Ammessi i contratti di lavoro di 65 ore settimanali
L'europarlamento mette indietro di oltre un secolo la lancetta dell'orario di lavoro
D'accordo Cgil, Cisl e Uil e D'Alema
L'orario di lavoro vincolato alle esigenze dei padroni

E' da tempo che il grande padronato ha lanciato in progressione una pesante offensiva per rendere flessibile e allungare l'orario di lavoro, giornaliero e settimanale, talvolta senza i dovuti incrementi salariali, col pretesto della globalizzazione dei mercati e della competitività portata agli estremi, allo scopo di ottenere i profitti massimi. In testa a questa offensiva troviamo in particolare le grandi aziende collocate in Francia e Germania. Gravissimi in questo senso risultano gli accordi che nel 2004 sono stati firmati con i sindacati: alla Siemens, con l'allungamento dell'orario da 35 a 40 settimanali a parità di salario; alla Bosh di Venisseux, con l'aumento di un'ora settimanale senza indennizzo; alla Daimler-Crysler di Sindelfingen, dove l'orario di lavoro è stato alzato da 35 a 40 ore; alla Opel di Eisenach la settimana lavorativa è diventata improvvisamente di 47 ore, pena il licenziamento di 6 mila lavoratori. Solo per citare quelli più significativi, tutti imposti con il ricatto del trasferimento delle attività in paesi, come l'Ungheria, la Polonia, la Romania, dove i "costi del lavoro" sono più bassi, i diritti sindacali sono ridotti al minimo e il conflitto sociale è praticamente assente.

Gli emendamenti di Cercas
A dare una provvidenziale mano ai grandi capitalisti è arrivata ora una direttiva sull'orario di lavoro approvata a maggioranza, in prima battuta, dall'Europarlamento l'11 maggio scorso, che rende il lavoro ancora più flessibile, permette a determinate condizioni il passaggio della settimana lavorativa dalle attuali 48 a 65 ore, obbliga i lavoratori a sottostare alle esigenze dei padroni. Ed è curioso, ma poi non tanto, che il provvedimento sia arrivato in porto con il contributo determinante del gruppo socialista e con il consenso dei sindacati europei riuniti nella Ces, ivi compresi Cgil, Cisl e Uil. Ma appoggiato anche, e questo dovrebbe pur dire qualcosa, da numerosi esponenti di "centro-destra". I voti a favore sono stati 345, i contrari 264, 43 le astensioni.
Ma vediamo nel dettaglio com'è andata. La Commissione diretta dal successore di Prodi, l'esponente di "centro-destra" Barroso, aveva messo a punto una direttiva sull'orario di lavoro iperliberista, all'insegna della totale deregolamentazione e delle flessibilità, in sostituzione, in senso peggiorativo, di quella in vigore dal 1993. A tale direttiva il socialista spagnolo Alejandro Cercas ha presentato degli emendamenti a suo dire migliorativi: "Non è l'Europa che deve adattarsi al modello asiatico - ha detto con una buona dose di demagogia - ma l'Asia che deve conformarsi al modello europeo". Peccato però che alle parole non siano seguiti i fatti. Peccato che questi miglioramenti siano solo apparenti.
Il punto più controverso della direttiva è senza dubbio quello chiamato opting out molto in voga nel Regno Unito e ora invocato anche da Germania, Polonia, Slovacchia, Malta e Lettonia. Si tratta di un meccanismo che dà la possibilità al lavoratore di rinunciare al limite dell'orario di lavoro settimanale di 48 ore alzandolo fino a 65 ore. Ma più che di volontarietà, in moltissimi casi è pura imposizione col ricatto del posto di lavoro. Vero è che il parlamento europeo ha deciso la sua abrogazione in 36 mesi dall'entrata in vigore della direttiva. Il che significa che per i prossimi tre anni, tutti i paesi della Ue potrebbero allungare la settimana a quel tetto disumano.
Non è dunque vero, almeno per il presente e il futuro prossimo, che in Europa non si può lavorare più di 48 ore. E non è tutto. La direttiva contiene altri aspetti assai negativi che possono portare e porteranno, se non sarà modificata in sede di approvazione definitiva, a una flessibilità della giornata lavorativa teorica fino a 13 ore. Come? Portando a 12 mesi il calcolo dell'orario settimanale di 48 ore (ma possono anche essere 65), mentre la norma in vigore parla di quattro mesi. Poiché non si parla più del limite orario giornaliero, ma solo di pausa tra un turno e l'altro, non inferiore a 11 ore, questo significa che, tutto sommato, le restanti 13 potrebbero essere lavorative; ciò unicamente in base alle esigenze aziendali.
Odiosa e penalizzante per i lavoratori risulta anche la distinzione artificiosa introdotta tra le ore dette di reperibilità o di guardia, definite attive e inattive, che l'Europarlamento vorrebbe includere solo in minima parte nel conteggio delle 48 ore settimanali e retribuire meno, nonostante che la Corte europea di giustizia abbia per ben tre volte sentenziato la scorrettezza di questa posizione.
Se l'intento è, come si evince chiaramente dai punti sopracitati, di aumentare le flessibilità del lavoro, ampliare il limite dell'orario di lavoro consentito giornalmente e settimanalmente, ridurre il "costo del lavoro" alle aziende e dunque accentuare lo sfruttamento dei lavoratori, sottoponendoli al rischio di maggiori infortuni sul lavoro, non si capisce davvero come i vertici sindacali confederali italiani, e come i leader dell'Ulivo, esempio D'Alema, possano appoggiare questa direttiva. Né come taluni esponenti del gruppo parlamentare europeo sedicente "comunista" abbiano potuto astenersi. Gian Paolo Patta, responsabile del segretariato Europa della Cgil, nonché leader di "Lavoro Società-cambiare rotta" ha persino parlato di vittoria sui "tentativi della Commissione Barroso di intensificare e prolungare l'orario di lavoro". La loro tesi è che si tratta del "male minore" rispetto all'originaria direttiva Barroso. Insomma si accontentano di un liberismo temperato che comunque peggiora e non di poco le condizioni dei lavoratori.

Il giudizio della Fiom
Assai diverso il parere della segreteria nazionale della Fiom, la quale il 10 maggio aveva inviato agli europarlamentari una lettera per chiedere di modificare la direttiva su quattro aspetti prioritari per rimuovere un giudizio sulla direttiva complessivamente negativo. A cose fatte Sabina Petrucci, responsabile dell'Ufficio Europa della Fiom ha confermato il giudizio negativo. La possibilità di sperimentare per tre anni l'opting out individuale non può certo essere spacciato per un grande successo, dice. Sulle "guardie", la mediazione proposta da Cercas sulla distinzione tra ore attive e ore inattive - aggiunge - rappresenta un chiaro arretramento rispetto alle sentenze emesse in proposito dalla Corte di giustizia secondo cui tutte le ore di guardia vanno considerate effettive. Quanto alle 48 ore su base annua, il rinvio alla contrattazione nazionale fa solo ridere, è la sua conclusione. Visto che, a parte l'Italia e la Germania, negli altri Paesi europei la contrattazione si svolge a livello aziendale o per figure professionali. Per la segreteria Fiom, insomma, gli emendamenti approvati non cambiano la natura della direttiva che rimane di stampo liberista e mette il tempo dei lavoratori a disposizione delle imprese e rende accessorio il ruolo del sindacato.

Cancellati anni di lotte
Noi la pensiamo come la Fiom. Il nostro parere è anzi ancora più severo. Gli europarlamentari di destra e di "sinistra" con questa direttiva, che fa il paio con l'altra direttiva super liberista, la Bolkeistein che vorrebbe liberalizzare tutti i servizi e scardinare le tutele contrattuali, hanno cancellato anni e anni di lotte dei lavoratori per la giornata di lavoro di otto ore e per la settimana lavorativa di 35 ore. Hanno riportato indietro di oltre un secolo le lancette dell'orario di lavoro. Esattamente a un'inchiesta del 1877 sulle fabbriche che registrava una media di 11-12 ore al giorno di lavoro effettivo. Mentre nelle piccole imprese si lavorava generalmente 15-16 ore al giorno. Oppure al 1893 allorché gli operai delle filiere del bergamasco conquistarono, primi in Italia, la giornata lavorativa di 10 ore d'inverno e di 11 ore d'estate.
A seguito di una straordinaria battaglia condotta dalle mondine, il governo di allora era costretto nel 1907 a emanare una legge che stabiliva la durata massima del lavoro giornaliero a 9-10 ore. Nel 1923 il movimento sindacale ottenne l'orario di otto ore e quello settimanale a 48. Le prime riduzioni a 40 ore furono conquistate nei primi anni '70 con i contratti di categoria. Bisognerà arrivare però al 1997 per generalizzare la conquista contrattuale delle 40 ore a tutto il mondo del lavoro.
Nel 2003, il governo del neoduce Berlusconi, dando una interpretazione restrittiva e filopadronale delle norme europee, vara il decreto legge 66 che annulla le condizioni di miglior favore presenti nel nostro ordinamento e limita l'autorità del contratto nazionale di lavoro. Decreto che inizia a sfondare il tetto delle 40 ore settimanali per portarlo a 48, ad adottare il calcolo della durata media dell'orario spalmato in quattro mesi, a individuare una lunga lista di deroghe peggiorative per molte categorie professionali.
In futuro, nel caso che la nuova direttiva europea sull'orario di lavoro fosse approvata dall'Europarlamento in modo definitivo in seconda seduta, prevista per l'autunno prossimo, governo e padronato, c'è da scommetterci, torneranno alla carica per peggiorare ulteriormente le regole legislative e contrattuali. Vi è già un'avvisaglia significativa da parte di Federmeccanica che, in sede di rinnovo contrattuale dei metalmeccanici, pretende nuove flessibilità e prolungamento della giornata lavorativa.

25 maggio 2005