Un ex sessantottino marxista-leninista parla ad altri ex sessantottini riformisti
Sarà il PMLI a trasformare il proletariato in classe per sé
di Luigi Salomoni - Cremona

Cari compagni,
di recente ho avuto occasione di incontrarmi con tre ex compagni del '68 della mia città (due ex operai e un impiegato) ai quali ho mostrato il numero monografico de "Il Bolscevico" su Stalin e varie pubblicazioni del Partito tra cui i documenti dell'ultimo nostro Congresso.
All'inizio la conversazione ci ha trovati d'accordo sull'opera e la figura di Stalin, tranne che per qualche velata critica sui processi degli anni '30. L'assunto principale che ci ha subito accomunati è stato che l'analisi della sua opera, per essere marxista, deve innanzitutto essere concretamente storica, cioè deve tenere assolutamente conto del tempo e del luogo in cui Stalin ha operato e senza personalismi di marca kruscioviana che non rendono affatto giustizia alla verità storica. Poi aggiunsi che quando Krusciov dalla tribuna del XX Congresso del PCUS rivolse le sue accuse contro la figura e la persona del compagno Stalin facendo salvo l'intero partito e il suo Comitato Centrale, senza considerare le necessarie condizioni di tempo e di luogo nonché la stessa realtà storica in cui egli ha dovuto agire, ebbene Krusciov ha reso una "disanima" dell'opera di Stalin di assoluto valore antimarxista e antileninista degna del più becero e volgare trotzkismo e volta a denigrare la rivoluzione e il socialismo.

Il crollo del revisionismo
Dopo di ciò si è passati a parlare del crollo del "comunismo" (ma io ho precisato "del revisionismo") e di quella che oggi è la realtà della Cina e dei Paesi dell'Est europeo. Dapprima ci si è trovati d'accordo nel condannare senza mezzi termini il falso comunismo dell'ex blocco sovietico, ma poi uno di loro, l'impiegato, senza alcuna esitazione ha dichiarato la sua convinzione che l'attore principale del crollo fosse stato il papa polacco Wojtyla perché essendo la Polonia l'unico paese d'oltrecortina di religione cattolica, essa costituiva una pedina di più facile presa per una azione politica di breve periodo volta a scardinare il governo popolare e l'intero sistema. Su questo io replicai che invece le contraddizioni interne all'ex Unione Sovietica e ai paesi del blocco, sia politiche che sociali, ne hanno scalzato il potere con una forza d'urto senza precedenti proprio perché trent'anni di revisionismo storico, da Krusciov in poi, avevano disarmato politicamente e socialmente le masse di quei paesi e le avevano rese permeabili a qualsiasi azione controrivoluzionaria. Inoltre, io aggiunsi, quei paesi dell'Est europeo non avevano fatto nessuna rivoluzione dopo la seconda guerra mondiale, e quindi le masse di quei paesi non hanno avuto la possibilità di emancipare la propria coscienza sulle barricate di una lotta di classe rivoluzionaria che ne rigenerasse la volontà di lottare per il socialismo. Dopo qualche esitante perplessità i miei compagni si dichiararono d'accordo con me, a condizione però che ammettessi l'"amara verità" che le masse non sono di per sé o per "vocazione" rivoluzionarie, ma che lo sono solo quando "hanno la pancia vuota" e non vedono altra via d'uscita per cui valga la pena di vivere.
Dopo di questo ho voluto personalmente saggiare la loro odierna fede politica mostrando loro alcune pubblicazioni del Partito e dichiarando che qui da noi il PMLI è l'unico Partito veramente comunista e che da quarant'anni lotta per dare una coscienza di classe alle masse popolari del nostro Paese. Queste mie parole vennero accolte dapprima con un larvato scetticismo e poi, dopo qualche esitazione, accesero la miccia di un'animata discussione che ci trovò su sponde diametralmente opposte. Le loro passate esperienze di militanza sessantottina all'interno di alcuni gruppi extraparlamentari avevano lasciato il segno di una decisa insofferenza per l'organizzazione in sé in un qualsiasi partito e in uno sfiduciato scetticismo circa la capacità e la possibilità di istruire la "massa" ad una coscienza di classe proletaria dato che ("come la storia del '68 ha dimostrato", essi dissero) in realtà sono le masse che alla fine "hanno la meglio "sul partito e che lo inducono a venir meno ai suoi pur nobili e rispettabili propositi. Dichiarando il mio più risoluto disaccordo al riguardo, cercai loro di spiegare che, proprio sull'esempio del '68, quei gruppi che allora predicavano astrattamente e indegnamente il "comunismo" in realtà erano composti da piccoli borghesi e da intellettuali trotzkisti che nulla avevano a che vedere con il comunismo storico del movimento operaio internazionale, quello dei Marx, dei Lenin e degli Stalin, tanto per intenderci. E poi, aggiunsi ancora, la proposta politica di quei gruppi extraparlamentari che allora agivano ai margini della realtà sociale era talmente astratta, episodica e avulsa dal contesto reale del paese che l'esito a cui essa è poi pervenuta era praticamente nell'ordine delle cose. Non poteva essere altrimenti. Sì, certo, il '68 ha comunque rappresentato un grande risveglio delle coscienze e pure ha segnato per un intero decennio la realtà sociale del nostro Paese, ma i limiti che gli erano propri ebbero poi la meglio su tutto il resto. L'unico partito che invece ha saputo non farsi travolgere da quelle vicende e dalle avversità politiche che poi ne seguirono è stato proprio il nostro, il Partito marxista-leninista italiano. Questo vorrà pur dire qualcosa, non vi pare? Sì, essi mi risposero, questo potrà anche essere vero, ma è anche vero che alla fine, passata l'euforia dei primi anni, il "topolino" che la montagna ha partorito, per così dire, non ha prodotto alcun beneficio per le masse, se non si considera lo Statuto dei lavoratori. D'accordo, dico io, ma voi non considerate che la lotta era su due fronti: uno contro il capitalismo e la società borghese, l'altro contro un forte PCI revisionista e il suo sindacato riformista. Come sarebbe stato possibile, con le sole nostre esigue forze, contrastare e battere l'uno e l'altro?
A questo punto della discussione cerco di orientare il discorso sul presente e sulla necessità di un'azione politica volta a una presa di coscienza che ancora manca nel Paese. Il nostro Partito, dico io, è ancora una piccola forza, ma la sua opera di persuasione e di proselitismo sui fronti della lotta di classe ne fanno un sicuro punto di riferimento per tutti coloro che vogliono opporsi al capitalismo e al governo del neoduce Berlusconi. La variegata realtà del nostro Paese, con situazioni di lotta e di disagio sociale in cui si ha la percezione del crescente risveglio di una volontà di riscatto da parte delle masse, ci impongono l'assoluta necessità di essere presenti con la nostra azione ovunque lo richieda il nostro ruolo di unica e vera forza di opposizione all'imperante diarchia del profitto e del capitale che domina la vita e le coscienze di chi non ha che l'unica ricchezza del suo lavoro. A questo proposito, dice uno degli ex compagni, avrei qualche perplessità. Sei proprio sicuro egli mi chiede, che le masse vogliano avere una coscienza? Ti sei mai chiesto perché gli operai, ai quali va pure tutto il mio rispetto, finché gli si garantisce il minimo necessario non ti degnano di uno sguardo e quando la fabbrica chiude o va in crisi l'unico loro problema è quello di ricevere la cassa integrazione? Che coscienza di classe speri di dare a gente la cui unica preoccupazione è quella di vedere la partita la domenica o di andare a Rimini per le ferie estive?
A queste parole ho un attimo di forte indecisione su come affrontare l'argomento, ma presto mi riprendo e dico: "Guarda, guarda cosa devo sentire da un ex operaio comunista! Allora è proprio vero: gratta, gratta l'ex sessantottino e ti salta fuori uno squallido qualunquista. Ti rendi conto di quello che stai dicendo? E sì che sei stato operaio anche tu! Ma cosa dici?". "Sì - lui mi risponde - appunto perché sono stato operaio anch'io ti dico queste cose". E mi fa alcuni esempi da lui vissuti in fabbrica di cui uno in particolare lo aveva "sconvolto" non poco: si era in dicembre, e da alcuni giorni era in atto un'occupazione dello stabilimento da parte delle maestranze per il rinnovo del contratto di lavoro quando, su iniziativa del Comitato di fabbrica, venne invitato il vescovo a celebrare la messa in azienda la notte di Natale..., e tutti gli operai vi presero parte, nessuno escluso! E tu mi vieni a parlare di coscienza di classe? Aggiunse poi.

Il partito e la coscienza rivoluzionaria del proletariato
Sulle prime non prestai molta fiducia a quelle parole, ma poi mi convinsi che poteva esserci del vero. Mi risolsi quindi a dire: "Sai qual è il tuo errore? Quello di credere che il lavoratore abbia una coscienza per il solo fatto di essere un lavoratore. Non è così. La coscienza nell'operaio non è innata, ma gli deve essere portata dall'esterno, dal partito, organizzando le sue lotte ed educandone la coscienza di classe sulla base delle rivendicazioni a lui necessarie. E poi come puoi pretendere che le idee dominanti, anche fra gli operai, non siano quelle della classe dominante? In fin dei conti viviamo tutti in una società capitalistica e borghese, e se non crei negli operai una coscienza che sia degna della classe che essi rappresentano è inevitabile che anch'essi non ne possano essere esenti. E proprio qui entra in gioco il nostro Partito. Noi comunisti, e non potrebbe essere altrimenti, in quanto avanguardia abbiamo l'onore e anche il dovere di essere la coscienza organizzata della classe di cui esprimiamo gli interessi sociali, e quindi sta a noi rendere cosciente l'azione di lotta del lavoratore contro il sistema di schiavitù salariata che è proprio del capitalismo. Ogni altra considerazione non può che portare al più inerme spontaneismo e all'impotenza di qualsiasi azione rivendicativa della classe contro il nostro padrone. Quando Lenin e Stalin affermarono l'assoluta necessità di unire il movimento operaio con il socialismo essi intendevano per l'appunto questo: non una cieca e inerme azione spontanea, ma la lotta organizzata e cosciente dell'intera classe. Solo così si può conquistare la vittoria. Non ne siete convinti?
Dopo qualche istante di esitazione lo stesso ex operaio mi rispose: "Beh, non è che tu ci abbia persuasi, ma devo ammettere che tutti i torti non li hai. Forse il tuo ottimismo sarà un po' eccessivo, ma non nego che esso abbia un certo suo fascino, se così si può dire".
"E ti dirò di più" aggiunsi io di rincalzo. "Tu credi che ogni operaio viva la sua vita come chiuso in una scatola di vetro, al di fuori dei bisogni e delle necessità che invece ogni persona e in ogni società avverte per il solo fatto di condividere con gli altri le stesse esigenze e le stesse preoccupazioni. In realtà tu hai una idea astratta e irreale di chi lavora. Se noi tutti fossimo già così come dovremmo vicini a fare la rivoluzione allora non ci sarebbe più bisogno né del partito e né tantomeno della lotta di classe; basterebbe uno schiocco di dita e tutti faremmo la rivoluzione in un sol giorno senza più dover vivere una intera vita sotto la sferza di un padrone. Se l'uomo fosse così come lo vedi tu, allora non si spiegherebbe perché esso abbia vissuto decine di secoli come uno schiavo per il solo pezzo di pane che gli veniva dato. Tu ti meravigli che l'operaio viva le stesse contraddizioni e le stesse preoccupazioni di chiunque altro; ma ti dimentichi che questo fa parte della dialettica di ogni vivente organismo sociale che, senza della quale, non potrebbe esistere un sol giorno. Credi forse che gli operai russi, quando hanno fatto la rivoluzione, fossero tutti dei perfetti cloni di Lenin e di Stalin e non invece delle comuni persone con tutte le loro contraddizioni e i loro problemi che vivevano ogni giorno sulla propria pelle?
"La tua" mi disse l'impiegato "è invero una logica stringente. Ma ha un difetto. Non tiene conto del fatto che le persone, tutte indistintamente, sono il prodotto fedele della società in cui esse vivono e che, di conseguenza, prevale in loro il pessimismo della ragione e non certo l'ottimismo della volontà". "Sì" rispondo io, "ma nessuno ha mai stabilito che non possa a sua volta prevalere l'ottimismo della volontà. Non c'è nessuna regola che impone a un uomo di valersi unicamente del suo istinto di sopravvivenza senza aspirare a un ordine di vita più umano ed anche più degno del suo essere un essere con ragione e intelletto. La vita avrà pure dei corsi e ricorsi nel suo lungo svolgimento storico e umano, ma nessuna remora potrà mai impedirne il progresso verso una umanità più libera e più giusta, verso il comunismo".
La nostra conversazione volgeva ormai al termine e, quando feci per alzarmi, rivolsi ancora loro la parola dicendo: "Volete che vi dia qualche pubblicazione del Partito, così, anche solo per prenderne visione?". "D'accordo" disse uno di loro, "conosco alcune persone a cui potrebbe interessare il numero del giornale con Stalin. Gliene ho già parlato. Procuramene alcune copie". "Va bene" dissi io, "lo farò senz'altro". E quindi ci lasciammo con una vigorosa stretta di mano e con la promessa di incontrarci al più presto, magari non più in privato ma in un luogo pubblico, per riprendere la conversazione interrotta e poi riflettere sulla eventualità di un comune anche se parziale sostegno al Partito e al suo lavoro di propaganda. Magari con un banchetto.
Non avevo ancora acquisito al Partito nessun nuovo compagno, ma ero comunque ben lieto di aver fatto opera di persuasione.

27 ottobre 2010