Documento del Comitato centrale del PMLI
Viva la Grande Rivolta del Sessantotto
In celebrazione del XX Anniversario del più grande avvenimento della storia della lotta di classe del dopoguerra in Italia
 
Il Sessantotto è una preziosa fonte di insegnamenti rivoluzionari

Cos'è stato il Sessantotto, quali erano i suoi contenuti e i suoi obiettivi, chi vi ha partecipato, che ruolo hanno avuto il PCI revisionista e i sedicenti rivoluzionari, quali insegnamenti trarne per l'attuale lotta di classe e per la costruzione del PMLI. A tutto questo, e agli altri quesiti connessi, risponde molto bene, dal punto di vista di classe e marxista-leninista, il Documento del Comitato centrale del PMLI datato 14 dicembre 1988, che qui di seguito ripubblichiamo.
Chi tra i fondatori del PMLI ha vissuto quei giorni e quegli anni rivoluzionari indimenticabili avrà modo di riviverli e di riconsiderarli attraverso la maturità e l'esperienza rivoluzionarie e marxiste-leniniste acquisite in questi 40 anni di dura e formativa militanza marxista-leninista.
Le compagne e i compagni che non li hanno vissuti perché ancora non erano nati o erano troppo giovani vi troveranno molti elementi di riflessione politica, assai utili per l'attuale lavoro politico e di massa.
I sinceri fautori del socialismo, ancora sotto l'influenza di PRC, PdCI e altri gruppi sedicenti comunisti, potranno comprendere il ruolo controrivoluzionario che hanno avuto i falsi comunisti e i falsi rivoluzionari.
Dal Documento emerge chiaramente che il Sessantotto è una preziosa fonte di insegnamenti rivoluzionari per i marxisti-leninisti e per tutti gli anticapitalisti che vogliono il socialismo.
Il compagno Emanuele Sala, che ha partecipato attivamente come operaio al Sessantotto, nel suo editoriale che apre questo numero speciale de "Il Bolscevico" indica quali insegnamenti ne ha tratto il PMLI. Noi qui ricordiamo i quattro insegnamenti della lotta di classe che il compagno Giovanni Scuderi, Segretario generale del PMLI, ha così sintetizzato nel Rapporto dell'Ufficio politico al 3° Congresso nazionale del PMLI:
"1 - È possibile sottrarre le masse al controllo del palazzo e dei revisionisti e mobilitarle purché si mettano al centro della lotta le loro rivendicazioni immediate e vive e si sappia cogliere il momento favorevole in cui il loro stato d'animo è teso verso il combattimento e l'azione.
2 - I movimenti di massa non durano a lungo, non avanzano e non riescono a raggiungere i loro obiettivi se non sono guidati da un'avanguardia decisa, preparata e coerente.
3 - Da parte del PMLI non è possibile conquistare la testa dei movimenti di massa se i compagni che operano in essi non sono padroni della linea di massa generale e specifica del settore e non sanno applicarla. E anche quando deteniamo la direzione dei movimenti di massa questi o non decollano o si arenano o rifluiscono a causa dello stesso motivo.
4 - Il coinvolgimento degli elementi più attivi dei movimenti di massa nel lavoro di direzione, organizzazione e mobilitazione delle masse è per noi essenziale per unire la sinistra e tramite essa trascinare il resto del movimento".
Il Sessantotto è stato un attacco frontale al sistema capitalistico e il primo attacco di massa al revisionismo moderno.
Ancora adesso la borghesia lo vede come uno spettro. Il liberale e neonazionalista Veltroni, presentando il programma all'Assemblea costituente del PD, nel tentativo di esorcizzarlo ha detto: "Fatemi dire, a quarant'anni dal '68, che chi allora proponeva il 'sei politico' produceva un falso egualitarismo". Per lui invece va bene solo "il talento e il merito".
L'anticapitalismo e l'antirevisionismo del Sessantotto sono inconfutabili e incancellabili. Se esso non ha potuto raggiungere tutti gli obiettivi è solo perché a dirigere le masse in lotta c'erano degli imbroglioni politici, revisionisti mascherati, trotzkisti, operaisti, "ultrasinistri".
Imbroglioni, vedere l'elenco che pubblichiamo in questo giornale, che oggi ritroviamo nelle istituzioni, in partiti parlamentari della destra e della "sinistra" borghese, nei vertici dei media e persino nei governi. Ciò non deve meravigliare perché la borghesia infiltra sempre dei suoi agenti nei movimenti di massa e nei partiti rivoluzionari nel tentativo di farli fallire. Bisogna quindi essere sempre vigilanti e pronti a smascherarli e impedirgli di prendere la direzione. Ma questo non è possibile se non siamo risoluti a farlo e se non abbiamo la cultura adeguata allo scontro ideologico e politico. Cultura che ci può dare solo il marxismo-leninismo-pensiero di Mao, che tra l'altro ci educa alla lotta tra le due linee all'interno del Partito.
Noi marxisti-leninisti abbiamo capito tutto questo dalla grande esperienza della lotta di classe in Italia e nel mondo, e da quella che abbiamo vissuto direttamente e personalmente nel Sessantotto. L'auspicio è che tutti i fautori del socialismo, non membri e non simpatizzanti del PMLI, lo capiscano, si liberino dall'influenza degli imbroglioni politici e si uniscano a noi nella guerra contro il capitale e per l'Italia unita, rossa e socialsita. Il 5° Congresso nazionale del PMLI, che celebreremo entro quest'anno, potrebbe essere l'occasione giusta.
Il Sessantotto, con quelle caratteristiche, contenuti, finalità particolarità è irripetibile. Ma altre grandi rivolte sociali, di minore o maggiore intensità, possono scoppiare in qualsiasi momento, fino ad arrivare alla rivoluzione socialista. Noi marxisti-leninisti lavoriamo per questo, ma vorremmo arrivarci con un grande, forte e radicato PMLI per prenderne la testa e condurle alla vittoria.
Ci arriveremo se continueremo a dare tutto noi stessi alla lotta politica contro la classe dominante borghese, i suoi governi, le sue istituzioni, il suo sistema economico e il suo regime; alla lotta per il ritiro dell'Italia dall'Afghanistan, dal Libano, dall'Iraq e dai Balcani; alla lotta sindacale per migliorare le condizioni di vita e di lavoro delle masse, per il rinnovo dei contratti, per l'aumento dei salari e delle pensioni, per l'abolizione del precariato e della disoccupazione; alla lotta per lo sviluppo del Mezzogiorno; alla lotta per difendere il diritto di aborto e la legge 194, alla lotta contro le discariche e gli inceneritori, alla lotta per l'acqua pubblica, alla lotta No Tav, No Dal Molin, No Ponte, No F35, alle altre lotte in corso, tra cui quella per le coppie di fatto indipendentemente dall'orientamento sessuale.
Nella battaglia elettorale astensionista dobbiamo produrre il massimo sforzo sulla base delle seguenti parole d'ordine: Battere la destra e la "sinistra" del regime capitalista, neofascista, presidenzialista, federalista e interventista. Lottare contro i piani di Berlusconi e Veltroni della terza repubblica. Per l'Italia unita, rossa e socialista. Astieniti (diserta le urne, annulla la scheda o lasciala in bianco). Creare le istituzioni rappresentantive delle masse fautrici del socialismo.
È dura la vita da marxisti-leninisti, ma non c'è una vita più bella, più proficua e più gratificante di chi come noi serve con tutto il cuore le masse e lotta per la nobile causa del proletariato e del socialismo. È quanto hanno fatto i gloriosi Sessantottini rimasti fedeli a quegli ideali.

20 febbraio 2008


Sono passati venti anni dalla Grande Rivolta del Sessantotto, ma il suo ricordo è ancora vivo, nitido e fresco nella mente, nel cuore e nell'azione dei marxisti-leninisti italiani.
Ne abbiamo parlato al 3° Congresso nazionale del PMLI, è necessario però riprenderne il discorso dopo che le "celebrazioni" dei partiti della sinistra parlamentare, dei "leader" pentiti e dei mass media hanno fatto di tutto per cancellarne la vera immagine, il significato fondamentale e il valore storico. E lo facciamo nel giorno in cui, il 14 dicembre, diciannove anni fa gettammo le basi ideologiche, politiche e organizzative del Partito. Ciò costituisce la migliore testimonianza che il Sessantotto non è passato invano. Ha generato il Partito che ne perpetuerà la memoria e che realizzerà nel tempo tutti i suoi grandi ideali.
Le nuove generazioni devono sapere quello che è stato effettivamente il Sessantotto. Le masse studentesche, operaie e popolari protagoniste di quello straordinario avvenimento storico devono recuperarne la memoria, lo spirito, la combattività e gli obiettivi. I vecchi e nuovi combattenti per il socialismo devono imparare da quella grande esperienza per rinverdirne le gesta, non ripeterne gli errori e ricavarne nuova forza e nuova ispirazione per proseguire nella lotta incessante contro la classe dominante borghese e i suoi lacché. Nel momento in cui l'omologazione ha investito in maniera irreversibile i partiti della sinistra parlamentare e il processo di deideologizzazione, decomunistizzazione e socialdemocratizzazione tarpa le ali alle masse, è quanto mai necessario ripensare il Sessantotto per liberarsi da ogni condizionamento e influenza borghese, revisionista e riformista e volare alto come allora, quando l'ordinamento capitalistico era assediato e vacillava sotto gli assalti delle masse.
Da quando esiste la proprietà privata, la storia è storia di lotte di classe. Di conseguenza ogni classe dà la sua interpretazione di classe degli avvenimenti quotidiani e storici. Mao rileva: "Lotta di classe - alcune classi trionfano, altre vengono eliminate. Questa è la storia, questa è da millenni la storia delle civiltà. Interpretare la storia da questo punto di vista è ciò che si chiama materialismo storico; mettersi in contrapposizione a questo punto di vista è ciò che si chiama idealismo storico"1.
Il Sessantotto va interpretato in questa chiave, altrimenti non se ne capisce il senso, e non si riesce a trarne degli insegnamenti utili alla lotta di classe e si dà via libera alle mistificazioni e alle falsificazioni storiche della borghesia, dei revisionisti e dei riformisti. Il Sessantotto rientra nella categoria della storia della lotta di classe in Italia. Ovviamente si tratta di storia passata, che tuttavia parla ancora al presente. Una storia irripetibile che non può più tornare a riprodursi nelle stesse forme, poiché ogni lotta nasce, si sviluppa e si esaurisce in base alle condizioni, alle circostanze, al luogo e al tempo specifici e ben determinati. Ma il suo spirito è eterno e la sua luce illuminerà il cammino dei marxisti-leninisti e dei combattenti per il socialismo di oggi e del Duemila.

I. Il carattere rivoluzionario del Sessantotto
Naturalmente oggi, a distanza di venti anni, una volta passata la paura, la classe dominante borghese con la sua corte di politicanti, pennivendoli e pentiti non ha alcun interesse a ricordare quello che è stato veramente il Sessantotto. Anzi ha bisogno di esorcizzarlo, perché lo spettro del Sessantotto non ritorni a turbare i suoi sogni beati e gaudenti e non venga inserito nella storia come un grande conflitto tra il proletariato e la borghesia.
All'epoca si strillava di rivoluzione alle porte, oggi si cerca di ridimensionarne la portata, di declassare gli avvenimenti, di ridurli a una semplice "rivolta giovanile contro i padri", se non addirittura a "un gigantesco processo di modernizzazione", come si sono sforzati di dimostrare i settimanali più diffusi e autorevoli "Panorama" e "L'espresso".
Secondo Bettino Craxi invece il Sessantotto costituisce "una grande confusione che fu scambiata per rivoluzione"2. Al neoduce fa eco il suo giullare, il sessantottino pentito Adriano Sofri, con la risibile battuta: "Il Sessantotto fu una magnifica corsa nei sacchi... una storia di generazione e di amicizia"3.
Mentre per l'altro ultrapentito Mario Capanna, pagato profumatamente da uno dei suoi bersagli di allora, Rizzoli, il Sessantotto non è stato altro che "una lotta per l'eguaglianza e la democrazia"4, in sostanza una lotta pacifica democratica borghese.
Più serio, ma non per questo meno mistificante, è il giudizio di coloro, fra cui spicca Giovanni Spadolini, che fanno risalire al Sessantotto l'origine del terrorismo. Costoro non vogliono capire che il terrorismo è uno strumento della reazione e dei golpisti usato proprio per spezzare le gambe al Sessantotto, per disgregare e disperdere i grandi movimenti di massa studenteschi e operai che erano ancora in piedi e vigorosi quando nel settembre 1970 viene compiuta la prima azione terroristica delle cosiddette "Brigate rosse" attraverso l'incendio dell'auto di un dirigente della Sit-Siemens di Milano.
Vi è infine chi punta al discredito e al disprezzo più radicale del Sessantotto, quasi avesse un conto personale da saldare. È il caso del vicepresidente del Consiglio, il socialista gaudente Gianni De Michelis, il quale ha dichiarato che "il '68 non è per niente l'alba di una nuova era. Rappresenta, al contrario, gli ultimi bagliori dell'Ottocento. Il crepuscolo dell'utopia"5.
In realtà, in base ai fatti, alla durata e alle asprezze degli scontri di classe, alla vastità delle forze sociali coinvolte, e agli sconvolgimenti sociali e politici causati, il Sessantotto costituisce il più grande avvenimento della storia della lotta di classe del dopoguerra in Italia.
In precedenza vi erano stati la grande spinta insurrezionale del '48 e i moti di piazza del luglio '60 contro il governo clerico-fascista Tambroni, ma mai la lotta di classe, dopo la vittoriosa Resistenza, aveva raggiunto l'intensità, l'ampiezza e la profondità del Sessantotto, mai soprattutto a livello di massa e come obiettivo generale della lotta di massa era stata posta la questione del potere politico e del socialismo.
Il Sessantotto non è una fiammata di un giorno o di un mese ma una Grande Rivolta studentesca, operaia e popolare che sprigiona la sua massima forza nel quadriennio di fuoco che va dal '67 al '70, e i cui ultimi bagliori arrivano fino al '74-'75. Il Sessantotto è perciò un anno simbolo, una data periodicizzante che segna un'intera epoca storica.
Nel Sessantotto vengono al pettine antichi e nuovi nodi sociali e politici, e perciò esplodono con una violenza inaudita le contraddizioni tra il proletariato e la borghesia, tra il capitale e il lavoro, anche se la scintilla parte dal movimento studentesco ed è questo a sostenere l'urto maggiore dello scontro di classe.
Tutto viene messo in discussione, anche il potere politico. Non a tavolino, nel parlamento, ma nelle piazze. La durezza dello scontro e la posta in gioco si possono ricavare dal fatto che "gli industriali si preparavano a squagliarsela se le cose si fossero messe male"6, come ha testimoniato di recente Federico Umberto D'Amato, allora responsabile della Divisione affari riservati del Viminale.
In effetti la classe dominante borghese era seriamente preoccupata degli sviluppi della lotta delle masse, avvertiva di trovarsi di fronte ad avvenimenti inediti che non riusciva più a controllare e a ricondurre nel sistema.
Se ne fa interprete Aldo Moro, già presidente del Consiglio nel governo di "centro-sinistra" fino al giugno 1968, che cerca di trovare una via di uscita indolore che riesca a soddisfare le richieste dei giovani senza pregiudicare il potere della borghesia. Intervenendo al Consiglio nazionale DC nel novembre di quell'anno, così afferma: "Tempi nuovi si annunciano e avanzano in fretta come non mai. Il vorticoso succedersi delle rivendicazioni, zone d'ombra, condizioni di insufficiente dignità e d'insufficiente potere non siano oltre tollerabili, l'ampliarsi del quadro delle attese e delle speranze dell'intera umanità, la visione del diritto degli altri, anche dei più lontani, da tutelare non meno del proprio, il fatto che i giovani, sentendosi a un punto nodale della storia non si riconoscono nella società in cui sono e la mettono in crisi, sono tutti segni di grandi cambiamenti e del travaglio doloroso da cui nasce una nuova società".
La via di uscita favorevole alla borghesia verrà poi trovata con l'aiuto dei socialisti e successivamente del PCI attraverso la "solidarietà nazionale" che taglia netto col Sessantotto e dà via libera alla restaurazione.
Il Sessantotto ha un carattere chiaramente rivoluzionario, antimperialista, anticapitalista, antifascista, antistituzionale e antirevisionista, sia pure con delle differenziazioni, delle particolarità e delle tonalità diverse tra movimento studentesco e movimenti operaio e popolare. Lo provano le azioni, le manifestazioni, le lotte, le rivendicazioni e i documenti prodotti a quell'epoca soprattutto dal movimento studentesco. In particolare quegli anni sono segnati da centinaia e centinaia di manifestazioni in tutte le parti d'Italia contro l'imperialismo americano e per il Vietnam del Sud, che cessano solo quando il popolo di quel martoriato Paese conquista la liberazione nazionale con la forza delle armi.
Il Sessantotto è dunque carico di marcati caratteri politici proletari, rivoluzionari e internazionalistici, alcuni operanti anche in precedenti movimenti di lotta di massa, altri che si ripresentano in forme nuove e più avanzate, qualcuno del tutto inedito e con una forza dirompente. È il caso dell'antirevisionismo, che è un elemento fortemente caratterizzante e peculiare di quella grande stagione di lotta.
Il Sessantotto infatti rappresenta storicamente la prima grande ribellione di massa contro il revisionismo moderno, indipendentemente dai suoi limiti soggettivi e oggettivi. Nella pratica le masse, specie studentesche e giovanili, si rendono conto, trovandoseli contro nelle università, nelle scuole, nei luoghi di lavoro e nelle piazze, che i revisionisti che dirigevano il PCI negavano il marxismo-leninismo, la lotta di classe, la rivoluzione e il socialismo. Compromessi fino al collo con le istituzioni, l'ordinamento scolastico e universitario e l'intero sistema capitalistico, aspirando unicamente ad avere un posto nel governo borghese, imbolsiti dal pacifismo, dal legalitarismo e dal parlamentarismo, avevano perso ogni stimolo rivoluzionario ed erano ormai incapaci non solo di dirigere ma anche di partecipare alla lotta di massa anticapitalistica. Ed è proprio per colpa soprattutto dei revisionisti che il Sessantotto non potette arrivare fino all'insurrezione, e il proletariato fu così privato di un'altra occasione d'oro per impadronirsi del potere politico.

II. Le cause interne ed esterne del Sessantotto
La Grande Rivolta del Sessantotto non nasce dal nulla, né tantomeno dall'impazienza e dall'irruenza giovanili, ma dalle gravi condizioni economiche e sociali esistenti nel Paese. In una congiuntura internazionale rivoluzionaria che alimenta le fiamme della rivolta.
L'Italia era appena uscita dalla devastante crisi economica del '63-'65, che aveva ulteriormente aggravato gli squilibri tra Nord e Sud, tra industria e agricoltura, tra città e campagna. Centinaia di migliaia di lavoratori che erano stati sradicati dalle campagne e dal Sud e ammassati nel "triangolo industriale" nel periodo del cosiddetto "boom economico", aggiungevano alla sofferenza della mancanza di alloggi, dell'assistenza socio-sanitaria e di servizi sociali e pubblici, quella della disoccupazione.
A causa della ristrutturazione delle fabbriche, tra il '63-'68 gli operai dell'industria diminuiscono del 4 per cento. Ne fanno le spese i lavoratori più anziani e i più giovani e, in misura ancora maggiore, le donne. La disoccupazione e la sottoccupazione investe pesantemente pure i diplomati e i laureati. Ciò causa una forte ribellione fra gli studenti.
Nel frattempo la produzione industriale aumenta di quasi il 50 per cento, facendo compiere un'impennata alla produttività oraria che spremeva fino all'osso gli operai.
A ciò va aggiunto una vita infernale in fabbrica - ritmi di lavoro massacranti, bassi salari, orario di lavoro da 48 a 44 ore, obbligo degli straordinari, grossa disparità salariale e normativa tra operai, impiegati e tecnici, salari inferiori alle donne e ai giovani, condizioni igienico-sanitarie da bestie, clima e disciplina da caserma -, nonché pensioni irrisorie e affitti alle stelle, senza parlare della precarietà dell'assistenza sanitaria e previdenziale.
Tutto questo faceva montare la collera operaia e dei lavoratori e rendeva esplosiva la contraddizione tra la produzione sociale e l'appropriazione capitalistica.
Tale situazione non sfuggiva agli studenti universitari, i quali a loro volta non vedevano un chiaro avvenire occupazionale e mal tolleravano di studiare in Università in cui ancora regnavano metodi e mentalità feudali e fascisti.
I contenuti dell'insegnamento, la didattica, le autorità accademiche soffocavano e opprimevano le masse studentesche, che invece volevano libertà, democrazia, rapporti paritari con i docenti, propri spazi e voce in capitolo sull'ordinamento universitario.
Tutto appariva loro vecchio, superato e antidemocratico. Bisognava quindi aprire le porte e le finestre dell'Università per far entrare aria nuova e fresca in modo da cambiare radicalmente ogni aspetto dell'istruzione e della vita universitarie.
Il Sessantotto non fu solo italiano. Investì in particolare tutto l'Occidente, compresi gli Usa, e il Giappone, ma si sviluppò anche nelle altre parti del mondo. Le rivolte giovanili e popolari si influenzavano reciprocamente. Solo però in Italia e in Francia coinvolsero largamente la classe operaia e le masse popolari.
Pure nell'Est europeo vi furono delle rivolte, che tuttavia non possono essere assimilate a quelle occidentali. Erano dirette contro il dominio dei revisionisti o contro l'aggressore socialimperialista, come accadde in Cecoslovacchia.
Tutto il mondo era in fiamme. La rivoluzione e le guerre di liberazione nazionale avanzavano dappertutto nei cinque continenti. I popoli oppressi non seguivano le indicazioni pacifiste, riformiste e collaborazioniste dei revisionisti ma quelle proletarie, rivoluzionarie e antimperialiste dei marxisti-leninisti.
Il pensiero e l'opera di Mao, la Grande rivoluzione culturale proletaria in Cina e la titanica lotta dei marxisti-leninisti di tutto il mondo contro il revisionismo moderno, esercitavano un'influenza assai benefica sulla rivoluzione mondiale e sul Sessantotto. Sembrava di essere tornati, per molti aspetti, all'epoca di Lenin e della Grande rivoluzione d'Ottobre.
La Grande Rivolta del Sessantotto godeva del pieno e incondizionato appoggio di Mao. Mentre la "Pravda" dell'ultrarevisionista e socialimperialista Breznev definiva gli studenti in rivolta dei "lupi mannari", il "Quotidiano del popolo" del grande maestro del proletariato internazionale Mao li esaltava con queste parole: "In questa tempesta, i vari strati popolari dell'Europa e del Nord America hanno formulato esigenze concrete e parole d'ordine di lotta. La spinta generale della rivolta è nettamente diretta contro il dominio criminale della borghesia monopolistica e contro il sistema capitalistico nel suo insieme. Questa è la prova che la lotta delle masse europee e Nord americane ha raggiunto un nuovo livello. In questa tempesta, i giovani studenti svolgono un ruolo di pionieri legandosi ogni giorno di più al movimento operaio".
Molte affermazioni di Mao diventano delle vere e proprie parole d'ordine del movimento studentesco italiano. Ne ricordiamo le principali: "È giusto ribellarsi contro i reazionari", "Il potere politico nasce dalla canna del fucile", "Osare pensare, osare parlare, osare agire", "L'imperialismo è una tigre di carta", "Se si vuol fare la rivoluzione, ci deve essere un partito rivoluzionario", "Le donne sono la metà del cielo".
Le Guardie Rosse, cioè le studentesse e gli studenti cinesi che avevano fatto scoccare la scintilla della Rivoluzione culturale e che si battevano in prima fila contro i revisionisti e per difendere il socialismo, divennero il simbolo e il modello dei giovani rivoluzionari italiani.
Il movimento studentesco di Milano nel suo complesso e non solo a livello di avanguardia, conquistato dal pensiero e dall'opera di Mao, arriva persino ad assumere il marxismo-leninismo-pensiero di Mao come sua teoria ufficiale.
Nelle proposte di tesi politiche del 25 marzo 1970 si legge: "Il movimento studentesco guidato dal marxismo-leninismo-pensiero di Mao è parte integrante delle masse popolari... Non è il movimento studentesco che influenza le masse popolari, è il pensiero di Mao che per la particolare storia del nostro paese è penetrato nel movimento studentesco e attraverso le iniziative politiche del movimento studentesco influenza le masse popolari"7. Si tratta indubbiamente di un avvenimento che non ha precedenti nella storia dei movimenti di massa italiani. Mai infatti fino ad allora un grande movimento di massa si era proposto di conformare al marxismo-leninismo-pensiero di Mao il proprio pensiero, la propria vita e la propria azione politica.
Questa scelta politica - impensabile in altre situazioni e al di fuori del contesto rivoluzionario del Sessantotto - significava non solo ripudiare l'ideologia e la cultura borghesi e tutte le loro varianti comunque camuffate, incluse quelle più progressiste, ma anche di proporsi di lottare affinché il marxismo-leninismo-pensiero di Mao diventasse la nuova cultura delle masse, in alternativa e in contrapposizione alla cultura dominante.
Non si ricercava quindi una nuova "sintesi culturale", una "integrazione fra culture diverse", espresse dalle varie componenti del Sessantotto, ma si trattava di far chiarezza in campo ideologico, di separare nettamente ciò che è proletario, rivoluzionario e progressista da ciò che è borghese, antirivoluzionario e reazionario, di far trionfare insomma nelle masse rivoluzionarie il marxismo-leninismo-pensiero di Mao come l'unica e vera cultura dell'emancipazione e del socialismo.
Questi propositi poi non sono stati mantenuti per il tradimento di Mario Capanna, Luca Cafiero e altri che per un posto nella mangiatoia borghese e nel parlamento hanno venduto l'anima rivoluzionaria e rinnegato il Sessantotto. Ma questo è un altro discorso.
Tuttavia va detto che l'opportunismo dei molti che si professavano marxisti-leninisti e l'interpretazione e la mediazione in chiave anarchica e spontaneistica del pensiero e dell'opera di Mao da parte degli operaisti o dei trotzkisti alla Luigi Pintor e Rossana Rossanda non hanno consentito che essi fossero conosciuti correttamente dalle masse in rivolta, e ciò ha impedito che la linea proletaria rivoluzionaria di Mao avesse un impatto maggiore e più duraturo rispetto a quanto è accaduto nella realtà.
Purtroppo i primi pionieri del PMLI hanno potuto fare ben poco di fronte a tale scempio del pensiero e dell'opera di Mao perché non avevano alcun potere nelle istanze centrali del PCd'I (m-l) in cui militavano, e la situazione ormai era troppo compromessa quando, alla fine del '69, ruppero con quel partito che aveva lasciato campo libero agli opportunisti e agli imbroglioni politici di ogni risma pur avendo i mezzi, l'autorità e la forza numerica per smascherarli e sconfiggerli.
Questo perché, come dimostreranno i fatti successivi e la realtà odierna, il gruppo dirigente di quel partito lavorava sotto sotto per il partito revisionista italiano e per Breznev, nonostante alzasse la bandiera di Mao. Non potremo mai scordare che i rinnegati, opportunisti, doppiogiochisti e agenti del revisionismo e della reazione Fosco e Manlio Dinucci, Osvaldo Pesce, Angiolo Gracci, Walter Peruzzi, oltreché Aldo Brandirali, Luca Meldolesi, Federico e Nicoletta Stame, Filippo Coccia, Mario Regis e tanti altri hanno bruciato una situazione d'oro in cui i marxisti-leninisti si contavano a decine di migliaia, il marxismo-leninismo-pensiero di Mao godeva larghi consensi a livello di massa e il socialismo era all'ordine del giorno della lotta delle masse.

III. Le masse studentesche irrompono nell'arena politica
Il Sessantotto segna l'irrompere delle masse studentesche nell'arena politica su posizioni di sinistra, rivoluzionarie. Per la prima volta dal dopoguerra, a livello di massa, gli studenti si rivoltano contro la scuola borghese, il governo e l'intero ordinamento capitalistico. Nel luglio '60 solo delle avanguardie studentesche si erano battute in piazza contro Tambroni. Ora scendono in lotta la stragrande maggioranza degli studenti attivi.
In precedenza il movimento studentesco era un serbatoio, una riserva della reazione e dei fascisti. La nuova esaltante situazione è il riflesso dell'ingresso nell'Università e nelle scuole medie-superiori dei figli delle masse popolari, e ancor più delle contraddizioni interne nel Paese e dell'avanzata del socialismo e della rivoluzione nel mondo.
Come mai era accaduto nel passato, un'intera generazione di giovani diventa soggetto politico, attore e protagonista del più grande sconvolgimento sociale dell'Italia repubblicana.
La piazza e la rivolta non sono più prerogative dei soli uomini. Le studentesse, rompendo il secolare cordone ombelicale con la famiglia e con ogni idea, pregiudizio e subalternità antifemminile, prendono in pugno il loro destino e si affiancano ai ragazzi nella lotta conquistando nella pratica la parità dei sessi, ancor prima di vederla tradotta, sia pure in parte, nelle leggi dello Stato.
La partecipazione in massa delle ragazze alla lotta di classe sferra una spallata decisiva ai vecchi e retrogradi rapporti familiari, di coppia e interpersonali, ai tabù sessuali e all'immagine feudale e borghese della donna madonna, madre, sposa, vergine e casalinga, e avvia un grande movimento di lotta per la soppressione di ogni forma di subalternità della donna nella scuola, nel lavoro, nella società, nella famiglia e nella politica.
Il Sessantotto dimostra nella pratica che l'uomo e la donna sono uguali anche sul piano della lotta, che ciò che può far l'uno lo può fare l'altra e che, a parte le distinzioni fisiologiche, le uniche differenze che intercorrono tra i sessi sono quelle politiche e di classe, differenze che passano però trasversalmente tra le masse femminili e quelle maschili.
Il femminismo solo in un secondo tempo - per l'accondiscendere del PCI e per i gravi errori degli "ultrasinistri" - riuscirà a corrompere la coscienza della maggioranza di queste nuove e fresche energie rivoluzionarie facendole deviare verso lidi - il separatismo e la "differenza sessuale" - che allontanano le masse delle donne dalla via classica e comprovata dell'emancipazione femminile, la cui sostanza consiste nella realizzazione della più assoluta eguaglianza economica, sociale, politica, giuridica, morale e culturale tra i due sessi, nelle piccole come nelle grandi cose, nella vita privata come nella vita pubblica.
Dalle prime occupazioni universitarie all'inizio del '67 alle grandi mobilitazioni di massa dell'aprile del '75 - sia pure attraverso un alternarsi di momenti di riorganizzazione e di rallentamento e di rilancio e accelerazione - è tutto un susseguirsi di agitazioni, lotte di piazza, manifestazioni, occupazioni, assemblee e convegni studenteschi. Basta dare un'occhiata alla cronologia degli avvenimenti di quel periodo per rendersi conto della cadenza, del coinvolgimento, della vastità, della territorialità e dell'importanza politica delle lotte delle masse studentesche.
Queste lotte raggiungono l'apice nel '68, ma già nel '67 si registrano degli avvenimenti storici. A cominciare dalla grande manifestazione nazionale degli studenti contro l'imperialismo Usa e per la libertà del Sud-Vietnam, svoltasi a Firenze il 23 aprile di quell'anno, che vede la partecipazione in prima fila di alcuni primi pionieri del Partito, i compagni Giovanni Scuderi, Mino Pasca e Nerina Paoletti (alias Lucia).
Il '67 è l'anno centrale della lotta dei rivoluzionari contro le cosiddette organizzazioni rappresentative studentesche che costituivano un ostacolo allo sviluppo e alla crescita politica del movimento studentesco. L'anno successivo, vengono così liquidate una dopo l'altra l'Ugi (Unione goliardica italiana), che raggruppava anche gli studenti iscritti al PCI, al PSI e al PSIUP, l'Unuri (Unione nazionale universitaria rappresentativa italiana) e l'Intesa, costituita dagli universitari cattolici e dai gruppi giovanili DC.
Queste organizzazioni vengono attaccate e spazzate via per il loro distacco dalla base, il verticismo, il parlamentarismo, il riformismo, il collaborazionismo e l'acquiescenza verso il governo e le autorità accademiche. Si tratta di una lotta molto importante perché segna la sconfitta politica, oltre che organizzativa, dei vertici revisionisti e riformisti del PCI, del PSI e in parte del PSIUP, così come della DC e dell'insieme dei partiti governativi e parlamentari, ma anche personalmente di Achille Occhetto (PCI), Claudio Petruccioli (PCI), Valdo Spini (PSI), Luigi Covatta (allora DC) e Nuccio Fava (DC), colui che ha realizzato in anteprima il "compromesso storico" tra DC e PCI nell'Unuri.
Le masse studentesche, liberandosi delle organizzazioni che cercavano di integrarle nel sistema capitalistico, passano all'opposizione del governo di "centro-sinistra" - verificando nella pratica che l'ingresso del PSI nel governo serviva unicamente per coprire a sinistra la DC -, bocciano il progetto dell'alleanza governativa tra DC e PCI e si assumono direttamente e collettivamente tutto il peso politico e organizzativo delle loro lotte. Si apre quindi una fase del tutto nuova ed estremamente avanzata, tutta da definire e costruire, nella storia del movimento studentesco italiano.
Le Università occupate diventano dei centri di elaborazione, e non solo di organizzazione e di lotta. Le maggiori centrali sono costituite dalle Università di Milano (la Statale), Pisa, Torino, Trento, Napoli, Roma e Venezia.
In un breve arco di tempo, fin dal '67, l'assemblea generale degli studenti di ogni Università in lotta approva i suoi documenti programmatici, che poi metterà a confronto, attraverso i suoi delegati, nei convegni studenteschi interregionali e nazionali. Si ricerca una linea nazionale unitaria, ma non sempre ciò accade perché manca una forza egemone.
Fra i vari documenti vi erano ovviamente delle differenziazioni in riferimento alle specifiche realtà ed esperienze, al grado di coscienza politica e all'orientamento ideologico e politico che riusciva a prevalere. Tuttavia il movimento studentesco nel suo complesso aveva compreso quattro cose molto importanti, anche se non riuscirà a realizzarle interamente nella pratica a causa della mancanza di una direzione proletaria rivoluzionaria, dell'influenza degli "ultrasinistri" e dell'inesperienza.
La prima cosa è che la "controparte" degli studenti è la classe dominante borghese e il suo governo. La seconda è che la lotta degli studenti è parte integrante della lotta di classe contro il sistema capitalistico. La terza è che il sistema scolastico e universitario va cambiato radicalmente. La quarta è che per portare al successo la propria lotta e la lotta di classe più in generale occorre ricercare l'unità con tutte le forze sociali e politiche anticapitalistiche.
Un punto in comune di tutte le piattaforme studentesche era la lotta contro il disegno di legge 2314 di Gui (DC) e Codignola (PSI), la controriforma universitaria governativa che fu affossata proprio dal movimento studentesco. Essa fra l'altro prevedeva l'istituzione di tre livelli di titoli universitari (diploma, laurea, dottorato di ricerca), il "numero chiuso" alle iscrizioni universitarie e alle frequenze ai corsi e la limitazione dell'accesso all'Università degli studenti tecnici e professionali.
La punta di lancia delle lotte studentesche era diretta anche contro l'"autoritarismo accademico", i metodi didattici dell'insegnamento, la teoria della neutralità della scienza e della cultura e il loro uso capitalistico, la selezione scolastica, l'aumento delle tasse universitarie.
Riguardo agli esami, si chiedeva in genere il voto collettivo. In un documento degli studenti romani si legge: "Che in ogni disciplina si possa sostenere l'esame anche su argomenti scelti dallo studente e concordati col docente; che il voto sia discusso pubblicamente tra la Commissione e lo studente con eventuali forme di controllo da parte degli studenti; diritto di rifiutare il voto, in particolare quello negativo; abolizione delle scadenze di iscrizione agli esami e delle more, gratuità degli statini".
Netto è il rifiuto degli organi di governo universitari che prevedono la cogestione. Quello che rivendicano con molta forza è l'autogoverno dell'Università da parte degli studenti e l'apertura di questa istituzione e della scuola alle masse popolari. Ne aveva fatto di cammino il movimento studentesco, era partito per combattere l'aumento delle tasse universitarie ed era giunto a rivendicare il governo dell'Università.
Nel corso delle lotte, gli studenti fanno una grande scoperta: la democrazia diretta, e su questa base si organizzano. Attraverso l'esperienza delle organizzazioni rappresentative studentesche avevano preso coscienza che i metodi parlamentari borghesi non erano compatibili con lo spirito, i contenuti e le esigenze organizzative del movimento studentesco.
In particolare la delega in bianco, di lunga durata, senza controllo della base e possibilità di revoca, era considerato uno strumento superato e deleterio agli effetti del coinvolgimento di massa degli studenti. Tutto il potere doveva essere dato perciò all'assemblea generale degli studenti, che, dopo aspre e prolungate lotte, fu imposta alle autorità accademiche e divenne il cuore, la mente e il massimo dirigente del movimento studentesco.
Onde evitare prevaricazioni leaderiste e per dare a tutti gli studenti la possibilità di esprimersi e di partecipare all'elaborazione della linea politica e delle decisioni, le assemblee generali furono strutturate in Comitato esecutivo e Commissioni di lavoro e di studio.
Le assemblee generali non mancarono di costituire il "servizio d'ordine" per difendersi dagli attacchi dei fascisti e delle "forze dell'ordine" e dalle provocazioni. Il "servizio d'ordine", ben addestrato ed equipaggiato, si dimostrò particolarmente utile e valido durante le grandi manifestazioni di piazza.
La democrazia diretta e l'assemblea generale, finché furono praticate, si dimostrarono le carte vincenti per sottrarsi al controllo e alle infiltrazioni dei partiti governativi e del palazzo, per far crescere la coscienza politica delle masse studentesche, per elaborare le piattaforme rivendicative e per organizzare, dirigere e portare al successo il movimento studentesco.
È proprio grazie alla democrazia diretta e all'assemblea generale - la cui sostanza consiste nel coinvolgimento pieno delle masse studentesche in tutte le tre fasi della lotta (elaborazione politica e rivendicativa, organizzazione e direzione, azione) -, che il movimento studentesco ha potuto realizzare il massimo degli obiettivi che era possibile perseguire sul terreno borghese e costituzionale, aprendo una nuova fase della vita universitaria, civile, sociale e politica del Paese.
Il movimento studentesco per far valere le proprie ragioni e realizzare le proprie rivendicazioni, o anche per esprimere la propria solidarietà alla classe operaia e al movimento popolare e ai popoli in lotta contro l'imperialismo americano o contro le dittature fasciste, ha dovuto affrontare delle dure e prolungate lotte contro le autorità accademiche, il governo, i padroni e lo Stato.
Si è avvalso di tutti i metodi di lotta pacifici e violenti, legali e illegali, conosciuti o inediti e sperimentati per la prima volta: dalle occupazioni delle facoltà, che a volte duravano ininterrottamente giorno e notte per tutta la durata di una lotta, alle grandi manifestazioni di strada, dagli scioperi locali e nazionali alle manifestazioni di massa all'interno dell'Università, dai picchettaggi ai sit-in, dall'autogestione alle controlezioni, ai controcorsi e ai seminari.
Inizialmente le lotte studentesche si svolgevano su un piano pacifico e legalitario, ben presto però diventano incandescenti, dure e violente.
La battaglia di Valle Giulia del 1° marzo 1968, in cui le masse studentesche per la prima volta reagiscono con la violenza rivoluzionaria alle selvagge cariche della polizia e dei carabinieri, segna una svolta nella coscienza e nella combattività degli studenti. Da quel momento le masse studentesche risponderanno colpo su colpo direttamente nelle piazze alle provocazioni e alle aggressioni poliziesche.
Gli studenti delle scuole medie non sono da meno dei loro compagni universitari. Tra gennaio e marzo del '68 avvengono le occupazioni dei licei "Berchet" e "Parini" di Milano, ma già in primavera la rivolta dei medi dilaga in tutta Italia. All'apertura dell'anno scolastico '68-'69, in cui la lotta dei medi tocca la punta più alta, sono gli studenti degli istituti tecnici e professionali - i primi ad essere vittime della disoccupazione e i più vicini ai problemi della classe operaia e dei lavoratori - a spingere in avanti la rivolta.
Allo sciopero generale partecipano circa 300 mila studenti dalla Sicilia al Piemonte, da Potenza a Matera a Milano. In autunno 15 mila studenti medi napoletani e 10 mila livornesi, per la prima volta nella storia d'Italia, raccolgono l'appello dei sindacati dei lavoratori allo sciopero generale e sfilano per le strade a fianco degli operai in lotta. Nello stesso periodo gli studenti romani partecipano attivamente alle manifestazioni per la libertà del Sud-Vietnam e della Grecia vittima di un colpo di Stato fascista dei colonnelli. In tutte le città si susseguono scioperi, occupazioni delle scuole, manifestazioni cittadine, assemblee e gruppi di studio da parte dei medi.
Come gli universitari anche i medi indicono dei Convegni nazionali per mettere a punto le loro piattaforme rivendicative. Chiedono la riforma della scuola media superiore e degli esami di Stato, una scuola media unica, gratuita e obbligatoria fino a 18 anni, l'abolizione dei metodi autoritari di insegnamento, dei doppi e tripli turni, nuove e attrezzate strutture scolastiche. Al centro delle rivendicazioni c'è il diritto all'assemblea generale degli studenti. Bersaglio generale dei medi è la scuola borghese e il governo.
Fondamentalmente unica è la linea e l'ispirazione politica e identici sono i metodi di lotta degli studenti universitari e medi, le cui rispettive lotte si intrecciano, si influenzano e si sostengono vicendevolmente.

IV. Il risveglio del movimento operaio e popolare
Il Sessantotto non è stato solo studentesco ma anche operaio, contadino e popolare. Parallelamente alla lotta degli studenti si assiste al risveglio della classe operaia, dei contadini poveri, delle masse popolari specie del Sud e persino degli intellettuali, degli artisti, dei tecnici e di parte dei professionisti.
Era da tempo che il fuoco covava sotto la cenere, e che non avvenivano grosse lotte operaie e sindacali su scala nazionale. Le ultime più rilevanti erano state quelle per il rinnovo dei contratti di lavoro dei metalmeccanici del '62-'63, anche se nel '66 vi era stata un'impennata negli scioperi.
La classe operaia è stata una grande protagonista del Sessantotto. Quando è scesa in campo immediatamente è stata al centro dell'attenzione di tutte le masse in lotta, che vedevano in essa un sicuro punto di riferimento e di esempio.
La classe operaia ha inflitto colpi durissimi al padronato e al governo di "centro-sinistra" rifiutando ogni forma di collaborazione con essi, stabilendo dei nuovi rapporti in fabbrica, migliorando i salari e le proprie condizioni di vita, strappando delle importanti concessioni riguardo le pensioni, la casa, la sanità, il fisco, i trasporti.
Sono le masse operaie, in particolare i giovani e gli immigrati del Sud, che trascinano i sindacati alla lotta, e quando essi temporeggiano o sono contrari alle lotte, non hanno paura di scavalcarli, fare da soli e assumersi direttamente tutte le responsabilità dello scontro con i padroni e il governo.
Non è un caso che nelle fabbriche si riproduca lo stesso fenomeno verificatosi nelle Università, cioè lo scavalcamento delle organizzazioni rappresentative ufficiali. Solo che il movimento operaio non riuscì, per il forte condizionamento del PCI, a liberarsi, o a rifondarli su base di classe, dei sindacati imborghesiti.
Tuttavia per un lungo periodo - almeno dalla primavera '68 all'estate del '69 - molte lotte operaie avvengono al di fuori delle strutture e della linea ufficiale dei sindacati. Fra tutte va ricordata la lotta degli operai Fiat di Torino, cominciata alla Mirafiori nel maggio '69 e che culminerà con la battaglia di Corso Traiano del 3 luglio.
Queste esperienze non passano invano, e anche quando i sindacalisti collaborazionisti riprenderanno in pugno la situazione, non possono che accogliere nel '70, ammortizzandola per quanto era possibile, la richiesta dei lavoratori dei Consigli di fabbrica. Un'inedita e importante struttura sindacale composta da delegati, anche non iscritti al sindacato, che venivano eletti su scheda bianca e senza liste. I Consigli di fabbrica soppiantano le Commissioni interne che si erano staccate dai lavoratori e che ne avevano ostacolate le lotte.
Nel frattempo l'assemblea generale, con a fianco l'assemblea di reparto, di tutti i lavoratori di una stessa fabbrica iscritti e non iscritti al sindacato era diventata una realtà.
Attraverso i Consigli di fabbrica e l'assemblea generale, finalmente i lavoratori avevano gli strumenti sindacali e organizzativi che gli consentivano di esprimersi liberamente, risolvere le loro contraddizioni e prendere le decisioni senza subire le imposizioni e i compromessi dei vertici delle varie centrali sindacali.
Per dare un'idea della grandiosità delle lotte operaie, basti citare che nel '69 i giorni di sciopero raggiungono il totale di ben 37 milioni e 800 mila8, tetto insuperato dal '53 a oggi, contro gli 8,6 milioni del '67, i 9,2 milioni del '68 e i 20,9 milioni del 1970. Il record è tanto più importante se si considera che la media dei giorni di sciopero fino al '75 incluso rimane uguale a quest'ultima cifra.
Niente e nessuno riusciva a fermare l'avanzata travolgente della classe operaia e dei lavoratori. Nemmeno le parole terroristiche della destra DC rappresentata da Oscar Luigi Scalfaro e Franco Restivo, allora ministro degli interni, che, per scongiurare lo sciopero generale nazionale per la casa del 19 novembre '69, arrivava ad affermare che esso era "un atto di guerra, un sopruso organizzato ai danni della popolazione, ha il sapore della ribellione, dell'insurrezione".
Un po' tutte le fabbriche, grosse, medie e piccole, sparse nelle varie regioni d'Italia erano in fiamme. Ma il cuore della lotta era costituito dalle grandi fabbriche del Nord industriale, in particolare Milano, Sesto San Giovanni, Torino e Veneto. Impossibile ricordarle tutte, ma non possiamo non citarne qualcuna, così come vengono in mente: Fiat, Pirelli, Alfa Romeo, OM, Falck, Breda, Innocenti, Magneti Marelli, Autobianchi, Sit-Siemens, Borletti, Ceat, Michelin, Farmitalia, Lancia, Philips, Zanussi. Ed ancora: Petrolchimico di Porto Marghera e Porto Torres, Marzotto di Valdagno, Ducati di Bologna, Nuovo Pignone e Galileo di Firenze, Piaggio e Saint Gobain di Pisa, Italsider di Bagnoli e di Taranto, Fatme di Roma, Olivetti di Ivrea e Napoli, Rumianca di Cagliari.
Lo sciopero - generale, nazionale, locale, di categoria, aziendale, a singhiozzo, a scacchiera, articolato - è stata l'arma fondamentale usata dalla classe operaia e dai lavoratori per piegare la resistenza e la tracotanza dei padroni e dei governanti. Largo uso è stato fatto anche di altri metodi di lotta, alcuni escogitati durante il conflitto, come l'occupazione delle fabbriche, le manifestazioni di piazza nazionali e locali, i blocchi stradali e ferroviari, i picchetti contro i crumiri, i cortei interni alle fabbriche, l'autoriduzione dei ritmi di lavoro, la continuazione dello sciopero durante le trattative. E quando la polizia e i carabinieri ricorrevano alle aggressioni non sono mancate le risposte dure e violente delle masse operaie.
Il movimento operaio aveva la stessa carica anticapitalista, antistituzionale e antigovernativa del movimento studentesco, ma non la stessa volontà e determinazione di dare l'assalto finale al sistema capitalistico. I due movimenti si muovevano uniti per tutto ciò che riguardava le rivendicazioni specifiche e quelle comuni e sociali, e divisi in riferimento alla questione della presa del potere politico.
Questo perché mentre le masse studentesche si erano sottratte all'influenza e alla direzione dei revisionisti e dei riformisti, il movimento operaio nel suo complesso, a parte una porzione minoritaria della sua avanguardia, aveva ancora fiducia nel vertice imborghesito del PCI, ritenendo in cuor suo che la posizione di questo partito fosse semplicemente tattica e non strategica.
Anche la classe operaia voleva la rivoluzione socialista, ma riteneva che non era quello il momento per farla. Il movimento studentesco compie enormi e prolungati sforzi per convincerla a cambiare opinione ma non ci riesce, sia perché chi lo dirigeva non aveva gli argomenti idonei e la credibilità necessaria, sia soprattutto perché la direzione del PCI e Luciano Lama, per un verso, e Bruno Trentin, per un altro verso, impedirono che i due movimenti si unissero sulla stessa lunghezza d'onda.
Gli studenti - spesso fra l'entusiasmo degli operai - partecipavano con slancio e attivamente alle lotte operaie, riuscendo in certi casi persino a suscitarle, come è accaduto per esempio alla Fiat, più volte e ripetutamente, al Petrolchimico di Porto Marghera e alla Marzotto di Valdagno, non considerando la loro regolare presenza in massa agli scioperi degli operai e dei lavoratori. A Trento addirittura il 1° Maggio '68 cittadino fu organizzato dal movimento studentesco, non dai sindacati, su basi internazionalistiche e antimperialistiche.
Tuttavia agli studenti non fu possibile aprire un dialogo e un confronto sul terreno politico e strategico col movimento operaio e sindacale per il boicottaggio dei sindacalisti collaborazionisti della CGIL, CISL e UIL.
Come abbiamo visto, l'anno centrale della rivolta delle masse operaie e lavoratrici è il '69. Infatti nell'"autunno caldo" di quell'anno partono e divampano le grandi battaglie per il rinnovo dei contratti di lavoro dei metalmeccanici, chimici, edili e braccianti. Ma già nei due anni precedenti esplodono qua e là, specie nel Mezzogiorno, delle potenti lotte dei lavoratori.
Nel '67 intensa ed estesa è l'agitazione in agricoltura in Sicilia, Puglia e Lombardia. In totale gli operai agricoli nel corso dell'anno ottengono 51 contratti provinciali. In novembre in Calabria, i braccianti di Isola Capo Rizzuto occupano le terre del demanio per l'assegnazione delle terre, mentre quattro giorni dopo i contadini di Cutro incendiano il Comune per rivendicare il pagamento dei sussidi Cee a integrazione del prezzo del grano duro.
In quell'anno vengono firmati 1.500 accordi nelle fabbriche. Particolarmente dura è la lotta dei lavoratori dell'Omeca di Reggio Calabria, dell'Olivetti e del Petrolchimico di Porto Marghera. Scioperano anche i lavoratori dei servizi municipali, degli uffici comunali e provinciali, delle ferrovie e delle poste, nonostante le disposizioni governative antisciopero, come quella che prevedeva la perdita del salario dell'intera giornata lavorativa in caso di sciopero breve, anche se questo non durava più di mezz'ora.
Nel '68 iniziano delle lotte molto importanti che si prolungheranno fino al '69 o oltre. Ricordiamo quella per le pensioni, sostenuta da principio soltanto dalla CGIL, e quella storica per l'abolizione delle "gabbie salariali", cioè le diversità di retribuzioni tra Nord e Sud, una mostruosità sociale e sindacale che penalizzava gravemente i lavoratori del Mezzogiorno, che percepiscono paghe fino al 30 per cento in meno rispetto a quelle in vigore nelle altre regioni.
Importanti sono le lotte contro il cottimo e per la riduzione dell'orario, poiché fra l'altro vedono entrare in sciopero la Fiat, dopo un lungo silenzio di 14 anni. E quelle del Petrolchimico di Porto Marghera contro i bassi salari e l'aggravamento delle condizioni di lavoro, lotte che lanciano la linea dell'"egualitarismo", che si afferma e viene generalizzata nell'"autunno caldo".
Altri tre avvenimenti di quell'anno sono scolpiti nella mente e nel cuore del proletariato. Le "quattro giornate di Orgosolo", paese sardo nel cuore della Barbagia, in cui il municipio viene occupato dalle masse, con alla testa gli operai, i pastori e gli studenti, che destituiscono la giunta comunale democristiana e instaurano l'assemblea popolare permanente con l'obiettivo di sostituire "il potere della classe dominante con quello della classe dominata".
L'altro avvenimento pieno di significato anticapitalista è l'abbattimento della statua del conte Gaetano Marzotto a Valdagno durante una lotta operaia nella fabbrica da lui fondata. Infine l'infame eccidio di Avola, un paese agricolo in provincia di Siracusa, avvenuto durante un blocco sulla strada provinciale istituito da tremila braccianti contro il rifiuto degli agrari di trattare per il rinnovo del contratto di lavoro. La polizia carica i braccianti sparando lacrimogeni e pallottole. Vengono uccisi i braccianti avolesi Giuseppe Scibilia e Angelo Sigona, molti i braccianti ricoverati in ospedale, alcuni in condizioni gravi. Viene anche ferito un bambino di 3 anni e mezzo che si trovava fra i dimostranti. Sul terreno vengono raccolti ben tre chilogrammi di bossoli delle pallottole sparate dalla polizia.
Alle masse della Sicilia il governo non sa offrire altro che pallottole e sangue, persino per avere l'acqua le masse del quartiere di San Lorenzo di Palermo sono costrette a fare le barricate.
Altro sangue il martoriato Mezzogiorno lo versa a Battipaglia, l'anno successivo, scatenando una dura reazione dei lavoratori in tutta Italia.
La solidarietà del movimento operaio e sindacale al Mezzogiorno è particolarmente forte e viene espressa attivamente in più occasioni, in specie con la manifestazione nazionale dei metalmeccanici a Reggio Calabria il 22 febbraio '72 e nello sciopero generale del 12 gennaio '73.
L'aspra e prolungata battaglia per il rinnovo dei contratti di lavoro del '69-'70 rimane memorabile per la qualità e le innovazioni delle rivendicazioni, una vera e propria rivoluzione sindacale. Esse riflettevano l'elevato grado di coscienza politica e sindacale delle masse lavoratrici, in particolare degli operai, unito a una combattività senza precedenti.
Le rivendicazioni si basano sul netto rifiuto a tener conto delle "compatibilità" aziendali e sul principio dell'"egualitarismo". Da qui la considerazione del salario e della salute come "variabile indipendente", il che significa che il primo deve essere sganciato dalla produttività e la seconda non deve essere sacrificata alla monetizzazione.
Le rivendicazioni più importanti sono le seguenti: forti aumenti salariali uguali per tutti, inquadramento unico fra operai e impiegati, passaggio in blocco alla categoria superiore, parificazione delle retribuzioni femminili con quelle maschili a parità di mansioni e qualifiche, 40 ore settimanali, rottura delle barriere tra operai comuni e operai specializzati, eliminazione dell'inferiorità contrattuale dei giovani, che erano scaglionati per età in gradi inferiori a quelli degli adulti, limitazione dello straordinario e controllo sindacale su di esso, abolizione dei contratti a termine e del premio di produzione legato al rendimento, terza e quarta settimana di ferie, istituzione della mensa, abolizione degli incentivi salariali differenziati e in base alla produttività, regolamentazione del lavoro in linea, abolizione della perdita di salario per i primi 3 giorni di malattia che vigeva per gli operai. Un posto di rilievo occupava il riconoscimento del diritto di assemblea sindacale e di altri diritti per l'azione sindacale in fabbrica. I tecnici e gli impiegati di sinistra e progressisti danno il loro pieno appoggio a queste rivendicazioni.
Questa linea rivendicativa, con alterne vicende e progressivi ridimensionamenti, ha resistito fino al febbraio del '78, quando viene radicalmente rovesciata dall'assemblea sindacale dell'Eur pilotata dietro le quinte da Berlinguer e sulla scena da Lama, connivente Trentin e tutta la "sinistra" del PCI.
Tale assemblea ufficializza la linea collaborazionista delle compatibilità, del "salario variabile dipendente", della professionalità e della meritocrazia, della moderazione salariale, della flessibilità e della mobilità del lavoro.
Il vento fresco e rinnovatore del Sessantotto sconvolge anche il teatro, il cinema, la musica, la letteratura, il giornalismo, l'arte in genere e il mondo della medicina, della psichiatria, degli insegnanti, degli avvocati, dei professionisti, arriva persino nella magistratura, nell'esercito, nella polizia e fra gli agenti di custodia delle carceri.
Le classi piccolo e medio borghesi e gli intellettuali gradualmente si scindono in due campi: da una parte quelli che si schierano col progresso e il proletariato, dall'altra quelli che si schierano con la reazione, il governo e la classe dominante borghese.
Particolarmente combattivi so-no i registi, gli attori e i cineasti di sinistra che boicottano la mostra del cinema a Venezia e contestano altri festival cinematografici, e gli artisti che occupano la Triennale di Milano. Noti scrittori si ritirano dal premio Strega e altri rifiutano i premi vinti. I magistrati per protesta al sistema e alle leggi giudiziarie vigenti fanno delle controinaugurazioni dell'anno giudiziario.
Una parte notevole della sinistra cattolica - tonificata dal Concilio Vaticano secondo, ispirata da noti preti progressisti e dalla "Lettera a una professoressa" scritta dai ragazzi della scuola di Barbiana sotto la guida di don Lorenzo Milani, e stimolata dall'esempio della Comunità dell'Isolotto di Firenze - dà un importante contributo alla Grande Rivolta del Sessantotto.
Le Comunità di base si diffondono a macchia d'olio; le Acli, nel congresso di Torino, sanzionano la fine del "collateralismo" con la DC, ponendo formalmente termine al principio dell'unità politica dei cattolici, e l'anno successivo a Vallombrosa fanno la scelta per il socialismo, attirandosi la sconfessione della Conferenza episcopale italiana; nel '73 nasce il movimento "Cristiani per il socialismo".
Queste forze cattoliche, e quei settori protestanti di sinistra loro alleati, rimangono tuttavia imbrigliate nel riformismo e nel parlamentarismo. La maggioranza confluisce, o ne diviene elettrice, nel PCI, nel PSIUP poi nel PdUP e infine in DP, e addirittura nel PSI, una porzione nei gruppi "ultrasinistri", una minima parte nelle organizzazioni sedicenti marxiste-leniniste e solo singole unità nelle nostre file.

V. L'azione del governo e della nuova destra per spengere le fiamme del Sessantotto
Il Sessantotto non è stato né una parata festosa delle forze sociali dei due campi opposti, né un gioco da ragazzi, un'esplosione dell'esuberanza giovanile, né tanto meno una scampagnata ecologica e romantica. Il Sessantotto è stato un duro e violento conflitto di classe che ha lasciato dietro di sé una scia di sangue, incarcerazioni, processi, persecuzioni giudiziarie e poliziesche e licenziamenti che ancora oggi gridano giustizia.
La classe dominante borghese, il governo e la nuova destra hanno provato tutte le strade legali e illegali, pacifiche e violente, hanno compiuto ogni sorta di infamie, soprusi, repressioni, corruzioni, ricatti, infiltrazioni, provocazioni e manovre politiche e sindacali, sono persino ricorsi, occultamente, alle bombe e alle stragi pur di arrestare l'impetuosa ascesa politica e sociale delle masse e spengere le fiamme del Sessantotto.
Secondo il ministero della giustizia, dal 1967 al settembre del '68 sono stati istituiti circa diecimila processi contro operai, braccianti, contadini, lavoratori e studenti che hanno preso parte o organizzato manifestazioni dei lavoratori e studentesche.
In base ai dati raccolti da CGIL, CISL e UIL9, nel corso dell'"autunno caldo", tra il settembre e il dicembre del '69, sono stati denunciati 9.938 operai, lavoratori e sindacalisti, di cui 1.768 metalmeccanici; 1.474 braccianti; 359 edili; 107 alimentaristi; 538 chimici e operai del vetro; 326 minatori e cavatori; 400 tessili e lavoratori dell'abbigliamento; 63 poligrafici e cartai; 288 lavoratori dei trasporti; 43 lavoratori del commercio; 277 statali e parastatali; 2.135 dipendenti degli enti locali e ospedalieri; 1.054 vigili urbani; 1.166 lavoratori appartenenti ad altre categorie.
I suddetti denunciati erano accusati dei seguenti reati: occupazione di aziende, ingresso abusivo nel fondo altrui, invasione di edifici, violazione di domicilio, danneggiamento, violenza privata, resistenza a pubblico ufficiale, riunioni e assembramenti non autorizzati, istigazione a commettere reati, diffusione di notizie false e tendenziose, blocchi stradali e ferroviari, ecc.
La repressione governativa e statale rimane in vita per tutto l'arco del Sessantotto da noi considerato, con la stessa forza e intensità. Nei primi cinque mesi del '72, per esempio, sono stati operati più di 250 arresti, di cui oltre 160 per "resistenza", "oltraggio" e "lesioni e violenze a pubblico ufficiale" e oltre 40 per "associazione e istigazione a delinquere". Nello stesso periodo sono stati denunciati 1.250 tra lavoratori e studenti, di cui 25 per "apologia di reato" e centinaia per "propaganda sovversiva", "vilipendio alla polizia, alla magistratura, al capo dello Stato e al governo", "notizie false e tendenziose", "radunata sediziosa".
Per intimidire e tappare la bocca ai politici ribelli, ai "sovversivi", ai giornalisti e ai democratici scomodi, fioccano centinaia e migliaia di incriminazioni per "reati di opinione". Ritornano di moda gli articoli del codice penale riguardanti "grida e manifestazioni sediziose" (654), "pubblicazione o diffusione di notizie false, esagerate o tendenziose, atte a turbare l'ordine pubblico" (656), "associazioni antinazionali" (271), "propaganda ed apologia sovversiva o antinazionale" (272), "cospirazione politica mediante associazione" (305), "pubblica istigazione e apologia" (303), "istigazione a delinquere" (414), "istigazione di militari a disobbedire alle leggi" (266), "vilipendio della Repubblica, delle istituzioni costituzionali e delle Forze armate" (290); articoli largamente usati da Mussolini e dalla dittatura fascista per sbarazzarsi dei loro oppositori.
Vengono rispolverati persino l'articolo contro "chiunque esercita un mestiere girovago senza la licenza delle autorità" per impedire la diffusione militante dei giornali politici, e le norme di legge sugli stampati per arginare l'enorme diffusione di volantini davanti alle fabbriche, le scuole e le Università.
Pure la nostra Organizzazione e "Il Bolscevico", nella persona del compagno Giovanni Scuderi in veste di Segretario generale di essa e di Direttore politico e responsabile del nostro periodico, incappano nelle maglie della magistratura con una lunga serie di processi per "reati di opinione". Solo che i nostri processi erano tenuti nascosti dalla grande stampa.
Polizia e magistratura in particolare attaccano le nostre posizioni anticapitaliste, antistituzionali e astensionistiche espresse nei documenti dal titolo "Il potere politico nasce dalla canna del fucile" (pubblicato in occasione delle prime elezioni regionali del 7 giugno 1970) e "Abbandonate le illusioni parlamentari, il potere politico nasce dalla canna del fucile" (pubblicato per le elezioni politiche del '72).
Giuseppe Saragat, presidente della Repubblica, il governo Rumor, il PSU di Antonio Cariglia e Mauro Ferri aprono una campagna per lo scioglimento delle organizzazioni non parlamentari a sinistra del PCI. Il prefetto di Milano Libero Mazza, col suo famoso rapporto sui "ventimila estremisti" di quella città scritto il 22 dicembre '70, ne batte la grancassa.
Alla repressione governativa si aggiunge quella padronale. Si distingue la Fiat che all'inizio dell'"autunno caldo", a scopo intimidatorio, sospende in blocco 30 mila lavoratori, per lo più operai fra i più combattivi. La Fiat giunge persino a chiamare la polizia in fabbrica per impedire un'assemblea tra operai, impiegati e tecnici.
Non mancano le serrate, come accade alla Pirelli di Milano per evitare una contrattazione su richieste spontanee di lavoratori, all'Italsider di Bagnoli che chiude il quinto altoforno per rivalsa sugli scioperi articolati.
Vi sono anche casi in cui direttamente i padroni sparano contro gli operai in sciopero ferendone alcuni, ed è d'uso corrente assoldare squadre di crumiri per forzare i picchetti operai.
Non meno violenta e sanguinaria è la repressione contro il movimento studentesco. Diversi sono gli studenti e i giovani caduti eroicamente o feriti gravemente durante gli scontri di massa con la polizia e i carabinieri, gli ultimi perdono la vita nella primavera del '75.
A migliaia vengono denunciati con pesanti capi d'accusa, centinaia gli arrestati. Non si contano le perquisizioni domiciliari e personali e i fermi di polizia. Immediatamente dopo la battaglia di Valle Giulia, 400 studenti vengono denunciati a Roma, 530 a Torino, più di 40 a Pisa.
Le cariche della polizia contro le manifestazioni studentesche sono pressoché ininterrotte coinvolgendo tutte le città sedi di Università, fra le più clamorose va ricordata quella del 30 gennaio 1968 davanti al Rettorato dell'Università di Firenze.
Non sono risparmiati nemmeno gli studenti medi, anzi verso di essi si è particolarmente accaniti illudendosi di poterli piegare immediatamente con la forza data la loro giovane età e la dipendenza economica dalla famiglia. Alle "forze dell'ordine" danno man forte i presidi e i professori reazionari con i voti negativi in condotta, le vessazioni e le sospensioni. Al Mamiani di Roma nel '69 in massa vengono sospesi 200 studenti. Pesante è l'intervento autoritario e ricattatorio sul piano affettivo ed economico dei genitori più reazionari.
Gli assalti squadristi dei fascisti alle Università e alle scuole e la "caccia al rosso" completano il quadro repressivo, che però non fa indietreggiare di un millimetro la lotta degli studenti.
Lo stragismo e il golpismo sono le armi estreme cui fa ricorso la nuova destra, dentro e fuori il governo, per porre fine al Sessantotto. Efferate stragi vengono compiute alla Banca dell'Agricoltura a Milano (12.12.69), a Piazza della Loggia a Brescia durante un comizio sindacale (28.5.74) e sul treno "Italicus" mentre transitava a San Benedetto Val di Sambro (4.8.74), ma la Grande Rivolta non si arresta.
Valerio Borghese nella notte tra il 7 e l'8 dicembre '70, i colonnelli e i generali della "Rosa dei venti" tra l'ottobre '73 e il 25 gennaio '74, Edgardo Sogno, ora alleato ed estimatore di Craxi, presumibilmente tra il 10-15 agosto '74, minacciano il golpe, ma neanche loro riescono a placarla.
Ci volevano altri strumenti per salvare il sistema capitalistico italiano dalla furia e dagli assalti del Sessantotto. Ci penseranno i revisionisti a compiere l'opera che non era riuscita al governo e alla nuova destra, quella nuova destra che troverà in Craxi il duce e il governante che le farà realizzare per via istituzionale e governativa e con la "grande riforma" ciò che le era stato impossibile con le bombe, le stragi, il terrorismo nero e "rosso" e il rapimento e l'assassinio di Moro.

VI. I revisionisti fanno rifluire la lunga ondata del Sessantotto
Il Sessantotto prese alla sprovvista il PCI e la FGCI. Lo ammettono candidamente gli stessi interessati. L'allora Segretario nazionale della FGCI Claudio Petruccioli, da poco succeduto ad Occhetto, a distanza di anni, nel '76, ricorda ancora che "quando nell'autunno-inverno del '67-'68 esplose, con caratteri del tutto nuovi, il movimento studentesco, noi ne fummo colti di sorpresa"10. E Luigi Longo, allora Segretario generale del PCI, a caldo, nel maggio del '68, denuncia il fatto che gli studenti della FGCI e del PCI si erano trovati "in una situazione di isolamento individuale, di sconcerto"11.
In effetti il movimento studentesco ad un certo punto scavalca e travolge i revisionisti e le loro organizzazioni interne all'Università che fino a quel momento avevano avuto una funzione di freno e di tappo delle lotte e della collera crescenti delle masse studentesche.
La FGCI viene spazzata via, per rivederla all'opera bisognerà aspettare il '73, ai parlamentari del PCI, salvo rare eccezioni, non è concesso il diritto di partecipare e parlare alle assemblee e alle manifestazioni studentesche. Sorte analoga ricevono gli intellettuali dell'area del PCI, come accade a Moravia, che all'Università di Roma viene accolto al grido "Mao sì, Moravia no".
Questo atteggiamento è più che comprensibile dato che i revisionisti, specialmente in un primo momento, manifestavano un odio profondo verso le masse studentesche in lotta sfuggite al loro controllo. Basti ricordare ciò che vomitò su "Rinascita" Petruccioli, subito dopo il successo della manifestazione nazionale per il Sud-Vietnam del 23 aprile del '67 a Firenze, definendo i manifestanti dei "gruppi di provocatori, un ostacolo, un pericolo che dobbiamo abbattere e spazzar via".
Questo atteggiamento per motivi tattici successivamente fu ridimensionato e differenziato, ma qualcuno se lo portò dietro per tutto il Sessantotto e fra questi si trova anche Armando Cossutta che ancora nel febbraio del '73, al CC del PCI, auspicava la creazione di un "clima rovente" contro gli "estremisti".
Non la pensava però allo stesso modo gran parte, se non la maggioranza, della base studentesca del PCI e della FGCI che nella pratica stava col movimento studentesco e in certi casi addirittura si contrapponeva apertamente al gruppo dirigente, come quando gli studenti universitari comunisti respingono la proposta della "associazione politica studentesca", avanzata al Convegno nazionale organizzato dalla FGCI nel marzo '68 a Firenze.
Una per una tutte le proposte della FGCI vengono bocciate dalle masse studentesche. A cominciare dal "Sindacato studentesco", oggi tornato di moda, sostenuto a tutto il '67, cui fanno seguito a cascata dal gennaio al giugno '68 la "Costituente sindacale", la "Costituente studentesca", l'"Organizzazione politica nazionale degli studenti", l'"Organizzazione degli studenti universitari comunisti", per finire con l'"Organizzazione politica di massa della gioventù rivoluzionaria", lanciata da Petruccioli al Convegno dei quadri della FGCI tenutosi ad Ariccia a fine giugno del '68.
Solo nel maggio del '68 il PCI può riprendere contatto col movimento studentesco, grazie a una doppia mossa tattica di Longo. L'articolo su "Rinascita" già ricordato, pieno di ampi riconoscimenti politici e rivoluzionari al movimento studentesco, e all'incontro, avvenuto alla vigilia delle elezioni politiche, con alcuni esponenti studenteschi tra cui Oreste Scalzone, che per un piatto di lenticchie assicura i voti degli studenti al PCI.
Da quel momento inizia l'azione di infiltrazione del PCI nel movimento studentesco per riprenderne il controllo diretto, depotenziarne la carica rivoluzionaria e ricondurlo gradualmente nell'alveo parlamentare, istituzionale e costituzionale. Facendo tuttavia ben attenzione a non scoprirsi, a non svelare i suoi veri piani, la sua natura borghese e controrivoluzionaria e il suo obiettivo strategico di integrare la classe operaia nel capitalismo.
Il PCI se voleva avere udienza, credito e spazio doveva necessariamente presentarsi alle masse in rivolta come un partito rivoluzionario e anticapitalista che lottava per il socialismo. Non come adesso che, dopo aver deideologizzato, decomunistizzato e socialdemocratizzato le masse, può permettersi tranquillamente di rinnegare il socialismo e la rivoluzione socialista e dichiarare apertamente di essere un partito di opinione "riformatore", cioè riformista, che "non pensa a un'altra società, ma a trasformare, a far nuova questa società"12.
Allora il veleno riformista, pacifista, legalitarista, parlamentarista e democratico borghese non poteva certo essere inoculato apertamente, ma attraverso elucubrazioni, analisi, idee e proposte che fossero in grado di convincere gli studenti, gli operai e i lavoratori che le posizioni del PCI erano quelle giuste per conquistare il socialismo.
In questo sforzo si distingue, oltre Ingrao, Achille Occhetto che dà una forte verniciatura rossa alla linea del PCI accogliendo gran parte delle parole d'ordine del movimento studentesco, ivi compresa quella del "potere studentesco", e le spinte operaie verso il sindacato dei Consigli di fabbrica.
L'attuale Segretario generale del PCI, allora, appariva come un terribile rivoluzionario, difficilmente distinguibile da un marxista-leninista. "I nostri avversari devono sapere - tuonava - che per tradizione storica la classe operaia è pronta a combattere su tutti i terreni e con tutte le armi, perché siamo un partito che vuole realmente la rivoluzione" in Italia che "può essere l'anello più debole della parte più forte della catena dell'imperialismo". Continuando, Occhetto diceva che siamo entrati "in una fase in cui il socialismo è maturo non solo strategicamente ma anche politicamente, il socialismo diventa una necessità politica per la soluzione dei problemi immediati e anche parziali della società". E sottolineava che siamo "in quella fase di sviluppo del capitalismo in cui, come diceva Lenin, la democrazia conseguente reclama il socialismo"13.
Ma è Enrico Berlinguer che stabilisce la linea adeguata a ingannare le masse in lotta e nel contempo a tranquillizzare la classe dominante borghese circa le reali intenzioni del PCI.
Intervenendo al Comitato centrale del 14 gennaio del '70 così si esprime: "C'è chi pensa, c'è chi ha l'impressione che la visione che ho cercato di riassumere di alcuni dei problemi della lotta per il socialismo in un paese come il nostro è, o può rischiare di divenire anche solo oggettivamente una forma nuova, magari socialmente, politicamente, culturalmente, più dignitosa e raffinata, di riformismo. E mentre vi è qualcuno, come, ad esempio, l'on. La Malfa, che preme da anni per costringerci a riconoscere che in Italia e in Occidente di rivoluzione ormai non si può più parlare, vi sono altri gruppi, specialmente di giovani, i quali, proprio da quella errata impressione, traggono, se non motivi di lotta, certo motivi di diffidenze e di incomprensioni nei nostri confronti. Noi rispondiamo invece - continua Berlinguer - che proprio questo nostro modo di concepire i problemi della lotta per il socialismo è la risposta affermativa che noi riteniamo debba essere data, nelle attuali condizioni, al grande quesito se e in quale modo la rivoluzione è possibile in Italia e forse, più in generale, anche in altri paesi di capitalismo avanzato (naturalmente tenendo sempre presente le differenze, a volte assai grandi, esistenti fra questi stessi paesi). Ma io credo che noi dobbiamo seriamente e apertamente affrontare questo tema, il tema cioè del rapporto fra questa nostra visione e il riformismo. E credo che dobbiamo riconoscere che in questa nostra visione viene in un certo senso recuperato, ma liberato dall'opportunismo, uno dei concetti del vecchio riformismo: e precisamente il concetto di uno sviluppo graduale.
Lo disse chiaramente Togliatti - conclude Berlinguer - al X Congresso: 'Noi introduciamo il concetto di uno sviluppo graduale, nel quale è assai difficile dire quando precisamente, abbia luogo il mutamento di qualità"'.
In nome del socialismo e della rivoluzione dunque il PCI rimette piede e si fa strada nel movimento studentesco e mantiene il rapporto con tutte le masse in rivolta, le cui istanze di partecipazione e di democrazia diretta vengono inglobate, ma in forma stravolta e conforme alla democrazia borghese, nella strategia del PCI.
Dalla tribuna del XII Congresso del PCI, febbraio '69, Longo invoca "la partecipazione diretta (da parte degli operai, contadini e studenti, nostra nota) alla direzione della società e dello Stato", mentre Berlinguer parla di introdurre "in tutta la vita politica e sociale forme nuove di democrazia diretta e assicurare così una reale partecipazione dei lavoratori alla direzione dell'economia e della vita pubblica".
L'inganno politico, l'uso opportunistico e strumentale del marxismo-leninismo, della terminologia rivoluzionaria e del socialismo, la creazione o il controllo di gruppi sedicenti rivoluzionari, lo scissionismo nelle file rivoluzionarie, l'impiego di ingenti ed eccezionali mezzi e la corruzione carrieristica e parlamentaristica di alcuni leader dei movimenti, sono stati indubbiamente determinanti per consentire al PCI di recuperare la fiducia delle masse in lotta e per far rifluire lentamente la lunga ondata del Sessantotto.
Hanno pesato molto anche le calunnie, gli attacchi verbali e giornalistici, i ricatti, le pressioni dirette e indirette, l'emarginazione e le aggressioni fisiche durante le manifestazioni dirette contro i rivoluzionari e gli autentici marxisti-leninisti.
Ne sappiamo qualcosa noi. Memorabile è l'aggressione che ricevemmo al Comizio che tenevamo il 1° Maggio '69 in piazza Santo Spirito a Firenze, l'unico comizio che si teneva in tutta la città, e la petizione rivolta subito dopo al Commissario prefettizio per farci chiudere la sede di via dell'Orto, anch'essa assaltata da falsi marxisti-leninisti.
I revisionisti alla fine riuscirono a spengere la fiamma della Grande Rivolta, ma non a soffocare nella culla il PMLI, cosicché la memoria storica del Sessantotto è rimasta intatta e può essere trasmessa integralmente alle nuove generazioni, affinché ne traggano insegnamenti e la facciano rivivere nelle nuove prove della lotta di classe nelle fabbriche, nella società, nella scuola e nell'Università.

VII. L'influenza nefasta degli "ultrasinistri"
La corrente principale del movimento di massa del Sessantotto era sana, rivoluzionaria, conforme allo sviluppo della società. Ma giacché nulla al mondo è assolutamente puro e perfetto, e giacché alle forze sane si mescolano inevitabilmente delle forze non sane, nella Grande Rivolta del Sessantotto agivano varie tendenze ideologiche e politiche assai negative e nefaste che le hanno inferto dei gravi danni.
Succede sempre così quando avvengono dei grandi sconvolgimenti storici. È accaduto persino alla gloriosa Comune di Parigi. Marx, commentandola, non poteva che rilevare che "in tutte le rivoluzioni si intrufolano, accanto ai suoi rappresentanti autentici, individui di altro conio"14. Abbiamo già visto come si sono comportati gli "individui di altro conio" rappresentati dai revisionisti di destra, ora vediamo i disastri che hanno compiuto i revisionisti di "sinistra".
Gli "ultrasinistri", per lo più operaisti, trotzkisti e spontaneisti, con il loro estremismo, avventurismo, eclettismo, economicismo, settarismo e frazionismo, sostanzialmente hanno impedito che tutti gli autentici rivoluzionari si riunissero in un solo Partito marxista-leninista; che le masse si avvalessero dell'esperienza storica del proletariato internazionale; che il marxismo-leninismo-pensiero di Mao fosse il pensiero guida del Sessantotto; infine che i movimenti di lotta esprimessero fino in fondo e correttamente tutta la loro carica rivoluzionaria.
Cosicché hanno consentito ai revisionisti di destra di recuperare il terreno perso inizialmente e di riportare sotto la loro influenza le masse in lotta.
La riprova di tutto ciò sta nel fatto che attualmente noti esponenti "ultrasinistri" sono al servizio di Craxi e del PSI (Adriano Sofri, Marco Boato, Silvano Miniati, Daniele Protti e Federico Stame), di Occhetto e del PCI (Alberto Asor Rosa, Mario Tronti, Luigi Pintor, Lucio Magri, Lucio Libertini, Gian Mario Cazzaniga), e dei più grossi quotidiani e settimanali (Paolo Mieli alla "Stampa" di Agnelli, Enrico Deaglio al giornale della Confindustria "Il Sole-24 ore" e a "Epoca" di Mondadori, Mario Scialoia a "L'espresso", Giampiero Mughini e Claudio Rinaldi a "Panorama", per citarne solo qualcuno), mentre altri sono entrati nel parlamento, come Mario Capanna, Franco Russo, Luca Cafiero, Massimo Cacciari, Tony Negri, e nelle alte sfere della finanza e dell'industria.
Gli "ultrasinistri", anziché adoperarsi per tracciare una netta linea di demarcazione tra il marxismo-leninismo-pensiero di Mao e il revisionismo di destra - cosa che in quel momento in Italia come nel mondo era assolutamente necessaria per spingere in avanti i movimenti rivoluzionari - tatticamente si barcamenavano fra l'una e l'altra posizione, ma in realtà finivano con l'appoggiare il PCI, il PSIUP, se non addirittura il PSI, a livello pratico ed elettorale.
Quando proprio erano costretti davanti alle pressioni delle masse ad alzare i ritratti di Lenin e Mao immancabilmente gli affiancavano quelli di Che Guevara volendo contrapporre il "foco guerrigliero", il ribellismo individualista piccolo-borghese, alla rivoluzione proletaria e alla via dell'Ottobre.
Mentre Stalin veniva vituperato, il pensiero di Lenin e Mao venivano distorti, se non attaccati da "sinistra", attraverso la riesumazione delle posizioni "ultrasinistre" di Trotzki, Rosa Luxemburg e Pannekoek mischiate con quelle dei revisionisti di destra Lukacs, Antonio Gramsci e Krusciov.
Non deve meravigliare questo guazzabuglio ideologico perché anche oggi - vedi Ingrao, Cossutta, Pintor, Rossanda, il gruppo dirigente di DP in tutte le sue correnti e i gruppi, le riviste e i movimenti che ruotano attorno a costoro - gli opportunisti di "sinistra", smessi gli abiti sessantottini e indossati quelli della normalizzazione e dell'omologazione borghese, continuano a tenere lo stesso atteggiamento ideologico riconoscendosi persino nei neoliberali Gorbaciov e Dubcek.
È tipico infatti della piccola borghesia rivoluzionaria o comunque anticapitalistica di essere attratta in qualche misura dal socialismo, ma concependolo "depurato" dei suoi aspetti essenziali inerenti la dittatura del proletariato, la direzione del partito del proletariato e la collettivizzazione della proprietà dei mezzi di produzione, di scambio e di commercio. In altri termini, la piccola borghesia, anche se rivoluzionaria e se non è disposta a cambiare radicalmente la concezione del mondo, rimane pur sempre abbarbicata alla proprietà privata e alla libertà e alla democrazia in generale al di sopra delle classi, all'idealismo e all'individualismo.
I maggiori propagandisti delle paccottiglie anti marxiste-leniniste, guarda caso, provenivano dalle file della "sinistra" del PSI, che nel '64 costituirà il PSIUP e che alla fine, dopo diverse vicende organizzative, confluirà per lo più nel PCI.
Fra questi socialdemocratici di "sinistra" spiccano Lelio Basso, Rodolfo Morandi, Raniero Panzieri, Asor Rosa (già nel PCI uscitone nel '56 dopo i fatti di Ungheria), Vittorio Foa, Vittorio Rieser, Libertini, Sofri e Cazzaniga, cui si uniscono Tronti e Cacciari.
In particolare gli operaisti appartenenti ai "Quaderni rossi" ('60-'68), "Classe operaia" ('63-'66), "Contro piano" ('67-'72), "La Classe" ('69) e "Potere operaio" ('69-'75) sviluppano un discorso di carattere sociologico borghese in chiave economicista, menscevica e luxemburghiana tendente a rifondare teoricamente la strategia operaia, rompendo radicalmente con l'esperienza storica del movimento operaio internazionale, introducendo quel concetto di "discontinuità", ripreso oggi, partendo da altre posizioni, da Occhetto, per raggiungere lo stesso obiettivo.
Questo discorso prettamente economicista, che trova larghi consensi e propagandisti tra certi sessantottini spontaneisti, si sposava perfettamente con le "teorie" di Herbert Marcuse, secondo cui la classe operaia non era più rivoluzionaria ed egemone e le nuove forze rivoluzionarie ed egemoni erano gli intellettuali, gli studenti, il sottoproletariato, le minoranze razziali e il Terzo mondo in genere.
Questo filosofo idealista tedesco, docente negli Usa, nella sua opera più divulgata in Italia in quel periodo "L'uomo a una dimensione", sosteneva infatti che "la classe operaia non rappresenta più la negazione di ciò che esiste" e che "la società capitalistica si fondi proprio sulla sua capacità di assorbire il potenziale rivoluzionario, liquidare la negazione assoluta, e soffocare il bisogno di un cambiamento qualitativo del sistema esistente".
L'accoppiata operaisti-Marcuse potrebbe di primo acchito sembrare azzardata ma non lo è in quanto i primi, incentrando il loro discorso sull'economia, sui rapporti tra gli operai e i padroni nelle fabbriche, sulle lotte sindacali e sociali ignorando l'analisi di Lenin sull'imperialismo, negando il ruolo del partito del proletariato e isolando la classe operaia dalle altre classi e gruppi sociali rivoluzionari, davano largo spazio alle teorizzazioni marcusiane, rilanciate e sostenute fervidamente da Rossana Rossanda, Pintor, Magri e da tutto il gruppo de "il manifesto".
Operaisti, marcusiani, trotzkisti, spontaneisti, gruppo de "il manifesto", anarchici, tutti quanti avevano un punto in comune, l'odio viscerale, piccolo borghese e anticomunista contro la concezione marxista-leninista del Partito.
In questo fronte, oltre che Libertini e Cazzaniga, si distingueva Sofri che si è battuto strenuamente, con grandi appoggi nazionali e internazionali, vedi il fatto che la rivista trotzkista Usa "Monthly Review" gli ha ripreso integralmente l'intervento di cui parleremo, affinché in Italia non fosse creato subito, all'inizio del Sessantotto, essendocene tutte le condizioni soggettive e oggettive un vero e grande partito rivoluzionario.
Costui è stato uno dei massimi teorizzatori della "teoria" spontaneista delle "avanguardie interne" al movimento di massa e del "partito come processo", giungendo a sostenere in una importante riunione de "Il Potere operaio" di Pisa, tenutasi il 19 settembre '68, che "c'è, in Lenin, una definizione storica dell'avanguardia, che è oggi inaccettabile"15. Nello stesso momento i marxisti-leninisti ne sostenevano invece la validità e l'attualità e si sforzavano di convincere i rivoluzionari e le masse in lotta che "se si vuol fare la rivoluzione, ci deve essere un partito rivoluzionario. Senza un partito rivoluzionario, senza un partito che si basi sulla teoria rivoluzionaria marxista-leninista e sullo stile rivoluzionario marxista-leninista, è impossibile guidare la classe operaia e le larghe masse popolari a sconfiggere l'imperialismo e tutti i suoi lacché".16
Sofri, evidentemente, era un agente provocatore, altrimenti non si capirebbe nemmeno il suo estremismo parolaio, certe azioni avventuristiche come il plauso espresso da "Lotta continua" all'assassinio del commissario di polizia Calabresi, l'appoggio alla rivolta di Reggio Calabria guidata dai fascisti, il suo livore antisindacale, il passaggio dall'astensionismo più acceso al parlamentarismo più servile con l'indicazione di voto al PCI nelle elezioni amministrative del '75 e con la presentazione di "Lotta continua", che lui aveva fondato nel '69 e che ancora dirigeva, alle prime elezioni scolastiche indette nel '74 proprio per imbrigliare la rivolta delle masse studentesche. Così come non si capirebbe la sua proposta di fondare il partito della rivoluzione lanciata nel Congresso nazionale di "Lotta continua" del 1° gennaio '75, cui però fa seguito la repentina e ancora oscura vicenda dello scioglimento di quell'Organizzazione, nel momento stesso in cui dilaga il cosiddetto "terrorismo rosso". Senza parlare della sua ricomparsa nel giornalismo, in "Reporter", "Panorama" e "Micromega", e nella corte di Claudio Martelli e Bettino Craxi.
Molte sono le parole d'ordine errate e fuorvianti seminate dagli "ultrasinistri" nel corso del Sessantotto. Fra cui: "Potere studentesco", mutuato dall'Associazione studentesca statunitense degli SDS (Student for a Democratic Society), "Potere operaio", "Sindacato studentesco", comune ai revisionisti di destra, "Lo studente è una forza-lavoro nella fase di formazione-qualificazione", "Gli studenti fanno parte del proletariato", "Autonomia operaia", propagandata in particolare da Tony Negri e Oreste Scalzone, "Salario minimo garantito", attualmente rivendicato da Craxi e da tutti i socialdemocratici europei e italiani, nonché "Scheda rossa" e "Voto rosso", predicati a perdifiato da Scalzone e dal gruppo della Rossanda, Pintor, Magri.
A queste bisogna aggiungere le parole d'ordine tipicamente anarchiche e idealiste "Comunismo subito", "Il Comunismo è maturo", sostenute dal gruppo del "manifesto" e del PDUP, che non a caso nel '74 si trasformerà in PDUP per il comunismo. Anche "Avanguardia operaia", il gruppo milanese di origine trotzkista, che costituirà poi il nucleo fondamentale di DP, sosterrà tale assurda posizione.
"Comunismo subito" che equivale a "socialismo mai", come dimostrano i fatti e le stesse elaborazioni di tutti coloro che ancora adesso si "battono" per il comunismo, passando oltre con disinvoltura alla lotta per il socialismo che occorre fare oggi.
L'ultimo misfatto gli "ultrasinistri" lo compiono quando, in una fase assai delicata della Grande Rivolta, entrano in feroce competizione fra di loro per accaparrarsi quanti più studenti e operai era possibile per costruire ciascuno, o a gruppi, il proprio "partito rivoluzionario".
Il loro errore di fondo consiste nell'aver trasportato di peso questo problema fondamentale, e la relativa lotta per risolverlo, che riguarda essenzialmente l'avanguardia rivoluzionaria, all'interno dei movimenti di massa obbligandoli a delle scelte partitiche non ancora mature che li dividevano e li distoglievano da ciò che era oggetto delle loro lotte.
Ne hanno fatti danni gli "ultrasinistri" e gli imbroglioni politici vestiti da rivoluzionari o da marxisti-leninisti! Ma forse il danno più grave e irreparabile è quello di aver compromesso una situazione rivoluzionaria che poche volte si presenta nella storia di un popolo, di aver bruciato delle straordinarie energie rivoluzionarie e di aver dato un'immagine della rivoluzione che non ha nulla a che vedere con la rivoluzione socialista.

VIII. Affinché vi siano altri Sessantotto e il proletariato conquisti il potere politico
Oggi la situazione è radicalmente cambiata rispetto al Sessantotto. La lotta di classe si è affievolita e segna il passo. La classe operaia, le masse lavoratrici e popolari e le nuove generazioni si sono riaddormentate a causa delle forti dosi di riformismo e pacifismo inoculate loro dai riformisti e dai revisionisti.
Questi nel frattempo si sono totalmente liberati del marxismo-leninismo e dei propositi anticapitalistici ed hanno assunto apertamente il liberalismo e il liberismo. Tanto che Zanardo su "Rinascita" ha potuto scrivere tranquillamente che "noi comunisti siamo ormai manifestamente prima e anzitutto liberali e poi comunisti"17.
Cosicché le lotte e i movimenti di massa si muovono e si sviluppano su un piano esclusivamente legalitario, pacifista e costituzionale, raramente avvengono delle rivolte coscientemente anticapitalistiche e antigovernative.
In sintesi, i movimenti operaio, popolare e studentesco sono passati dall'attacco diretto al capitalismo a una fase di ristagno, di disarmo rivoluzionario in cui non si pone più il problema del socialismo e della presa del potere.
L'omologazione imperialista e neoliberale regna sovrana nel mondo, dopo l'intesa controrivoluzionaria tra Reagan e Gorbaciov. Solo qua e là vi sono dei bagliori di resistenza e di riscossa antimperialista.
Eppure siamo ancora nell'epoca dell'imperialismo e della rivoluzione proletaria. Le contraddizioni fondamentali internazionali e nazionali non sono cambiate. Le nuove contraddizioni, come quella ecologica, confermano quelle antiche e irrisolte e mettono ancor più in luce la natura e le responsabilità del capitalismo e dell'imperialismo, e la necessità di combatterli fino ad annientarli.
In Italia siamo a un passaggio cruciale della storia della Repubblica. Negli ambienti politici istituzionali, nelle segreterie dei partiti parlamentari, nei mass media si parla di tutto fuorché di quel che sta avvenendo: un cambiamento fascista del regime capitalistico che non trova la benché minima resistenza nel palazzo e nei partiti della sinistra parlamentare.
Nonostante si siano levate voci autorevoli del palazzo che hanno denunciato che si sta realizzando il "piano di rinascita democratica" della P2, della qual cosa ora si vanta apertamente Licio Gelli.
Un pezzo per volta Craxi e Gelli stanno riportando il fascismo al potere, all'oscuro e all'insaputa delle masse poiché il passaggio di regime non avviene con metodi violenti bensì legalitari, secondo il programma governativo di cui Ciriaco De Mita è garante, e senza una battaglia aperta, chiara ed esplicita dell'opposizione della sinistra parlamentare. E non c'è da aspettarsi che il PCI e DP, comprese le rispettive "sinistre", possano fare qualcosa di serio ed efficace in proposito, in quanto non possono certo denunciare Craxi col quale aspirano a governare insieme.
Solo il PMLI ha osato denunciare fino in fondo e fin dall'inizio il cosiddetto "piano di rinascita democratica" e la "grande riforma" di Craxi che ne è la proiezione a livello politico, parlamentare e governativo.
Già nel nostro Documento del 20 febbraio scorso abbiamo lanciato un forte e motivato allarme antifascista, che rilanciamo ancora una volta invitando la classe operaia, le masse giovanili e femminili e tutte le forze sociali, politiche, sindacali, intellettuali e religiose antifasciste a prendere rapidamente coscienza della pericolosità del disegno di Craxi e Gelli, a mobilitarsi, a far sentire la loro voce e a passare al contrattacco.
Nell'immediato bisogna chiedere l'arresto del capo della P2, l'estromissione dal governo del partito di Craxi, l'esclusione dalle istituzioni, dai partiti e dalle aziende pubbliche e di Stato di tutti coloro che comparivano negli elenchi della P2, il blocco del programma delle cosiddette "riforme istituzionali" e il ripristino in parlamento del voto segreto, la non approvazione della legge antisciopero nei "servizi pubblici essenziali".
Inoltre bisogna respingere senza ulteriori indugi e con fermezza la proposta del neoduce dell'elezione diretta del presidente della Repubblica con la quale egli intende mettere la camicia nera all'Italia e ripetere le gesta del suo maestro Mussolini.
Bisogna avere la consapevolezza, e agire di conseguenza, che il "piano di rinascita democratica" si sta espandendo e realizzando dappertutto. Persino dentro la CGIL, come dimostra l'allucinante processo di stampo fascista promosso dai craxiani e dalla destra del PCI rappresentati da Giovanni Beccaro e Renzo Vigna, segretari generali della Camera del Lavoro della Valsesia, contro l'allora dirigente della F.P.-CGIL della zona, perché ha difeso il diritto di sciopero e ha firmato e appoggiato attivamente una petizione popolare promossa dal PMLI contro la suddetta legge antisciopero, attualmente in discussione alla Camera, sostenuta in primo luogo dal governo, dalla nuova destra e dalla P2.
Un sinistro segnale rivolto contro l'intera opposizione di classe del sindacato.
Purtroppo ormai la Costituzione è già stata abbattuta dalla nuova destra di Craxi e Gelli e con essa la prima Repubblica. Siamo però sempre in tempo, se formeremo un grande fronte unito antifascista, a impedire che la seconda repubblica di fatto già instaurata prenda i caratteri della repubblica presidenziale fascista e imperialista.
L'Italia può avere ancora un altro destino, può essere salvata dal socialismo. La situazione non è compromessa del tutto, si può rimontare la china, lentamente e via via sempre più velocemente.
Bisogna però che i combattenti per il socialismo, sparsi nelle varie formazioni politiche, sindacali, sociali e culturali, comprendano che il loro primo compito è quello di ricreare una coscienza e una mentalità rivoluzionaria nelle masse e di ricostruire di sana pianta i vari movimenti di massa e la CGIL su una base saldamente anticapitalista, antimperialista e antifascista. Ma non ci riusciranno mai se non abbandoneranno una volta per tutte ogni illusione di poter cambiare dall'interno o con spinte esterne il PCI e DP. Ormai questi partiti sono persi per la causa del socialismo e rischiamo di perderli anche per le battaglie antifasciste, e quindi non è più possibile trasformarli.
È tempo sprecato e improduttivo anche quello speso in associazioni e circoli culturali concepiti come surrogati e in alternativa all'attività di partito. Non meno fuorvianti sono i progetti politici, organizzativi ed editoriali legati al Movimento politico e sociale per l'alternativa. Certe esperienze sono già state fatte nel Sessantotto senza alcun risultato positivo, e quindi appare assurdo, se non controrivoluzionario, riproporle oggi.
Il vero problema che si presenta attualmente ai combattenti per il socialismo e a tutti i rivoluzionari non è quello di "rifondare la sinistra", ma quello di rafforzare ed estendere su scala nazionale il PMLI, il vero erede del Sessantotto, l'unico partito che si attiene fermamente alla via dell'Ottobre e che può assicurare alla classe operaia la conquista del potere politico.
La lotta contro il capitalismo e la seconda repubblica e per il socialismo rimarranno solo delle belle parole se i combattenti per il socialismo non si decideranno a spendere la loro vita nel e col PMLI, affrontando con coraggio tutte le conseguenze politiche, sociali e familiari che ciò comporta. Non avendo cioè paura di subire persecuzioni poliziesche, giudiziarie e sindacali, di essere licenziati o di non far carriera nella professione, di essere estromessi o destituiti dagli incarichi sindacali, di subire l'isolamento, l'emarginazione e ogni forma di vessazione e angheria, di perdere finanche gli affetti coniugali e familiari. È un prezzo inevitabile da pagare per chi osa spendere la propria vita per la nobile causa del proletariato e del socialismo, specie quando si è, come oggi, nella fase pionieristica. Ma non c'è cosa più bella ed esaltante di essere tra i pionieri che stanno cercando di aprire la via socialista in Italia.
La scelta di militare nel PMLI è ineludibile e non più procrastinabile per chiunque sta col socialismo e voglia battersi per realizzarlo. Quanto prima sarà fatta tanto più velocemente si rimetteranno in moto le masse e la lotta di classe subirà una svolta rivoluzionaria fino a svilupparsi nella lotta cosciente per il socialismo.
Contrapponiamo al progetto di Craxi di riunire entro il 1992, centenario del PSI, tutte le forze riformiste italiane, l'impegno dei combattenti per il socialismo, dei sinceri rivoluzionari, specie ragazze e ragazzi, di riunirsi tutti quanti nel PMLI ancor prima di quell'infausto evento.
Il Sessantotto non dimostra forse che senza l'unione di tutti i rivoluzionari in un solo Partito marxista-leninista i movimenti di lotta delle masse non possono avere una direzione autenticamente rivoluzionaria proletaria e uno sbocco di classe, socialista?
Quantunque la situazione odierna non veda spinte di massa verso il socialismo, le contraddizioni di classe sono ancora vive e operanti, anche se per ora in forme latenti e non acute, poiché il capitalismo non è riuscito a risolvere, e non vi riuscirà nemmeno in avvenire, tutti i problemi economici, sociali e politici delle masse e non potrà mai abolire lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo e il dominio della borghesia.
La disoccupazione crescente, l'abbandono e la miseria del Mezzogiorno, la torchiatura fiscale, le peggiorate condizioni in fabbrica, i salari e le pensioni bassi, la mancanza di case, gli affitti alti, la penuria di servizi pubblici e sociali, lo sfascio della sanità e della scuola e della Università, nonché l'oppressione capitalistica e della seconda repubblica, l'espansionismo e il militarismo dell'imperialismo italiano e il costo sociale che sarà pagato per l'integrazione dell'Italia nella superpotenza europea, riattizzeranno inevitabilmente il fuoco della lotta di classe.
Dobbiamo quindi fin d'ora lavorare affinché maturi sul piano soggettivo la coscienza che solo il socialismo può emancipare la classe operaia dal capitalismo e dischiuderle le porte del potere politico.
Non è vero, come ha detto il 7 dicembre scorso all'ONU il nuovo teorico mondiale del liberalismo Gorbaciov e ripetono i suoi pappagalli italiani, "che oggi siamo di fronte a un mondo diverso nel quale dobbiamo cercare una nuova strada per il futuro". Così come non è vero, come afferma il manifesto neoliberale del PCI adottato per il XVIII Congresso nazionale, che "la democrazia è la via del socialismo".
Non esistono infatti né in teoria né in pratica vie diverse a quella dell'Ottobre capaci di portare il proletariato al socialismo. Le "nuove strade", via via proposte dai socialdemocratici di destra e di "sinistra" dei vari paesi, tutte quante incentrate, e non sarà certo un puro caso, sul rispetto della democrazia e delle libertà borghesi, costituzionali e parlamentari non hanno fatto altro che ingannare e illudere i lavoratori e rafforzare le catene del capitalismo.
Non c'è bisogno di scervellarsi tanto per cercare, o far finta di cercare, la via di uscita dal capitalismo. Ci ha già pensato Marx, e molto bene poiché le sue indicazioni sono già state sperimentate con successo nella pratica da parte di Lenin, Stalin e Mao, quando ha detto che "Socialismo è la dichiarazione della rivoluzione in permanenza, la dittatura di classe del proletariato, quale punto di passaggio necessario per l'abolizione delle differenze di classe in generale, per l'abolizione di tutti i rapporti di produzione su cui esse riposano, per l'abolizione di tutte le relazioni sociali che corrispondono a questi rapporti di produzione, per il sovvertimento di tutte le idee che germogliano da queste relazioni sociali"18.
Su questa base, e sull'esperienza internazionale della dittatura del proletariato e sulla stessa esperienza del movimento operaio italiano, noi abbiamo elaborato il disegno fondamentale del socialismo italiano, che intendiamo portare avanti e sul quale vogliamo aprire un dialogo e un confronto con tutti i combattenti per il socialismo e i sinceri rivoluzionari.
Non facciamoci suggestionare e turlupinare da Craxi. Ci sono cascati Occhetto e tutto il gruppo dirigente neoliberale del PCI definendo il socialismo una "ispirazione ideale", ma non deve cascarci chi ha un briciolo di conoscenza del marxismo-leninismo e della storia del movimento operaio internazionale.
Ebbene, il grande calvo parlando ai giovani del suo partito ha confessato: "Io non ho mai pensato, o meglio, non penso più da un pezzo che il socialismo sia una sorta di dottrina, o di ideologia alla quale rigidamente attenersi"19.
E invece sì, egregio signore, il socialismo è una dottrina e un'ideologia ben chiare e definite - e non degli elastici che possono essere tirati dagli opportunisti e dai rinnegati secondo le necessità della borghesia -, concepite proprio per salvaguardare la natura di classe della società del proletariato e dei lavoratori. Ma non, come vuol far intendere il neoduce, una dottrina morta e un dogma.
Da Marx e Engels, a Lenin e Stalin, a Mao, il socialismo come dottrina, ideologia e opera compiuta ha avuto un enorme sviluppo e ancora ne avrà via via che si realizzeranno altre esperienze socialiste.
Si abbia allora il coraggio e l'orgoglio rivoluzionari di gridare in faccia ai signori del palazzo e ai rinnegati di tutte le risme e di ogni collocazione partitica che il socialismo è e sarà sempre la bandiera di combattimento e la méta degli sfruttati e degli oppressi d'Italia e del mondo.
Si scenda apertamente nell'arena politica, ci si misuri con le difficoltà, le asperità e i sacrifici che comportano la lotta di classe e si dia battaglia frontale alla borghesia, al governo e ai loro lacché. In modo da accendere al più presto, una volta accumulate le forze necessarie, la lotta per il socialismo, consapevoli che la questione centrale della lotta di classe è la conquista e il mantenimento del potere politico da parte della classe operaia, e che questa questione si risolve solo abbattendo il capitalismo e la sua sovrastruttura e realizzando il socialismo.
Della Costituzione vigente dobbiamo difendere tutto ciò che serve a contrastare il passo alla seconda repubblica e utilizzare quello che serve allo sviluppo della causa del socialismo, facendo però bene attenzione a non acquattarci su di essa, che vorrebbe dire tornare indietro, assumere una posizione arretrata pre e anti Sessantotto e sabotare la lotta per il socialismo.
Per non cadere in errore bisogna avere chiaro in testa quello che ha detto Marx, e cioè che "il dominio borghese come emanazione e risultato del suffragio universale, come espressione della volontà popolare sovrana, questo è il significato della Costituzione borghese"20.
Per quanto si debba lottare oggi contro la seconda repubblica, la nostra battaglia deve necessariamente svilupparsi su un terreno rivoluzionario, anticapitalista e antistituzionale, e non solo antifascista, guardando in avanti, verso il socialismo. Questo anche se certe forze democratiche alleate non sono disposte, almeno al momento, a seguirci fino al socialismo. Altrimenti, al di là delle nostre buone intenzioni, faremo il gioco delle forze anticraxiane che non vogliono andare oltre i limiti costituzionali e della prima Repubblica, anche se questa, come abbiamo già visto, non esiste più.
Certamente tutto ciò non è facile da comprendere se la nostra coscienza politica è ancora offuscata, anche se in un solo angolino, dal riformismo, dalla democrazia borghese e dal costituzionalismo. È perciò necessario fare immediatamente pulizia ideologica nella nostra mente, per riordinare le idee conservando quelle rivoluzionarie ed espellendo quelle controrivoluzionarie e per acquisire una mentalità e un atteggiamento politico veramente proletari e rivoluzionari.
Per fare bene e a fondo questa pulizia ideologica e rivoluzionare la nostra mentalità, non c'è altro modo che ricorrere al marxismo-leninismo-pensiero di Mao, e non solo al marxismo o al "marxismo moderno e innovato" o al "marxismo rivoluzionario", come sostengono i vecchi opportunisti di "sinistra" ora riciclati.
Chi non l'ha ancora fatto deve quindi ritornare, o andarci per la prima volta, alle sorgenti perenni e non inquinate del marxismo-leninismo-pensiero di Mao e disintossicarsi dal veleno antimarxista-leninista ingurgitato inavvertitamente.
Come è possibile infatti capire la realtà così complessa di oggi, la natura e gli sviluppi delle contraddizioni di classe, i compiti odierni dei rivoluzionari, combattere il capitalismo e la sua cultura e ideologia e trasformare il mondo e se stessi se non si possiede un briciolo di marxismo-leninismo-pensiero di Mao?
Alcuni rivoluzionari fanno sfoggio culturale. Ma di quale cultura si tratta? Sanno citare un elenco di autori borghesi ma non un solo brano di Marx, Engels, Lenin, Stalin e Mao.
Evidentemente non hanno ancora capito che nel mondo esistono solo due ideologie, quella proletaria e quella borghese, e che perciò non si può stare con un piede di qua e uno di là. L'eclettismo non è una posizione proletaria rivoluzionaria ma opportunistica, confusionaria e di comodo. Bisogna scegliere l'ideologia della classe cui si appartiene o si vuol servire e respingere e combattere l'altra. Specie attualmente in cui è necessario che l'avanguardia e i rivoluzionari coscienti e tramite loro le larghe masse riscoprano, e se ne riapproprino, la cultura proletaria rivoluzionaria.
Il concetto fondamentale delle due ideologie antagonistiche e della necessità che il Partito del proletariato porti l'ideologia socialista alla classe operaia, è già stato spiegato con una straordinaria forza di convincimento da Lenin nella sua grande opera "Che fare", all'inizio del secolo.
L'artefice principale della Grande Rivoluzione Socialista di Ottobre, questo gigante del pensiero e dell'azione rivoluzionari, questo grande maestro ed educatore del proletariato internazionale - la cui figura e opera non sono state nemmeno scalfite dall'infame, ignobile e calunniosa opera televisiva-cinematografica di Craxi-Damiani-Bettiza -, mentre infuriava la lotta dei marxisti-leninisti contro gli economicisti, gli spontaneisti e i terroristi russi, così scriveva: "Dal momento che non si può parlare di una ideologia indipendente, elaborata dalle stesse masse nel corso stesso del loro movimento, la questione si può porre solamente così: o ideologia borghese o ideologia socialista. Non c'è via di mezzo (poiché l'umanità non ha creato una 'terza' ideologia, e, d'altronde, in una società dilaniata dagli antagonismi di classe, non potrebbe mai esistere una ideologia al di fuori o al di sopra delle classi). Ecco perché ogni menomazione dell'ideologia socialista, ogni allontanamento da essa implica necessariamente un rafforzamento dell'ideologia borghese. Si parla della spontaneità; ma lo sviluppo spontaneo del movimento operaio fa sì che esso si subordini all'ideologia borghese, che esso proceda precisamente secondo il programma del 'Credo', perché il movimento operaio spontaneo è il tradunionismo, la Nur-Gewerkschaftlerei, e il tradunionismo è l'asservimento ideologico degli operai alla borghesia. Perciò il nostro compito, il compito della socialdemocrazia, consiste nel combattere la spontaneità, nell'allontanare il movimento operaio dalla tendenza spontanea del tradunionismo a rifugiarsi sotto l'ala della borghesia; il nostro compito consiste nell'attirare il movimento operaio sotto l'ala della socialdemocrazia rivoluzionaria. (...)
Ma perché - domanderà il lettore - il movimento spontaneo, il movimento che segue la linea del minimo sforzo, conduce al predominio dell'ideologia borghese? Per la semplice ragione che
- continua Lenin - per le sue origini, l'ideologia borghese è ben più antica di quella socialista, essa è meglio elaborata in tutti i suoi aspetti e possiede una quantità incomparabilmente maggiore di mezzi di diffusione. E quanto più giovane è il movimento socialista di un determinato paese, tanto più energica deve essere la lotta contro tutti i tentativi di consolidare l'ideologia non socialista, tanto più risolutamente bisogna premunire gli operai contro i cattivi consiglieri che gridano alla `sopravvalutazione dell'elemento cosciente"'. In una nota aggiunta, Lenin sottolinea: "La classe operaia va spontaneamente al socialismo, ma l'ideologia borghese, che è la più diffusa (e che risuscita costantemente nelle più svariate forme), resta pur sempre l'ideologia che, spontaneamente, soprattutto s'impone all'operaio"21.
Da qui si dovrebbe definitivamente comprendere quanto il marxismo-leninismo sia necessario ai marxisti-leninisti e a tutti i combattenti per il socialismo affinché la classe operaia, le masse e le nuove generazioni escano dalla subalternità ideologica e culturale borghese, come condizione imprescindibile allo sviluppo della lotta di classe per il socialismo.
Come dimostra la pratica nazionale e internazionale, il marxismo-leninismo-pensiero di Mao è l'arma ideologica più potente che possiede il proletariato. Impugnamola con forza e fiducia coscienti che quando questa teoria rivoluzionaria si incontrerà e si fonderà con le masse in lotta potranno scoppiare altri Sessantotto e alla fine il proletariato conquisterà il potere politico. E allora nascerà in Italia una nuova società in cui, attraverso la costruzione del socialismo e man mano che ci inoltreremo nella fase successiva del comunismo, scompariranno le classi e la lotta di classe, ogni differenza e disuguaglianza economica, sociale e di sesso, e finanche ogni forma di violenza, il Partito e lo Stato, se in tutto il mondo verrà estirpato l'imperialismo.
Viva la Grande Rivolta del Sessantotto!
Combattenti per il socialismo di tutta Italia, unitevi nel PMLI!
Proletari, lavoratori, masse popolari, femminili e giovanili, unitevi sotto le grandi bandiere rosse del socialismo, dell'antimperialismo, dell'antifascismo e del PMLI!
Viva, viva, viva l'invincibile marxismo-leninismo-pensiero di Mao!

Il Comitato centrale del PMLI

Firenze, 14 dicembre 1988


NOTE

1 Abbandonate le illusioni, preparatevi alla lotta - 14 agosto 1949 - Opere scelte - vol. IV, pag. 433.
2 Discorso pronunciato il 22.5.88 all'Assemblea nazionale della FGS.
3 La corsa nei sacchi in "Micromega" n.1 del 1988.
4 Formidabili quegli anni, Rizzoli, pag. 145.
5 Intervista a "L'espresso", supplemento al n. 3 del 25.1.88.
6 Intervista a "L'espresso", supplemento al n. 3 del 25.1.88.
7 L. Cortese - Il movimento studentesco, Bompiani, 1973, pagg. 20-21.
8 AA.VV. - Profili dell'Italia repubblicana, Editori Riuniti, 1985, pag. 445.
9 Fim, Fiom, Uilm - Repressione, Tridalo, 1970, pagg. 152-153.
10 AA.VV. - Il ruolo dei giovani comunisti - Breve storia della FGCI, Guaraldi, 1976, pag. 93.
11 Intervento su "Il Contemporaneo", supplemento di "Rinascita" del maggio 1968.
12 Achille Occhetto - Discorso ad Aosta del 16.6.68, riportato il giorno successivo su "l'Unità".
13 Relazione al Convegno di Ariccia PCI-FGCI sul tema "Movimento operaio e movimento studentesco", 29-30 novembre-1 dicembre 1968.
14 La guerra civile in Francia - 30 maggio 1881 - Opere scelte - Edizioni in lingue estere, Mosca, pag. 449.
15 Relazione pubblicata sotto il titolo "Avanguardia e massa" in "Giovane critica", n. 19, inverno 1968-1969, e in "Monthly Review" nn. 3-4 marzo-aprile '69 col titolo "Sull'Organizzazione".
16 Mao - "Forze rivoluzionarie di tutto il mondo, unitevi per combattere l'aggressione imperialista!" - novembre 1948 - Opere scelte, vol. IV, pag. 292.
17 Gli steccati non ci sono più. C'è chi vuole rialzarli, in "Rinascita" n. 32 del 10.9.88, pag. 13.
18 Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850 - cap. III, marzo 1850 - Opere complete - Editori Riuniti, pag. 126.
19 Discorso già citato alla nota 2.
20 Op. cit. alla nota 18, pag. 130.
21 Che fare? - autunno 1901 - febbraio 1902 - Opere complete - Editori Riuniti, pagg. 354-356.