente ed ugualmente neppure garantire tali livelli di consumi a quel nuovo miliardo di cittadini dei paesi emergenti che si sta affiancando al primo miliardo di iperconsumatori dell'occidente" si auspica "una revisione totale e radicale del modello di sviluppo e di vita dell'occidente capitalista e del metodo imperialista di gestione delle materie prime ed energetiche" e l'adozione di misure per rallentare e invertire il corso del "processo di accumulazione capitalistico".
Non si tiene in conto però di una delle lezioni più importanti della storia: è impossibile cambiare davvero il mondo senza avere una piattaforma strategica che metta al centro la madre di tutte le questioni, ossia, paese per paese, la presa del potere politico da parte del proletariato, per conquistare il socialismo prima e il comunismo poi.
Le tesi, l'impianto generale e le risoluzioni del documento definiscono quindi una linea politica illusoria e ingannatoria, frutto di un ormai vecchio e fallito riformismo e pacifismo borghesi, che mira, più che ad elevarne la coscienza, a tarpare le ali al movimento anti-globalizzazione ed ai movimenti ambientalisti e nasconde in qualche modo il desiderio di giustificare e salvare il disumano sistema capitalistico dalla crisi e ritardarne l'inevitabile fine.
La fame, la miseria, la disoccupazione, le ingiustizie sociali, l'inquinamento e le devastazioni ambientali, le disuguaglianze nei consumi energetici tra i paesi del Terzo Mondo e quelli industrializzati, come pure all'interno dei paesi "sviluppati", la stessa tendenza alla sovrappopolazione relativa, discendono direttamente o indirettamente dal sistema economico capitalistico e sono la dimostrazione lampante, non solo che questo modo di produzione è insostenibile per tutti i popoli del mondo, ma che più acuta ed impellente è la necessità di abbatterlo, per costruire sulle sue macerie un modo di produzione superiore senza borghesia monopolistica, proprietà privata dei mezzi di produzione, schiavitù del lavoro salariato (estorsione di lavoro non pagato), legge del massimo profitto, oppressione della stragrande maggioranza della popolazione da parte di un'infima minoranza di sfruttatori.
Il deficit risiede quindi in una conoscenza superficiale del marxismo-leninismo-pensiero di Mao da cui discendono conclusioni errate, fuorvianti e controproducenti. Tra queste merita un'attenzione particolare il rilancio della teoria reazionaria della "decrescita" che vorrebbe rappresentare un'alternativa alla globalizzazione e alla crisi economica globale in atto e costituirebbe niente meno che il volano per "la trasformazione anticapitalistica ed eco-socialista della società". L'analisi economica di Marx è usata per rendere digeribile questa "svolta politica" e verniciarla di termini marxisti, ma al lettore attento non potrà sfuggire che accanto a un marxismo svuotato del suo succo vitale (revisionismo) troviamo la mancanza assoluta di una denuncia dell'imperialismo, quale fase suprema del capitalismo. Ne discende che le immanenti contraddizioni del modo di produzione attuale non sono neanche citate: quella tra lavoro e capitale, tra proletariato e borghesia, tra i vari gruppi finanziari e le potenze imperialistiche nella loro lotta per le fonti di materia prima, quella tra un pugno di paesi imperialisti dominanti e i popoli coloniali, e "infine", quella tra l'anarchia della produzione e la tutela degli ecosistemi ed equilibri ecologici del pianeta.
Due concetti decisivi sfuggono del tutto ai redattori del documento. Il primo è che l'analisi economica di Marx ha dimostrato brillantemente che: "Il vero limite del capitalismo risiede nel capitalismo stesso". Il secondo è che, coerentemente con la scienza marxista, Lenin ha così sintetizzato le prospettive del mondo: "nessuna forza potrebbe distruggere il capitalismo se la storia stessa non l'avesse già eroso da tempo. L'imperialismo è un particolare stadio storico del capitalismo. E questa particolarità è triplice: l'imperialismo è (1) - capitalismo monopolistico; (2) - capitalismo parassitario e imputridente; (3) - capitalismo morente. A partire dal 1917 se ne è avuta la conferma in tutto il mondo: l'imperialismo è la vigilia della rivoluzione sociale del proletariato" (Lenin, "Imperialismo, fase suprema del capitalismo").

Marx e la caduta tendenziale del saggio di profitto
"Nell'analisi marxiana - è scritto nel testo - il capitalismo è un rapporto sociale, nel quale l'allargamento continuo della produzione, la sua mancanza di ogni limite, appare elemento costitutivo e fondamentale. Questo fatto rappresenta la base di una spiegazione convincente dei problemi ecologici generati dalla società attuale. È infatti del tutto chiaro che un sistema economico votato all'espansione senza limiti non è compatibile con la finitezza dell'ambiente naturale... la tendenza all'accumulazione illimitata non devasta solo la natura ma la stessa società umana". A questo punto il documento introduce il concetto di "caduta tendenziale del saggio di profitto" quale "una delle contraddizioni fondamentali del sistema economico capitalistico". Per arginare e mitigare le conseguenze derivanti da questa legge occorrerebbero politiche economiche centrate sulla teoria della "decrescita": "una delle poche prospettive anti capitaliste concrete nel mondo occidentale in declino, perché consente di colpire elementi vitali per il capitalista di accumulo di plusvalore".
In pratica ciò significherebbe: "sviluppare produzioni non intensive con distribuzione dei prodotti a breve distanza e risparmiando sul consumo energetico, favorire la piccola produzione indipendente", agire sul processo di circolazione delle merci e sui cicli di rotazione del Capitale, "diminuendo la domanda" e i prezzi, "potenziare l'autonomia amministrativa", ecc.... Queste misure garantirebbero una "democratizzazione dell'economia" e una "umanizzazione della globalizzazione".
Seguendo il pensiero dell'economista parigino Serge Latouche e il dogma espresso nella cosiddetta equazione Kaya "sia la decrescita economica, intesa come una riduzione obbligata dei consumi, sia una diminuzione della popolazione mondiale sarebbero essenziali al fine di evitare una catastrofe ecologica". La decrescita risolverebbe i problemi legati alla fornitura di energia e allo smaltimento dei rifiuti, al bisogno di materie prime. Del resto i sostenitori di questa teoria affermano anche che solo la decrescita della domanda può permanentemente combattere "il gap di domanda". Per le risorse rinnovabili "la domanda e quindi la produzione deve essere abbassata a livelli che prevengano l'esaurimento e siano sostenibili per l'ambiente".
Per smascherare queste illusioni occorre quindi riprendere in mano l'opera di Marx "Il Capitale" per scoprire qual è la relazione tra il plusvalore e la caduta tendenziale del saggio di profitto. Marx scrive: "lo scopo della produzione capitalistica è l'autovalorizzazione del capitale ossia l'appropriazione del plusvalore, la produzione di plusvalore, il profitto... il saggio generale medio del plusvalore deve esprimersi in una diminuzione del saggio generale del profitto... il fenomeno è derivante dalla natura stessa della produzione capitalista... l'aumento del saggio del plusvalore e la diminuzione del saggio di profitto non sono che forme particolari che costituiscono l'espressione capitalistica della crescente produttività del lavoro... la caduta tendenziale del saggio di profitto è collegata con un aumento tendenziale del saggio del plusvalore, ossia del grado di sfruttamento del lavoro... la diminuzione del saggio di profitto esprime il rapporto decrescente tra il plusvalore stesso ed il capitale complessivo anticipato, ed è quindi indipendente da qualsiasi ripartizione di questo plusvalore tra diverse categorie... in realtà la diminuzione del prezzo delle merci e l'aumento della massa del profitto contenuto nella massa più grande di queste merci diminuite di prezzo, non fanno altro che esprimere in forma diversa la legge della diminuzione del saggio di profitto che si verifica contemporaneamente all'aumento della massa del profitto" (Il Capitale, Editori Riuniti, libro III, tomo I, pag. 276).
Più avanti afferma: "È già stato dimostrato - e qui consiste il vero segreto della caduta tendenziale del saggio di profitto - che tutti i procedimenti che hanno come fine la produzione di un plusvalore relativo tendono complessivamente a ciò: da un lato a convertire in plusvalore la maggior possibile quantità di una determinata massa di lavoro, dall'altro ad impiegare in proporzione al capitale anticipato il meno possibile di lavoro; così che le medesime cause che permettono di aumentare il grado di sfruttamento di lavoro, impediscono che - impiegando lo stesso capitale complessivo - venga sfruttata la stessa quantità di lavoro di prima. Queste sono le tendenze antagonistiche che, mentre spingono verso un aumento del saggio del plusvalore, influiscono al tempo stesso nel senso della diminuzione della massa del plusvalore prodotto da un capitale determinato e quindi nel senso della diminuzione del saggio di profitto" (ibidem, pag 286). Le crisi economiche sono inevitabili in quanto sono una delle conseguenze insopprimibili di questa legge: "il più superficiale esame della concorrenza mostra inoltre che in determinate condizioni, quando il capitalista più forte vuol farsi largo nel mercato e soppiantare i più deboli, come nei periodi di crisi, si vale in pratica di questo principio, cioè diminuisce deliberatamente il suo saggio del profitto per battere i suoi concorrenti minori... questa crescente concentrazione provoca a sua volta, non appena abbia raggiunto un certo livello, una nuova diminuzione del saggio del profitto. La massa di piccoli capitali frantumati viene trascinata sulla via dell'avventura; speculazione, imbrogli creditizi e azionari, crisi... se il modo di produzione capitalistico è quindi un mezzo storico per lo sviluppo della forza produttiva materiale e la creazione di un corrispondente mercato mondiale, è al tempo stesso la contraddizione costante tra questo suo compito storico ed i rapporti di produzione sociale che gli corrispondono".
Tornano quindi di scottante attualità le sferzanti critiche di Marx agli economisti borghesi dell'epoca: "Per quanto la legge appaia semplice... l'economia non è finora riuscita a scoprirla. Essa ha constatato l'esistenza del fenomeno e si è affaticata a spiegarlo in tentativi contradditori. Data la grande importanza che questa legge ha per la produzione capitalistica, si può dire che essa costituisce il mistero a svelare il quale tutta l'economia politica si è adoperata dal tempo di Adamo Smith; a differenza tra le varie scuole da Smith in poi consiste nei diversi tentativi per giungere a tale soluzione. D'altro canto, se si considera che l'economia politica ha finora cercato a tentoni di formulare la differenza tra capitale costante e capitale variabile senza riuscirvi con precisione, che no ha fatto una distinzione tra plusvalore e profitto, né ha fatto mai un'esposizione del profitto puro distinto dai vari elementi che lo costituiscono e che sono resi reciprocamente indipendenti come profitto industriale, commerciale, interesse, rendita fondiaria; che non ha mai fatto un'analisi esauriente delle differenze nella composizione organica del capitale, e tanto meno della formazione del saggio di profitto: allora non sorprende più il fatto che essa non è mai riuscita a risolvere questo enigma" (ibidem, pag 264-265).

Lenin e l'imperialismo
Se Marx ha scoperto e spiegato nel dettaglio genesi e conseguenze della legge della caduta tendenziale del saggio di profitto, Lenin ha scoperto e spiegato come, nella sua fase più avanzata di sviluppo, un'altra legge, da essa derivante, acquisti un'importanza decisiva: "... il sorgere dei monopoli, per effetto del processo di concentrazione, è, in linea generale, legge universale e fondamentale dell'odierno stadio dello sviluppo del capitalismo... Quando i cartelli diventano una delle basi di tutta la vita economica il capitalismo si è trasformato in imperialismo. I cartelli si mettono d'accordo sulle condizioni di vendita, i termini di pagamento, ecc., si ripartiscono i mercati. Stabiliscono la quantità di merci da produrre. Fissano i prezzi. Ripartiscono i profitti tra le singole imprese, ecc... È sommamente istruttivo dare almeno uno sguardo all'elenco dei mezzi dell'odierna, moderna e civile 'lotta per l'organizzazione' a cui ricorrono i consorzi monopolistici. Essi sono:
1. Privazione delle materie prime... (uno dei più importanti metodi coercitivi per far entrare nei cartelli).
2. Privazione della manodopera mediante 'alleanze' (cioè accordi tra organizzazioni di capitalisti ed operai per cui quest'ultimi si obbligano a lavorare per imprese cartellate).
3. Privazione dei trasporti.
4. Chiusura di sbocchi.
5. Accaparramento di clienti mediante clausole di esclusività.
6. Metodico abbassamento dei prezzi allo scopo di rovinare gli 'autonomi', le aziende cioè che non si sottomettono ai monopolisti; si gettano via milioni vendendo per qualche tempo al di sotto del prezzo di costo (nell'industria della benzina si sono dati casi di riduzione da 40 a 22 marchi cioè quasi della metà).
7. Privazione del credito.
8. Boicottaggio.
Questa non è più la lotta di concorrenza tra aziende piccole e grandi, tra aziende tecnicamente arretrate ed aziende progredite, ma lo iugulamento per opera dei monopoli, di chiunque tenti di sottrarsi al monopolio, alla sua oppressione, al suo arbitrio"
. Sembra parlare ai modelli teorici dei new global quando afferma: "che i cartelli eliminino le crisi è una leggenda degli economisti borghesi, desiderosi di giustificare ad ogni costo il capitalismo. Al contrario il monopolio... accresce ed intensifica il caos, che è proprio dell'intera produzione capitalistica nella sua quasi totalità. Si accresce ancora più la sproporzione tra lo sviluppo dell'agricoltura e quello dell'industria, che è una caratteristica generale del capitalismo... Ma la nostra rappresentazione della forza reale e dell'importanza dei moderni monopoli sarebbe assai incompleta, insufficiente ed inferiore alla realtà, se non tenessimo in conto della funzione delle banche" (L'imperialismo, Editori Riuniti). Questi argomenti non sono per nulla citati sebbene sia noto come la borghesia monopolistica svizzera se ne intenda parecchio di banca e capitale finanziario, essendo la più grande base logistica ed il più sicuro porto franco dell'evasione fiscale dei grandi monopoli europei.

Origine e sviluppo della teoria della "decrescita"
Il termine decrescita fu coniato dallo statistico ed economista rumeno Nicolais Georgescu Roegen, professore alla Sorbona di Parigi, che nella sua "teoria dell'economia ecologica" afferma che come ogni altra anche la scienza economica deve fare i conti con la fisica ed in particolare con il secondo principio della termodinamica.
Visto che "al termine di qualsiasi processo la qualità energetica peggiora invariabilmente rispetto allo stato iniziale la produzione dei beni materiali fa decrescere la disponibilità energetica nel futuro. Nel processo economico non solo la qualità dell'energia peggiora ma anche la materia riduce la possibilità di essere usata in successivi processi economici. Quando le materie prime concentrate nel sottosuolo vengono disperse hanno una scarsa probabilità di venire reimpiegate nel ciclo economico e se ciò avviene si verifica in misura assai minore, materia ed energia entrano quindi nel processo economico con un livello di entropia bassa e ne escono con una più alta". Da ciò la necessità di "ripensare radicalmente la scienza economica, rendendola capace di incorporare il principio dell'entropia ed in generale i vincoli ecologici".
Queste teorie misero radici nei movimenti contro l'industrializzazione del XVIII secolo, sviluppati in Gran Bretagna da John Ruskin ed il movimento Arts and Crafts (1819-1900), negli Usa da Henry David Thoreau (1817-1862) ed in Russia da Leo Tolstoy (1828-1911).
Negli anni '60 del Novecento sono state riprese dagli scritti del Mahatma Gandhi con il concetto di "semplicità volontaria", da Ivan Illich nella sua critica al consumismo e poi da Serge Latouche, economista e professore di scienze economiche all'università di Parigi XI e all'Institute d'etudes du developpment economique et social di Parigi, che è oggi tra i principali esponenti. Secondo Latouche: "Il funzionamento del sistema economico attuale dipende da risorse non rinnovabili e... non vi è alcuna prova della possibilità di separare la crescita economica dalla crescita del suo impatto ecologico... La limitatezza delle riserve di materia prima" sarebbe "in contraddizione con il principio della crescita illimitata del Pil" (prodotto interno lordo), una bussola indiscutibile per i sostenitori della teoria dello sviluppo sostenibile. In polemica con essi Latouche sostiene che "la crescita della ricchezza materiale (beni e servizi) avviene a danno di altre forme di ricchezza, come la salute degli ecosistemi, la qualità della giustizia, le buone relazioni tra i componenti di una società, il grado di uguaglianza e così via" e che "le società attuali sono drogate da consumi materiali considerati futili, non percepiscono lo scadimento di ricchezze più essenziali come la qualità della vita, e sottovalutano le reazioni degli esclusi, come il risentimento contro gli occidentali nei paesi esclusi dallo sviluppo economico occidentale". Come i suoi predecessori Latouche si pone, in sostanza, il problema della "liberazione della società occidentale dalla sua connotazione economicista".
"È relativamente facile -
scrive - concepire energie alternative e continuare a produrre e consumare allo stesso modo. Invece se si vuole ragionare il risparmio di materia bisogna rivedere interamente la logica del sistema".
A sostegno delle sue tesi anche Vladimir Vernadisky che ritiene che la crescita del Pil comporti non solo una diminuzione dell'energia utilizzabile disponibile ma anche della complessità degli ecosistemi presenti sulla terra. Giunge ad assimilare la specie umana ad una "forza geologica entropizzante". La soluzione ai problemi del mondo consiste nella "decrescita conviviale" e nel "localismo" in contrapposizione alla "standardizzazione ed omogeneizzazione e all'imperialismo culturale" dovuti alla globalizzazione.
La teoria della decrescita si avvale di "appoggi prestigiosi" come Fidel Castro, Nelson Mandela, Joseph Ratzinger. In Italia è rilanciata da Maurizio Pallante, tra i fondatori nel 1998 del comunicato per l'uso razionale dell'energia (Cure), da Mauro Buonaiuti con il libro "Obiettivo Decrescita"; da Andrea Masullo, responsabile dell'unità clima ed energia del WWF Italia e consiglio direttivo di ISES Italia, sezione dell'International Solar Energy Society. Dal punto di vista politico sono fortemente de-crescisti il "movimento a cinque stelle" guidato da Beppe Grillo, la corrente filosofica e politica che fa capo al neopodestà di Venezia Massimo Cacciari, i comboniani come Alex Zanotelli.

La teoria della "decrescita" sparge illusioni sul capitalismo
Dopo quanto detto non occorre insistere oltre sulla incompatibilità tra il marxismo-leninismo-pensiero di Mao e la teoria della "decrescita", non fosse altro perché essa regala una giustificazione teorica ed un'altrettanto teorica via d'uscita al capitalismo, ai suoi monopoli e alle sue spaventose crisi cicliche, come quella attuale. Questa teoria trova cittadinanza in varie correnti ecologiste, revisioniste, trotzkiste, spontaneiste, movimentiste e anarchiche del movimento no-global, ed è parte integrante delle teorie della non violenza e della democrazia partecipata. Essa sparge illusioni sulle possibilità di controllo della "società civile" sull'operato degli Stati, delle imprese e sul funzionamento del mercato, auspica il dialogo e la partecipazione di economisti e teorici dell'ecologia alle istituzioni borghesi e alle organizzazioni e alleanze imperialiste appositamente riformate per accogliere tale partecipazione e per operare nell'interesse sovranazionale, globale, interclassista, dei popoli e dell'umanità nel suo complesso.
Il rilancio di questa teoria dimostra anche quanto sia caduta in basso, e indietro nel tempo, l'economia borghese moderna, la quale, come se Marx non fosse mai esistito, rispolvera dagli scantinati e si riallaccia alle tesi del socialismo utopistico dei filosofi premarxisti, alle rivendicazioni riformiste degli intellettuali e degli scienziati dell'ecologismo-interclassista del primo Novecento, fino a concedere una nuova sponda persino al conservatorismo misericordioso della Chiesa cattolica, con le sue nostalgie del medioevo feudale.
Per toglierci ogni dubbio sul destino di una simile teoria prendiamo un esempio concreto: nel Mezzogiorno d'Italia a chi giova rivendicare una "decrescita" (una riduzione del PIL, una riduzione dei consumi, una riduzione della produzione) se non a Bossi e all'egoismo della borghesia monopolistica del Nord la quale come è noto vuole scaricare le regioni "zavorra" nel Terzo Mondo e allo stesso tempo, anche a fini elettorali, tenerle per sempre incatenate alle forme di supersfruttamento derivanti dalla coesistenza, accanto a quello capitalistico, del modo e dai rapporti di produzione pre-capitalistici e semifeudali.
Per noi marxisti-leninisti, che ci battiamo per abbattere la borghesia mafiosa e risolvere la pluricentenaria Questione meridionale, è scontato che lo sviluppo non è di per sé negativo. Anzi è necessario, il problema è invece il tipo di sviluppo, capitalista o socialista, e la classe che lo gestisce, il proletariato o la borghesia.

Le battaglie per la difesa dell'ambiente
L'ecologia è la scienza che studia la dinamica degli ecosistemi viventi. Confinata fino all'inizio del secolo scorso tra le branchie specialistiche della biologia essa è andata via via allargando il suo campo d'indagine a mano a mano che si approfondivano le conoscenze degli effetti a breve, medio e lungo termine dell'industrializzazione capitalista sugli habitat naturali. Attualmente l'ecologia ha invaso decisamente il campo della politica, tanto che possiamo dire che non esiste partito istituzionale e borghese nel mondo occidentale che non inserisca tra le proprie proposte elettorali un capitolo sull'ambiente. Questa è diventata una necessità per il fatto che la contraddizione tra il modo di produzione e i rapporti di produzione sempre più spesso si manifesta anche nella "sensibilità ecologica dell'opinione pubblica". Se da un lato si tende a trasferire a pie' pari le leggi che governano la fisica e i rapporti tra le specie viventi al mondo dell'economia, come se essa non avesse leggi sue proprie, dall'altro governo e padroni hanno imparato ad utilizzare a modo loro questa contraddizione a seconda delle necessità. Spesso invocano la tutela dell'ambiente quando, ad esempio, per fare spazio a nuove speculazioni turistiche, c'è necessità di chiudere le fabbriche (vedi il caso dell'Italsider di Bagnoli), in altri casi viceversa si ergono ad eroi della lotta alla disoccupazione quando c'è una "grande opera" da realizzare (vedi la Tav in Val di Susa o il Ponte sullo Stretto di Messina).
Dal punto di vista storico il primo movimento ecologista mondiale nasce dall'ecatombe causata dalla bomba atomica, sganciata nel 1945 dall'imperialismo americano per terrorizzare il mondo e riemerge prepotentemente dopo il disastro di Cernobyl del 1986 causato dall'incuria e dall'imperizia dell'allora socialimperialismo sovietico durante la "guerra fredda" tra i due blocchi imperialisti. Attualmente l'indignazione è dovuta all'aumento dell'anidride carbonica immessa nell'atmosfera, all'innalzamento della temperatura della Terra e dei mari, all'ecatombe di specie viventi, agli sconvolgimenti climatici, alle guerre per il petrolio, alle guerre batteriologiche e chimiche, fino alla recente catastrofe nel Golfo del Messico.
Come denunciano le associazioni impegnate sul campo, oggi la devastazione ambientale in Italia va dal programma di sventramento della Val di Susa al rilancio del nucleare, dall'allargamento della base militare Usa di Vicenza Dal Molin al traffico di scorie nucleari, dalla privatizzazione delle fonti dei servizi e delle infrastrutture idriche alla truffa degli inceneritori, dalle discariche selvagge di rifiuti tossici provenienti dal Nord (vedi l'enorme Seveso Campania) alla svendita dei beni demaniali, dal disboscamento e dalla cementificazione, compresi gli argini dei fiumi, i litorali, i parchi e le riserve naturali al disastro idrogeologico. Mentre manca totalmente un'adeguata prevenzione e protezione dal rischio sismico.
Il minimo comune denominatore di questi disastri ecologici è la legge del massimo profitto abbinata alla criminale politica antiambientale dei governi in camicia nera, tanto che da poco si è scoperto che la borghesia mafiosa e massonica, grazie al governo Berlusconi, aveva messo le mani persino sulla "svolta eolica" in Sardegna e Sicilia.
Il PMLI sostiene ciascuna di queste battaglie ambientaliste, in quanto preliminarmente ne ha analizzato, caso per caso, gli scopi e ha fatto un bilancio tra aspetti contradditori.
Il movimento no-global
L'ecologia è diventata parte integrante del programma del movimento antiglobalizzazione.
Il nostro Partito ne ha definito composizione e prospettive a seguito del vertice di Porto Alegre: "è un movimento composito ed eterogeneo sia da un punto di vista di classe che sociale, politico e culturale; in esso confluiscono ambientalisti, eco pacifisti, femministe, movimenti per i diritti civili, associazioni culturali e ricreative, volontariato, anarchici, socialdemocratici, revisionisti. Una grossa componente è rappresentata dal variegato mondo dell'associazionismo cattolico. Da un punto di vista sociale, la componente principale di questo movimento sono i giovani, ma forte è anche la presenza delle donne". Tra i suoi più grandi limiti ribadiamo che è "ancora scarsa la partecipazione della classe operaia e dei lavoratori, sia per il freno costituito dai partiti della sinistra parlamentare e dai dirigenti sindacali collaborazionisti che specie nei paesi imperialisti sono ormai integrati ed omologati nel sistema se non direttamente al governo (vedi in Italia CISL e UIL) sia perché questo movimento tende in qualche modo ad ignorare ed ad escludere questa presenza" e questo si riflette anche nelle forme di lotta che sono le più varie e fantasiose ma che escludono lo sciopero che, spiega Lenin, "i 'socialisti - oggi direbbe marxisti-leninisti - chiamano una 'scuola di guerra', scuola nella quale gli operai imparano a fare la guerra contro i loro nemici, per la liberazione di tutto il popolo e di tutti i lavoratori dal giogo dei funzionari e dal giogo del capitale" (Lenin sugli scioperi - "Il Bolscevico").
Ciò nonostante il movimento antiglobalizzazione, con l'esclusione della corrente new global infiltrata, è per noi "un movimento oggettivamente anti-imperialista, anche se non lo è soggettivamente. Esso non ha questa consapevolezza e quindi non può maturare pienamente una strategia, una politica ed una pratica anti imperialista perché privo di un'ideologia, di una linea e di una direzione proletaria rivoluzionaria".
Infine rilevavamo che la battaglia per l'egemonia, tra la concezione borghese e proletaria del mondo, è ancora aperta: "data la storia e la composizione di questo movimento non si può delineare un'unica direzione in quanto ogni componente risponde ai propri teorici, ai propri rappresentanti; si può comunque dire che in generale la direzione è sostanzialmente in mano alla piccola e media borghesia, se non, in alcuni casi, ad esponenti della 'sinistra' della grande borghesia che non si riconoscono pienamente nel processo di globalizzazione in atto o comunque sono critici sugli effetti che essa produce".
Detto questo, il PMLI, battendosi contro la politica energetica della multinazionale Eni fondata sui combustibili fossili e delle altre multinazionali petrolifere, e contro tutti i governi che ne difendono gli interessi, compreso quello di Obama, è ovviamente d'accordo sulla necessità di condurre fin da subito battaglie concrete per la "reinvenzione dell'accesso alle fonti energetiche, incentivando l'autosussistenza energetica, nazionale e locale attraverso fonti rinnovabili", per "lottare contro l'uso non parsimonioso del territorio, per l'estensione dei servizi pubblici e la partecipazione attiva delle comunità degli abitanti". In questo senso si è opposto alla privatizzazione dell'Enel realizzata dal governo del rinnegato Massimo D'Alema e rivendica la nazionalizzazione di Eni e gruppo Fiat allo scopo di riconvertirne la produzione in energia e trasporti puliti. Altrettanto dicasi per le battaglie antirazziste che discendono - come dice il documento del PC del Canton Ticino - "dall'inevitabilità dei flussi migratori come elemento non estinguibile della mobilità sociale planetaria".
Ovviamente ciò nella consapevolezza che nessuna riforma potrà cambiare il capitalismo né fermare il processo di distruzione del mondo, esso può essere salvato solo con le rivoluzioni proletarie e le guerre di liberazione nazionale, a seguito delle quali è possibile instaurare nuovi rapporti tra l'economia, la politica energetica e la difesa dell'ambiente.
Su questi temi invitiamo i teorici della "decrescita" ad aprire un confronto con noi, partendo, ad esempio, dalla politica economica e demografica socialista portata avanti dalla Repubblica popolare cinese finché fu in vita Mao, in particolare in riferimento ai provvedimenti per assicurare la socializzazione dei mezzi di produzione, risolvere la contraddizione tra città e campagna, tra industria e agricoltura, tra industria leggera e industria pesante, tra produzione, bisogni e consumi.

3 novembre 2010