Nella discussione alla Camera sul Dpef governativo
MASSIMO D'ALEMA RILANCIA I TAGLI ALLE PENSIONI E LA CONTRORIFORMA COSTITUZIONALE
Il capofila dei rinnegati determinato a completare la seconda repubblica neofascista, presidenzialista, federalista e interventista, a distruggere lo "Stato sociale" e a rendere competitiva l'economia capitalista italiana

Il 6 e 7 luglio si è svolto alla Camera il dibattito sulle comunicazioni del governo sulla situazione politica, economica e sociale del Paese. Un passaggio critico per il governo del rinnegato D'Alema, chiamato a misurare la tenuta della sua maggioranza sul Documento di programmazione economica e finanziaria, e a riferire sullo stato di avanzamento della controriforma costituzionale, in un clima reso più instabile dalla batosta elettorale subìta dal "centro sinistra" e dalle polemiche suscitate dall'ipotesi di nuovi tagli alle pensioni.
Nel presentare con la sua relazione le linee guida che il governo intende seguire per la cosiddetta "fase due" del suo mandato, D'Alema ha iniziato con un richiamo ruffiano ai rapporti di "sincerità e concretezza" realizzati col parlamento in occasione della guerra imperialista contro la Jugoslavia: "Il Paese è stato all'altezza della prova; non si è sottratto ai propri impegni e alle proprie responsabilità. Ed oggi anche in virtù di questa coerenza il nostro prestigio nel mondo risulta accresciuto", ha detto D'Alema cercando furbescamente di resuscitare per l'occasione almeno in parte quello spirito di solidarietà nazionalistica che il parlamento gli aveva accordato per la guerra.
Tanto più forte e insistito è stato l'accento che ha posto sul criminale intervento militare italiano nei Balcani, quanto più sfumata, elusiva e di pura circostanza è stata la posizione espressa sulla condanna a morte di Ocalan da parte dei boia turchi (il governo era chiamato anche a rispondere su questa vicenda) e sulla repressione fascista della lotta del popolo curdo, che D'Alema ha frettolosamente sbrigato con un richiamo ipocrita al "rispetto dei diritti umani e dei diritti delle minoranze", bilanciato però dalla condanna del "terrorismo" curdo e da ripetute espressioni di servile "amicizia" verso il governo fascista turco.
Dopo questa premessa il presidente del Consiglio ha messo l'accento sull'argomento che ormai costituisce una sua vera e propria ossessione, che è quello della "modernizzazione" del Paese per reggere la competizione capitalista a livello europeo e mondiale: "L'integrazione implica competizione - ha detto infatti - e chi non possiede le risorse fondamentali per competere - umane, tecnologiche, sociali - è destinato a perdere posizioni, influenza e prestigio. Questa è la sfida che abbiamo raccolto". Su questa base D'Alema ha indicato le tre direttrici su cui intende muoversi nei prossimi mesi, che sono, secondo le sue stesse parole: "L'impegno per dare al paese istituzioni efficienti e moderne", "lo sviluppo della nostra economia, la ripresa di una crescita stabile e il rilancio dell'occupazione", la "riforma del Welfare", con un "riequilibrio della spesa sociale".

AVANTI CON LE "RIFORME POSSIBILI"

Riguardo alla controriforma neofascista, presidenzialista e federalista della Costituzione, D'Alema ha sottolineato che la sua "vocazione (a realizzarla, ndr) non è mai venuta meno", e che la "brusca interruzione" della Bicamerale non ha impedito nel corso dell'ultimo anno "di procedere lungo la strada di riforme significative, ancorché parziali e limitate". Tra queste ha ricordato la "riforma" dell'articolo 48 della Costituzione, con il diritto di voto per gli italiani all'estero (particolarmente caldeggiata dai fascisti di AN, ndr), quella sulla forma del governo regionale e sull'elezione diretta dei presidenti di regione, e la revisione dell'articolo 111 della Costituzione, sul cosiddetto "giusto processo": un cavallo di battaglia, quest'ultimo, da tempo cavalcato dalla destra neofascista e in particolare da Berlusconi. D'Alema ha poi ricordato la "riforma" federalista dello Stato, già in fase avanzata, e l'intenzione del suo governo, infischiandosene dell'esito del referendum, di procedere sulla strada della "riforma" elettorale maggioritaria neofascista.
Il capofila dei rinnegati si è poi vantato di aver determinato con l'azione del suo governo la presunta "ripresa" economica che è stata strombazzata alla vigilia delle elezioni, citando l'aumento di 282 mila occupati nel secondo trimestre di quest'anno, risultato che però, ha dovuto ammettere, "è stato determinato in larga misura dall'introduzione di nuove forme di flessibilità": leggi lavoro a tempo parziale, contratti a termine, mano d'opera in affitto, in una parola lavoro precario e supersfruttato. Su questa base ha illustrato le linee guida e le cifre del suo Dpef (documento di programmazione economica e finanziaria), calcando particolarmente l'accento sull'obbligatorietà della stangata per "rispettare gli impegni finanziari assunti in ambito internazionale", cioè il micidiale "Patto di stabilità" a cui ogni paese che ha aderito all'Euro è tenuto ad osservare rigidamente: "Non vorrei - ha detto rivolto sprezzantemente a quanti, all'interno della sua stessa maggioranza, avevano avanzato qualche timida proposta di richiedere un allentamento a livello europeo dei vincoli del Patto per favorire l'occupazione - che si ritornasse a una logica del passato, cioè che la sensazione che le cose vadano meglio ci spingesse a tornare ai vecchi metodi: credo che sarebbe un errore e comunque il governo non intende muovere in tale direzione".

DISCUTERE "SENZA TABU" ANCHE DI PREVIDENZA

Infine il capofila dei rinnegati è venuto al dunque, e cioè alla questione scottante della "riforma" dello "Stato sociale" e dei tagli alla previdenza. Prendendola larga e facendo pure la vittima, tecnica a cui questo consumato politicante-attore ricorre tutte le volte che deve difendere le sue scelte neofasciste, stangatrici e interventiste, D'Alema ha negato che il suo governo "abbia in mente una politica di tagli o di abbattimenti dello Stato sociale", ha aggiunto di vivere "con sincera preoccupazione e sofferenza (sic!)" le critiche rivoltegli in questo senso, e di voler in realtà non distruggere ma "rendere lo Stato sociale più equo, più inclusivo verso le istanze di quelli che autenticamente sono i più deboli" e...bla, bla, bla.
Ma in buona sostanza, pur spergiurando di volere assolutamente attenersi al metodo della "concertazione", ha confermato caparbiamente la volontà di andare fino in fondo nel proposito iniziale di mettere mano alle pensioni già con la prossima Finanziaria di settembre: "La nostra scelta - ha detto infatti in risposta sia alla Confindustria, che lo sprona ad andare avanti anche senza il consenso dei sindacati, sia alle resistenze di questi ultimi ad anticipare il confronto sulle pensioni previsto per il 2001 - non è tra don Chisciotte e don Abbondio, tra il cinismo di chi lascia le cose come stanno o la velleità di chi proclama cambiamenti che non è in grado di portare avanti. In realtà quello che non possiamo fare è fingere che i problemi non esistano".
Ai vertici sindacali D'Alema manda in ogni caso a dire che di qui alla Finanziaria c'è il tempo di discutere con le parti sociali "anche in materia di previdenza senza tabù". Dopodiché - aggiunge tanto minaccioso verso Cgil, Cisl e Uil quanto rassicurante per la Confindustria - "com'è giusto, alla fine di questo percorso si faranno le scelte che avranno raccolto il consenso più largo e che, soprattutto, avranno il consenso politico necessario per diventare provvedimenti effettivi".

UNA MAGGIORANZA ALLO SBANDO

Il dibattito, con gli interventi e le dichiarazioni di voto dei gruppi parlamentari, ha messo in evidenza le difficoltà in cui sta navigando il governo, con una maggioranza sempre più sfilacciata, depressa e litigiosa, e un'opposizione del Polo altrettanto litigiosa ma ringalluzzita dai rovesci elettorali del "centro sinistra". Già dai vasti vuoti in tutti i settori dell'aula, e dall'ostentazione di distrazione e di noia con cui i pochi deputati presenti hanno seguito le comunicazioni di D'Alema, si è avuta la misura eloquente di questo clima di disfattismo che minaccia la stessa sopravvivenza del governo. Molti degli interventi di esponenti della maggioranza, dal "democratico" Di Pietro al verde Scalia, da Mastella, a Buttiglione, a Boselli, ecc., con motivazioni svariate e anche opposte, sono suonati formalmente solidali ma concretamente di critica e di presa di distanza dalle tesi del presidente del Consiglio. C'era insomma in aula la sensazione palpabile di una maggioranza ormai allo sbando, dove ognuno pensa ormai per sé e dove regna sempre più il sospetto e la pugnalata alle spalle, come e forse più che ai "bei tempi" dei governi della prima repubblica.
Tutto ciò ha costretto il rinnegato D'Alema, nella replica, ad un surplus di argomentazioni per tentare un improbabile ricompattamento della maggioranza e perfino dell'opposizione attorno alla sua politica della controriforma costituzionale, stangatrice e interventista. Talché, da una parte, per ingraziarsi la destra neofascista si è slanciato di nuovo in una disgustosa esaltazione della politica estera militarista e interventista dell'Italia, nonché del rafforzamento dell'imperialismo europeo anche sul piano militare, interventista ed espansionista; dall'altra è ritonfato sul tema della necessità di "affrontare senza tabù il confronto con le forze sociali su tutti i temi" (quindi compreso le pensioni, ndr), da portare avanti "con serenità, senza forzature ma anche con la necessaria determinazione".
"Noi non avremmo mai vinto la sfida dell'Europa - ha sottolineato D'Alema a tale proposito - se non avessimo avuto un sindacato che - unico caso in Europa - ha accettato che per risanare il paese le retribuzioni crescessero meno dell'inflazione, con una scelta di responsabilità nazionale di cui credo sarebbe sbagliato non dare atto". Il capofila dei rinnegati cerca insomma per l'occasione di resuscitare, in appoggio al suo infame attacco finale a ciò che resta dello "Stato sociale" e al suo progetto di "modernizzazione" liberista del Paese, quello spirito neocorporativo che ha permesso al capitalismo italiano di entrare nel club imperialista dell'euro, sulla pelle della classe operaia, delle masse popolari e del Mezzogiorno.