Contro le colonie e la nuova sinagoga
Esplode la rabbia dei palestinesi a Gerusalemme

Il 16 marzo a Gerusalemme migliaia di palestinesi hanno manifestato e si sono scontrati con gli occupanti sionisti per protestare contro i progetti del governo Netanyahu di costruire altri 1.600 alloggi per i coloni nella parte orientale della città. Le proteste erano iniziate in Cisgiordania e a Gaza nei giorni successivi l'annuncio dato dal regime sionista il 9 marzo scorso fino all'esplosione della rabbia palestinese nella "giornata della collera" indetta da Hamas e dalle organizzazioni islamiche per il 16 marzo, in occasione dell'annunciata inaugurazione di una nuova sinagoga nel rione ebraico della Città Vecchia di Gerusalemme, nei pressi della Spianata delle Moschee.
Hamas aveva invitato "tutto il popolo palestinese a celebrare un giorno della rabbia contro le politiche di occupazione a Gerusalemme e nei confronti della moschea di al-Aqsa", il terzo luogo più sacro dell'islam. Nella città palestinese si espandono senza soluzione di continuità le colonie sioniste mentre vengono distrutte le case dei palestinesi per costituire quell'annessione di fatto della città che il primo ministro sionista Benjamin Netanyahu ritiene "la nostra capitale", come ha ribadito senza essere smentito il 23 marzo a Washington alla vigilia del suo colloquio con Obama. "Tutto il mondo sa che questi quartieri (dove Israele pianifica le costruzioni, ndr) saranno parte di Israele in qualunque accordo di pace. Quindi, costruire in quelle zone non impedisce la possibilità di una soluzione a due Stati". Ossia la fallimentare proposta imperialista che spiana la strada al rafforzamento dell'occupazione sionista della Palestina contro i diritti dei palestinesi. La soluzione non può che essere quella di un solo Stato in Palestina.
La costruzione delle nuove case a Ramat Shlomo tra l'altro completerebbe l'accerchiamento, assieme ai due grandi insediamenti esistenti di Pisgat Zeev e Neve Yakov, dei quartieri palestinesi di Shua'fat e Bet Hanina, nella parte orientale della città occupata nel 1967 e che secondo il diritto internazionale deve essere restituita ai palestinesi, dato che Gerusalemme non è affatto riconosciuta come "capitale" come pretendono i sionisti.
L'esercito di Tel Aviv aveva sigillato la Cisgiordania fin dal 13 marzo per impedire che manifestanti arrivassero a Gerusalemme da tutta la regione. Oltre 3 mila poliziotti bloccavano gli ingressi alla Spianata delle Moschee. In una città blindata la rabbia palestinese trovava sfogo in diversi quartieri periferici di Abu Dis, Isawiyah e Wadi Joz e presso il campo profughi di Shoafat. Negli scontri 91 palestinesi restavano feriti, una sessantina gli arrestati. Altre manifestazioni di protesta si svolgevano nella città di Gaza dove i manifestanti convergevano di fronte al parlamento palestinese.
Il vice presidente dell'ufficio politico di Hamas, Mussa Abu Marzuk, in una dichiarazione rilasciata alla televisione Al Jazeera rivolgeva un appello ai palestinesi perché lancino una terza Intifada per "sventare un complotto sionista" volto a "impadronirsi di Gerusalemme" ed "espellere tutti i musulmani e cristiani". Il leader politico di Hamas, Khaled Meshaal, da Damasco esortava "ogni palestinese a resistere con ogni mezzo alle aggressioni israeliane contro i luoghi santi islamici" e l'Autorità Palestinese a "interrompere tutti i negoziati con il nemico sionista".
Contro la decisione del governo di Tel Aviv si pronunciava anche Hanin Zuabi, parlamentare araba della Knesset, che denunciava come "le politiche di Netanyahu equivalgono a una pulizia etnica e rappresentano l'incentivo più forte per una terza intifada".

24 marzo 2010