Evviva la Giornata internazionale dei lavoratori
Alziamo la bandiera del 1° Maggio contro il capitalismo, per il socialismo

di Emanuele Sala*
Evviva il 1° Maggio, Giornata internazionale dei lavoratori!
In modo militante auguriamo un buon 1° Maggio a tutti popoli del mondo sfruttati e oppressi, in particolare ai popoli palestinese e afghano, che lottano contro l'imperialismo per l'indipendenza e la sovranità nazionali. Auguriamo un buon 1° Maggio agli operai e alle masse popolari della Grecia, della Spagna e del Portogallo che lottano duramente nelle piazze contro le politiche ferocemente liberiste imposte dalla UE e dalla Bce e applicate senza pietà dai rispettivi governi, politiche che stanno distruggendo tutti i diritti sociali e sindacali, anche quelli più elementari, e portando alla fame milioni di persone. Sopratutto auguriamo un buon 1° Maggio al proletariato e alle masse lavoratrici e popolari del nostro Paese che, a causa della devastante crisi finanziaria, economica, produttiva e occupazionale e delle politiche attuate dal governo della grande finanza, della UE e della macelleria sociale, guidato dal tecnocrate liberista borghese, Mario Monti, patiscono le pene dell'inferno, stanno subendo in termini di diritti e di livelli di vita un arretramento complessivo devastante. Il capitalismo è all'origine di tutto ciò.

Origine del 1° Maggio
Checché ne dicano la borghesia e i suoi servi, il 1° Maggio ha rappresentato storicamente, e continua a rappresentare nei tempi nostri, una delle più importanti ricorrenze del proletariato italiano e internazionale. Anzi, le circostante attuali ne ripropongono tutta la validità, ne rilanciano origini e significato che affondano nella storia del movimento comunista e operaio internazionale, nella sua lotta contro lo sfruttamento e l'oppressione capitalistici e per l'emancipazione sociale che si può realizzare solo in una nuova società, il socialismo. In questo ambito, allora, non possiamo non ricordare con gratitudine e riconoscenza gli operai di Chicago che nel corso di una memorabile manifestazione, tenutasi proprio nella giornata del Primo Maggio per rivendicare la giornata legale di 8 ore, furono trucidati, feriti e incarcerati dalla brutale e assassina repressione poliziesca. Fu merito delle organizzazioni operaie riunite nella Seconda Internazionale, di cui Engels era il dirigente riconosciuto, che per ricordare il sacrifico degli operai di Chicago, decisero nel 1889 che ogni anno si tenesse il 1° Maggio, in tutti i paesi, una grande manifestazione dei lavoratori. Nacque così la Giornata internazionale dei lavoratori sottolineata da Engels con queste parole: "Oggi i proletari di tutti i Paesi si sono effettivamente uniti". Per festeggiare "il loro risveglio alla luce e alla conoscenza, la loro unione fraterna per lottare contro ogni oppressione, contro ogni arbitrio, contro ogni sfruttamento", aggiungeva Lenin nel suo celebre discorso del 1905. Per "proclamare lavoro per tutti, libertà per tutti, eguaglianza per tutti gli uomini. Questa è la Festa del Primo Maggio", rilevava Stalin nel suo intervento in occasione del 1° Maggio del 1912.
Il 1° Maggio non è dunque la festa del lavoro ma delle lavoratrici e dei lavoratori. Non è una festa interclassista: i padroni hanno le loro, la classe operaia le sue tra cui spicca il 1° Maggio. Non è una ricorrenza vetusta da mettere in soffitta: con la liberalizzazione degli orari di apertura dei negozi, il governo Monti vorrebbe di fatto sopprimerla come festività e renderla addirittura lavorativa. Non è una bandiera da ammainare ma da tenere ben alta nelle lotte politiche e sindacali che ci stanno di fronte, più in generale nella lotta strategica di lungo respiro contro il capitalismo e per il socialismo. Ne escono clamorosamente sbugiardati tutti quei teorici borghesi, sia di ispirazione apertamente reazionaria e fascista, sia quelli di provenienza liberale, socialdemocratica e revisionista, tutti egualmente anticomunisti, che all'indomani della "caduta del muro" di Berlino e alla liquefazione dell'URSS revisionista di Gorbaciov, decretarono la morte irreversibile del socialismo e la vittoria definitiva del capitalismo, che veniva giudicato come l'apice dello sviluppo delle società umane, la migliore, insuperabile.

Conseguenze della crisi del capitalismo
Sono bastati pochi decenni per liquidare questo imbroglio. La "globalizzazione" imperialista dei mercati e della finanza, promessa come mezzo per diffondere crescita economica, benessere sociale e democrazia, ha in realtà fatto riemergere e acutizzato enormemente tutte le insolubili contraddizioni connaturate col capitalismo e l'imperialismo denunciate a suo tempo da Marx, Engels, Lenin, Stalin e Mao legate alla proprietà privata dei mezzi di produzione e allo sfruttamento dell'uomo sull'uomo. La "globalizzazione" imperialista dei mercati guidata dal principio assoluto della ricerca del massimo profitto, ha portato ai massimi livelli la politica di rapina da parte dei paesi capitalisti più forti nei confronti di quelli del Sud del mondo, la politica di supersfruttamento all'interno dei paesi capitalistici, compresi quelli ex revisionisti dell'Est europeo. Ha enormemente aumentato le differenze e le ingiustizie sociali, ha drammatizzato problemi essenziali per la sopravvivenza di dimensioni gigantesche: a centinaia di milioni di persone è negato il diritto all'alimentazione, all'acqua potabile, all'abitazione, alla salute, alla scuola. Non avere di che nutrirsi, bere acqua inquinata, morire a causa di una banale malattia per mancanza di farmaci, oppure per un parto in molti paesi è purtroppo ancora la regola.
La "globalizzazione" imperialista dei mercati ha portato alla progressiva finanziarizzazione dell'economia e alle conseguenti mega-speculazioni senza freni, senza limiti, senza etica e moralità, che sono diventate una concausa di primo piano della crisi che dal 2008 senza soluzione di continuità imperversa nel mondo. Si tratta della più grave crisi degli ultimi 80 anni, con ricadute drammatiche, catastrofiche in campo economico e sociale, in termini di disoccupazione, impoverimento e peggioramento complessivo delle condizioni di vita e di lavoro delle masse popolari che segnano, una volta di più, ma stavolta a uno stadio più alto, il fallimento del sistema capitalistico e ripropongono con forza l'esigenza di far affermare una nuova società, un nuovo mondo, che non può che essere socialista. La storia ha dimostrato a più riprese che non esiste una terza via tra capitalismo e socialismo: i riformisti di "sinistra" se ne devono fare una ragione. Una crisi dopo l'altra (economica, finanziaria, sociale e anche militare), l'ultima più grave della precedente, più rovinosa, più distruttiva, è questo il destino ineluttabile del capitalismo, nella sua fase monopolista e imperialista. I cui costi regolarmente vengono scaricati con cinismo sulla parte più debole e meno abbiente della popolazione.
Lo sanno bene i lavoratori, i pensionati, i disoccupati, i giovani e le donne, specie del Sud del nostro Paese, tartassati dalle politiche liberiste e privatizzatrici del governo Monti, voluto dal nuovo Vittorio Emanuele III, il presidenzialista Giorgio Napolitano, e sorretto dall'insolita maggioranza politica composta dal PDL di Berlusconi e Alfano, dal PD di Bersani e dal Terzo polo di Casini, Fini e Rutelli. Questo governo, in perfetta continuità con il precedente governo del neoduce Berlusconi, in pochi mesi ha varato una stangata di 30 miliardi di euro quasi tutti a spese delle masse popolari, ha approvato la peggior controriforma pensionistica degli ultimi 20 anni, prolungando l'età lavorativa fino e oltre i 70 anni e creando il grosso problema dei cosiddetti "esodati"; circa 350 mila lavoratori che sono rimasti senza lavoro, senza pensione e senza reddito, ha imposto a colpi di diktat la controriforma del "mercato del lavoro" che, tra le altre cose, demolisce l'art. 18 dello Statuto dei lavoratori, liberalizza i licenziamenti, non riduce nemmeno un po' il precariato, non assume provvedimenti concreti ed efficaci per dare un lavoro a tempo indeterminato, a tempo pieno e a salario intero ai giovani. Imponendo, nel contempo, relazioni industriali mussoliniane sul modello di quelle imposte dal nuovo Valletta, Marchionne, nelle aziende Fiat.
Dei tre criteri fondamentali su cui Monti aveva detto di basare la sua politica economica, finanziaria e sociale, "rigore, equità e sviluppo" si è fatto leva solo sul primo, e solo per le masse lavoratrici e popolari, e in qualche misura anche per il ceto medio e i piccoli agricoltori, artigiani e commercianti. Ai ceti ricchi e ricchissimi non è stato tolto nemmeno un euro. Con questa politica di austerità e di sacrifici a senso unico, di cui fa parte la reintroduzione della tassa (l'Imu) sulla prima casa, il moltiplicarsi dei ticket sanitari e che non prevede alcun provvedimento per aumentare il poter d'acquisto di salari e pensioni già a limite della sopravvivenza, il governo Monti invece di contenere e avviare a superamento la recessione produttiva la sta alimentando ulteriormente, invece di creare posti di lavoro, a causa di detta politica, si andrà incontro a chiusure di aziende e a licenziamenti di massa nei settori privati ma anche in quelli pubblici (vedi il caso delle Poste) per tutto il 2012 e il 2013, aggravando l'emergenza occupazionale, quella giovanile in testa. È questo il vero volto crudele del capitalismo senza maschere e orpelli ingannatori.

Le responsabilità del governo e dei suoi sostenitori
Il governo Monti e i suoi ministri, in particolare la Marchionne in gonnella, Elsa Fornero, ne sono i responsabili. Ma lo sono, allo stesso modo i leader della destra e della "sinistra" borghese: Berlusconi-Alfano, Bersani, Casini-Fini-Rutelli che lo tengono in vita e ne votano tutti i provvedimenti di legge, al di là dei distinguo tattici e di natura elettoralistica. Costoro, inoltre, stanno inciuciando per presentare la "riforma" elettorale e altre "riforme" costituzionali per completare la seconda repubblica con caratteri neofascisti, presidenzialisti, federalisti, interventisti e xenofobi. Intanto hanno approvato tutti i golpe istituzionali, ultimo dei quali quello sull'articolo 81, che costituzionalizza il pareggio di bilancio, ossia il liberismo, stravolge la Costituzione del '48 e assesta un colpo mortale ai diritti sociali.
Anche i vertici sindacali confederali non sono senza colpe, a partire da CISL e UIL di Bonanni e Angeletti con posizioni tradizionalmente più filogovernative e filopadronali per arrivare alla CGIL della Camusso per non aver mobilitato i lavoratori contro la "riforma" delle pensioni; per aver accettato di partecipare alla finta trattativa con il ministro Fornero sul "mercato del lavoro" finita molto male per i lavoratori; per non aver saputo o voluto portare avanti, anche a colpi di scioperi generali, una piattaforma rivendicativa con al centro gli interessi dei lavoratori, dei precari, dei pensionati, dei disoccupati, delle donne che dalle politiche del governo Monti escono massacrati; per aver accettato senza reagire con forza e determinazione il modello di relazioni industriali mussoliniane che riduce drasticamente il ruolo dei sindacati sui temi generali del Paese, relegandoli nell'angusto spazio dei contratti di categoria. Le iniziative di lotta assunte, soprattutto dalla CGIL, compresa la prossima manifestazione nazionale di maggio, in modo tardivo e insufficiente, con una piattaforma risicata e in parte non condivisibile, non sono in grado di cambiare il corso delle cose.
Dall'alto del suo scranno Giorgio Napolitano, oramai quotidianamente, esterna dichiarazioni a iosa di sostegno alla sua creatura, il governo Monti, e predica la "coesione sociale" e la collaborazione tra tutte le forze politiche e sindacali per fare le "riforme" del tipo succitate e per far uscire il Paese dalla crisi capitalistica. Sono appelli che però fuori dalle istituzioni e dal parlamento sono destinati sempre più a cadere nel vuoto. La durezza della crisi e delle sue conseguenze pratiche, le ingiuste misure economiche, fiscali, sociali e sul lavoro prese dal governo di stampo padronale e liberiste, stanno suscitando una progressiva ribellione appoggiata dalla FIOM e dai "sindacati di base", che va avanti da tempo contro la chiusura delle aziende e i licenziamenti (attualmente sono più di 200 le vertenze aperte senza soluzione), che ha visto momenti importanti nella lotta contro il modello di relazioni industriali di Marchionne (che ha comportato la esclusione della FIOM da tutti gli stabilimenti Fiat), ma è esplosa contro il colpo di mano della Fornero per cancellare l'art. 18. Spontaneamente gli operai delle fabbriche, ignorando i veti dei sindacati collaborazionisti CISL e UIL si sono riuniti in assemblea, hanno scritto i loro comunicati attorno alla parola d'ordine "L'Art. 18 non si tocca", hanno scioperato, manifestato in corteo e non di rado occupato strade, autostrade, ferrovie e porti.
C'è insomma una rabbia che va crescendo tra gli operai e i lavoratori, compresi quelli del pubblico impiego, tra i giovani precari, disoccupati e studenti, tra i pensionati e gli anziani sempre più in difficoltà tra gli strati di piccoli imprenditori andati in rovina o in procinto di andarci. Una rabbia che investe il governo Monti, in calo di consensi, i partiti che lo sorreggono e che comunque siedono in parlamento i quali anch'essi, anche a causa degli scandali vergognosi che li hanno investiti, ultimi casi quelli dell'ex Margherita di Rutelli e della Lega Nord di Bossi e Maroni, hanno visto precipitare i loro sondaggi. In ultima analisi si tratta di una contestazione del sistema capitalistico con le sue ingiustizie, la sua incapacità a creare lavoro e benessere, le sue nefandezze. Sia pure faticosamente e ancora ai primi passi, si può dire che in Italia e in quasi tutta Europa, si è rimessa in moto la lotta di classe contro questo sistema e cresce la coscienza che va cambiato.
Non servono a niente, comunque non aiutano a raggiungere l'obiettivo di una nuova società, aggiustamenti più o meno grandi all'esistente, come propongono i riformisti di "sinistra" che ne inventano una al giorno: beni comuni, democrazia partecipata, nuovo modello di sviluppo, non pago il debito pubblico, liste civiche, ecc. Vi sono tanti imbroglioni politici vecchi e nuovi (il neopodestà di Napoli De Magistris è uno di questi) che si sono messi in movimento nel tentativo di egemonizzare in tutto o in parte la protesta sociale, specie quella più radicale e antagonista al capitalismo, per riportarla nelle secche del riformismo, del parlamentarismo, del legalitarismo, del pacifismo, dell'elettoralismo e ingabbiarla nelle istituzioni rappresentative borghesi in camicia nera. È un'esperienza questa già fatta nei corso delle lotte degli anni '70 con esiti del tutto fallimentari che oggettivamente ha sabotato l'evolversi della situazione politica in senso rivoluzionario. Perciò occorre resistere e respingere questi richiami movimentisti-riformisti e, nelle imminenti elezioni amministrative, impugnare l'arma dell'astensionismo rosso disertando le urne o annullando la scheda o lasciandola in bianco contro i partiti e le coalizioni della destra e della "sinistra" borghese, considerandolo come un voto dato al PMLI e al socialismo.

L'alternativa del socialismo
Il cambiamento radicale di cui ha bisogno il nostro Paese, l'unico per cui valga la pena di donare la propria vita, è quello di abbattere con la rivoluzione proletaria il capitalismo e conquistare il socialismo, la società senza sfruttati e sfruttatori e dove la ricchezza prodotta non sarà più accaparrata da una minoranza di pescecani capitalisti ma sarà distribuita al popolo. È successo nell'URSS di Lenin e Stalin e nella Cina di Mao perché non potrebbe succedere, quando i tempi oggettivi e soggettivi saranno maturi, anche in Italia? È questo il salto di qualità ideologico e politico che il proletariato italiano, a cominciare dalla parte più avanzata, informata e combattiva, e tutti gli anticapitalisti, i giovani e gli intellettuali che soggettivamente si sentono rivoluzionari, dovrebbero fare tempestivamente per indirizzare verso la causa giusta del socialismo il loro impegno politico e la loro lotta. Questo non significa sottovalutare le lotte sui problemi immediati che riguardano il lavoro, il contrasto alla precarietà, il salario, le pensioni, la questione fiscale, la difesa del contratto nazionale, dell'art. 18, delle libertà sindacali, della sanità e dell'istruzione pubbliche e gratuite, dei servizi sociali e dell'ambiente, lo sviluppo del Mezzogiorno, la parità uomo-donna e altro ancora. Tutt'altro! Noi conferiamo alle battaglie quotidiane una grande importanza, ma vanno inserite all'interno di una strategia più generale di sviluppo della lotta di classe per la conquista del socialismo.
Non si tratta di archiviare, come propongono i trotzkisti e gli opportunisti di ogni risma, l'"esperienza novecentesca", cioè l'intera esperienza storica del movimento comunista internazionale, a partire dalla rivoluzione socialista e dalla dittatura del proletariato, dalla concezione del Partito del proletariato, in definitiva l'intero patrimonio ideologico sintetizzato al più alto livello nel marxismo-leninismo-pensiero di Mao. Si tratta invece di riscoprirla, riportarla, alla luce per utilizzare i suoi innumerevoli e insostituibili insegnamenti, per affrontare e vincere la lotta di classe del nostro tempo. In particolare è la classe operaia italiana che deve rompere con il riformismo e il revisionismo, con le influenze liberali e l'elettoralismo borghese per impadronirsi della sua ideologia, il marxismo-leninismo-pensiero di Mao, e organizzarsi nel suo Partito, il PMLI, senza i quali non può avere la consapevolezza di essere una classe per sé, indipendente e contrapposta alla borghesia, con la missione storica di emancipare se stessa e tutti gli sfruttati e gli oppressi, abbattendo il capitalismo e conquistando il socialismo e il potere politico.
Per quanto oggi sia deideologizzato, frantumato, disorganizzato e ingannato dalla "sinistra" borghese, il proletariato può uscire progressivamente da questa situazione e prendere la direzione della lotta di classe e della rivoluzione socialista che gli spetta. Giacché esso è la classe più avanzata, più progredita e più rivoluzionaria della storia. Noi del PMLI, che abbiamo resistito a molteplici avversità, tenuto fermi i principi proletari rivoluzionari e portato avanti in modo costante e coerente la strategia rivoluzionaria per l'Italia unità, rossa e socialista, abbiamo le carte in regola per esortare le operaie e gli operai rivoluzionari a prendere posto nel nostro Partito affinché ne diventino la testa e la spina dorsale e ci aiutino a dare ad esso, oltre alla testa rossa, un corpo da Gigante Rosso.
Il 1° Maggio ci sembra un'occasione molto appropriata per riproporre l'appello del Segretario generale del PMLI, compagno Giovanni Scuderi, lanciato nel suo editoriale scritto in occasione del 35° Anniversario della fondazione del Partito marxista-leninista italiano. "Alle anticapitaliste e agli anticapitalisti - egli afferma - in primo luogo alle operaie e agli operai, alle ragazze e ai ragazzi rivolgiamo un caloroso appello: Uniamoci contro il capitalismo, per il socialismo. Combattiamo fianco a fianco per aprire le porte al luminoso avvenire socialista!".
Viva il 1° Maggio!
Viva l'emancipazione della classe operaia!
Liberiamoci dal governo Monti e dal regime neofascista!
Alziamo la bandiera del 1° Maggio contro il capitalismo, per il socialismo!
Avanti con forza e fiducia verso l'Italia unita, rossa e socialista!
Coi Maestri e il PMLI vinceremo!

* Responsabile della Commissione per il lavoro di massa del CC del PMLI

26 aprile 2012