Uno storico episodio di lotta di classe durato 35 giorni
LA GRANDE BATTAGLIA DEL 1980 ALLA FIAT TRADITA DAI RINNEGATI DEL COMUNISMO OGGI AL GOVERNO E DA BERTINOTTI
Arisio, leader della "marcia dei 40 mila'' filopadronale, l'anno scorso è stato nominato grande ufficiale della Repubblica da Scalfaro e D'Alema
FASSINO: "AVEVANO RAGIONE I VERTICI FIAT. FU ALLORA CHE MI SCOPRII SOCIALDEMOCRATICO''
Nell'ottobre di quest'anno cade il ventesimo anniversario della grande battaglia del 1980 alla Fiat contro i licenziamenti, un episodio storico di lotta di classe, tra i più importanti del dopoguerra, durato ininterrottamente 35 giorni (dall'11 settembre al 15 ottobre) che i marxisti-leninisti celebrano con il rilievo che merita per difendere e tramandare una corretta memoria alle nuove generazioni e per continuare a cogliere gli insegnamenti che questa straordinaria vertenza mise in evidenza. Oggi come allora c'è infatti bisogno di un'analisi corretta e veritiera su questo avvenimento che per dimensioni e importanza ricorda lo sciopero "delle lancette'' del 1920 a Torino durato oltre un mese e mezzo e l'occupazione delle fabbriche nel settembre dello stesso anno, sempre a Torino. C'è bisogno del punto di vista di classe su cosa accadde, perché la Fiat lanciò quella grande offensiva antioperaia, come si organizzarono e che forme di lotta adottarono i lavoratori, da chi e perché fu firmato un accordo capitolazionista, cosa ha comportato il tradimento dei vertici sindacali collaborazionisti Cgil, Cisl e Uil Lama, Carniti e Benvenuto, Trentin, Garavini, Mariannetti, Del Turco e altri e dei rinnegati del comunismo, compresi Cossutta e Bertinotti, dell'allora PCI di Berlinguer.

IL PUNTO DI VISTA DI CLASSE SU QUEGLI AVVENIMENTI
Nelle stomachevoli e bugiarde ricostruzioni sulla vertenza che si sono lette in questi giorni sui giornali di regime, nelle dichiarazioni dei protagonisti di quello scontro, sia di parte padronale, sia di parte sindacale e partitica (DS in specie) l'accento è posto quasi unicamente sulla "marcia dei 40 mila'' e sulle motivazioni della Fiat; mentre la lotta e gli interessi dei lavoratori sono posti in secondo piano e messi in cattiva luce. Infatti, l'interpretazione che costoro ne danno, all'unisono, recita che: l'azienda fece bene ad attuare quel gigantesco processo di ristrutturazione e a ridimensionare drasticamente gli organici, prima quelli operai e poi quelli degli impiegati; gli operai e il sindacato fecero male ad opporsi ai licenziamenti, a non accettare le pretese padronali e ad aprire la lotta ad oltranza; la conclusione della vertenza ha segnato una sconfitta della classe operaia e del sindacato dei Consigli nato dalla splendida stagione di lotte che prese il via nel '68-'69.
Che la posta politica e sindacale di questa vertenza fosse altissima e gravida di conseguenze per il futuro a seconda di come si sarebbe risolta, emerge chiaramente anche dalle parole di Cesare Romiti (che nell'80 ricopriva la carica di amministratore delegato della Fiat e svolgeva la funzione di testa d'ariete degli Agnelli, tatticamente defilati) pronunciate nel convegno dell'Unione industriali di Torino svolto a metà ottobre proprio sui 35 giorni: "è stata la battaglia più importante della mia vita. Ha cambiato tutto. Ha chiuso - continua Romiti - l'epoca dell'illusione illuministica del vertice Fiat convinto di poter ricondurre il sindacato alla ragione con l'arrendevolezza: l'azienda invece accordo dopo accordo andava al collasso. Riconsegnando le fabbriche alle imprese, ha avviato una rivoluzione nel modo stesso di fare impresa''. "La marcia dei quarantamila - preparata e favorita dal vertice Fiat, ndr - ha certamente fatto precipitare gli eventi. Incontrando i segretari confederali dal ministro del Lavoro Foschi, Giorgio Benvenuto era seduto in disparte come un pugile suonato. Pierre Carniti aveva la bava alla bocca. Solo Luciano Lama il più dignitoso mi è venuto incontro ammettendo la sconfitta e sollecitando la stesura dell'accordo imposto il mattino successivo al consiglione dei delegati a Torino''.
Il "consiglione'' dei delegati riunito al cinema "Smeraldo'' di Torino contestò violentemente l'accordo come una svendita della lotta e l'operato dei vertici sindacali confederali e di categoria. Lama, Carniti e Benvenuto ricevettero lo stesso trattamento quando si presentarono davanti ai cancelli di Mirafiori, tanto che dovettero fuggire su un'auto della polizia. E tuttavia riuscirono a far passare, nel referendum sindacale che si svolse in tutti gli stabilimenti del gruppo sparsi per l'Italia, anche se per pochi voti, l'intesa filopadronale, la capitolazione sindacale. Anche l'opportunista e trotzkista Fausto Bertinotti, allora segretario regionale Cgil del Piemonte e oggi segretario del PRC, non si schierò dalla parte dei delegati che volevano continuare la lotta e firmò l'intesa scritta dalla Fiat. Dal momento che non può cancellare dai fatti questa vergogna, a denti stretti confessa: "Lo confermo. Siamo stati costretti ad accettare un accordo sulla pelle degli operai, frutto di errori politici e sindacali di cui abbiamo pagato il prezzo per anni e continuiamo a pagarlo'' ("Sette'' del Corsera del 12/10/2000).

FURONO I DELEGATI E I LAVORATORI A IMPORRE LA LOTTA AD OLTRANZA
A ben vedere la cosiddetta "marcia dei 40 mila'', che in realtà era di 15 mila e composta non solo da quadri, impiegati intermedi e capiofficina della Fiat ma anche da manifestanti estranei alla fabbrica, non fu il motivo principale ma il pretesto preso al volo dai vertici sindacali e dai principali partiti a cui essi facevano riferimento (PCI, PSI, DC) per accettare un accordo precedentemente rifiutato e smobilitare la lotta.
Se la vertenza Fiat assunse quelle caratteristiche: sciopero ad oltranza, presidi permanenti 24 ore su 24 delle portinerie, blocco delle merci in entrata e in uscita, scioperi generali e manifestazioni di piazza, fino a richiedere l'occupazione della fabbrica, è perché lo vollero e lo imposero i lavoratori e i delegati. I vertici sindacali e i dirigenti del PCI revisionista, nazionali e torinesi, non erano d'accordo, di fatto subirono questa impostazione e per un certo periodo, tatticamente, l'assecondarono in attesa di poter riprendere il controllo della situazione. è una verità questa che emerge non solo perché lo confessano apertamente i diretti interessati, Bruno Trentin allora della segretaria nazionale della Cgil, Piero Fassino ex responsabile del PCI torinese per le fabbriche, Diego Novelli, sindaco di Torino (PCI), ma anche perché nel corso della vertenza, in più occasioni, come quando la Fiat, caduto il governo di Francesco Cossiga, sospese i licenziamenti e chiese la cassintegrazione per 23 mila lavoratori a zero ore e la mobilità per metà di loro, avrebbero voluto togliere i picchetti, sospendere lo sciopero ad oltranza e quindi accogliere la nuova proposta aziendale che invece fu respinta dall'assemblea dei delegati.
Proprio l'attuale ministro di Grazia e Giustizia del governo Amato, Piero Fassino, in un'intervista a "Sette'', supplemento del Corsera, fa una serie di ammissioni molto significative. Dice che: "sull'analisi dei fatti aveva ragione la Fiat''; quando, caduto il governo, la Fiat decise di "ritirare'' i licenziamenti il sindacato avrebbe dovuto accettare la proposta della cassintegrazione e della "mobilità''; a parte i delegati di fabbrica nessuno dei dirigenti sindacali e del PCI sosteneva l'occupazione della fabbrica. Per quanto riguarda il tanto citato comizio di Berlinguer davanti ai cancelli di Mirafiori, Fassino rivela che fu del tutto casuale e non voluto e che la sua risposta, su cosa avrebbe fatto il PCI se gli operai avessero occupato la fabbrica, fu insincera e di circostanza. Inoltre racconta che il gruppo dirigente torinese del PCI era "sulle posizioni di chi come me, Chiaromonte, Luciano Lama, gli stessi Bruno Trentin e Sergio Garavini, oltre ovviamente a Ottaviano del Turco sostenevano che era il momento di affrontare le flessibilità e di non chiudersi a riccio. Ci fu un "lavoro sotterraneo'': "Sì, insieme a Emilio Pugno mi sono incontrato con i dirigenti Fiat per trovare una soluzione, oltre al tentativo di mediazione del ministro del Lavoro... Romiti si incontrò con Chiaromonte a casa di Adalberto Minucci e poi anche con il ministro Rino Formica (incaricato da Craxi)''. "Fu allora - conclude - che mi scoprii socialdemocratico''.

NON CI FU SCONFITTA SUL CAMPO
La vertenza Fiat poteva avere un epilogo differente da quello che ebbe? Avrebbe potuto concludersi diversamente se alla sua testa ci fossero stati degli autentici capi operai? Sì, nessuno può negarlo! _ corretto allora parlare di sconfitta del movimento operaio e sindacale? Assolutamento no! Non ci fu sconfitta sul campo, la battaglia era ancora in piedi, godeva del consenso della maggioranza dei lavoratori del gruppo e di un'ampia solidarietà in tutto il Paese, poteva andare avanti; poche migliaia di quadri foraggiati dal padrone non costituivano un ostacolo insormontabile. "In questa splendida lotta per il lavoro che scosse duramente il governo Forlani, portandolo sull'orlo delle dimissioni - ebbe a dire il compagno Scuderi nel suo Rapporto al II Congresso nazionale del PMLI -, c'erano tutte le premesse per la vittoria dei lavoratori, ma sono mancati i capi sindacali e i grossi partiti a base operaia che fossero disposti a guidarli fino in fondo. Uno di questi partiti che si richiamano alla classe operaia era addirittura nel governo per combattere i lavoratori, mentre l'altro era strumentalmente e fino a un certo punto con i lavoratori per ricavarne delle pezze d'appoggio per entrare nel governo. Sta di fatto che dopo 35 giorni di lotte stupende gli operai della Fiat si sono trovati soli, lasciati in balia di Agnelli e con un accordo capitolazionista impostogli vigliaccamente dai sindacalisti fasulli''.
Si deve dunque parlare, come a tutti gli effetti è stato, di tradimento da parte di quei dirigenti sindacali e politici che all'epoca direttamente o indirettamente influenzavano e dirigevano la vertenza. Un tradimento che ha prodotto negli anni successivi e fino ai nostri giorni conseguenze nefaste e devastanti per quanto riguarda: il peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro dei lavoratori della Fiat e, di riflesso, dell'intero Paese; l'unità e la forza di classe del movimento operaio e la cancellazione della coscienza di essere una classe in sé e per sé; la totale subordinazione del proletariato alle esigenze del capitalismo e al dominio della borghesia; l'accelerazione del processo degenerativo dei sindacati confederali trasformati in sindacati istituzione, liberali, integrati nel sistema e di quello del PCI approdato come forza di governo interamente sul terreno del liberismo e della seconda repubblica capitalista, neofascista, presidenzialista e federalista.
Tutti quelli che, singolarmente e come partito, resero questo enorme servizio agli Agnelli e al grande capitale, sono stati lautamente ricompensati. A partire dall'organizzatore della "marcia dei 40 mila'', Luigi Arisio, il quale pur essenso un semplice ed oscuro quadro intermedio diventò, tre anni dopo, parlamentare, poi gli fu affidata la presidenza della Federazione italiana del maestri del lavoro e infine, poco più di un anno fa, gli allora presidente della Repubblica e presidente del Consiglio dei ministri, rispettivamente Scalfaro e D'Alema, gli assegnarono l'onorificenza di grande ufficiale al merito delle Repubblica. Lama, successivamente deceduto, diventò senatore e sindaco di un grosso comune, Carniti parlamentare con incarichi presso la presidenza del Consiglio, Benvenuto alto funzionario del ministero delle Finanze, Trentin parlamentare europeo, Del Turco è l'attuale ministro della Finanze. Al PCI, divenuto successivamente PDS e quindi DS, è stata schiusa la porta del governo borghese e per la prima volta nella storia gli è stata data la poltrona della presidenza del Consiglio.

PCI E CGIL AVEVANO GIA' VOLTATO LE SPALLE AI LAVORATORI
A sentire i vari Romiti e Annibaldi, i dirigenti della Fiat erano sicuri che alla fine avrebbero vinto. Perché? Non si deve dimenticare che prima dell'80 c'era stato il "compromesso storico'' e i cosiddetti "governi di solidarietà nazionale'' con il PCI a fare la ruota di scorta della DC. A livello sindacale, nel febbraio del '78, si tenne la famosa "Assemblea dell'Eur'' con la quale la Cgil si allineò ideologicamente, strategicamente e contrattualmente ai sindacati storicamente "gialli'' Cisl e Uil, impresse una svolta a destra che la portò ad entrare nel "palazzo'' con l'applauso della classe dominante borghese.
Insomma, nella sostanza, il PCI revisionista di Berlinguer e Cossutta e la Cgil avevano già fatto una scelta di campo e accettato tutti i capisaldi e le compatibilità del capitalismo, in pratica avevano già voltato le spalle ai lavoratori e ai loro interessi generali e particolari. Ciò che è venuto dopo conferma questa analisi. In particolare gli accordi sindacali del luglio '92 e luglio '93 e del dicembre '98 hanno ulteriormente chiarito che le tre confederazioni Cgil, Cisl e Uil sono diventate totalmente dei sindacati liberali, governativi e filo padronali, concorrendo attivamente a cambiare le "relazioni sindacali'' e il sistema contrattuale cogestionario e neocorporativo di stampo mussoliniano. Esse, dopo aver abbandonato la "centralità operaia'' hanno sposato interamente la "nuova cultura aziendale'' e conformemente ad essa si muovono e agiscono, si organizzano e contrattano nel rigoroso rispetto delle "competitività'' economica e commerciale internazionale del capitalismo italiano. Per Sergio Cofferati, segretario generale della Cgil, "la vecchia guerra tra lavoro e capitale'' può "considerarsi finita'' (sic!).
Il nostro Partito invece, né allora né oggi ha voltato le spalle alla classe operaia. Dall'esperienza dell'80, dopo averne fatto un'analisi corretta e opposta a quelle dei revisionisti e dei sindacalisti collaborazionisti, trasse degli insegnamenti preziosi che hanno contribuito non poco a definire nel proseguo (6 febbraio '93) la proposta sindacale strategica del PMLI che è quella di costruire dal basso un grande sindacato delle lavoratrici e dei lavoratori fondato sulla democrazia diretta e sul potere sindacale e contrattuale delle Assemblee generali dei lavoratori.
Nel documento del Comitato centrale del PMLI del 29 ottobre 1980, dal titolo "Gli insegnamenti della vertenza Fiat'', fu sottolineato che: si trattava di uno scontro politico di grande portata che interessava tutto il movimento operaio e sindacale; gli operai Fiat combatterono con ardore e lucidità politica; la lotta non fu sconfitta ma troncata e tradita dai capi sindacali e politici venduti al capitale; il rapporto di forza che si era verificato sul campo di battaglia era favorevole ai lavoratori, avrebbero perciò potuto vincere; la firma dell'accordo fu infatti il frutto della capitolazione dei vertici sindacali; le forme di lotta erano valide e giuste; la contestazione violenta dei sindacalisti collaborazionisti sacrosanta. Fu sottolineato inoltre che: le esigenze del movimento degli operai e dei lavoratori si difendono tracciando una netta linea di demarcazione con quelli dei padroni; l'assemblea operaia e il voto palese sono i capisaldi della democrazia sindacale; la contrattazione va fatta in fabbrica davanti ai lavoratori; il sindacato va totalmente rinnovato nella linea, nel gruppo dirigente (e aggiungiamo) nel modello; questo sindacato potrà essere realizzato solo se gli operai d'avanguardia e combattivi daranno fiducia al PMLI e opereranno sotto le sue bandiere.
Sono insegnamenti, tutti, più che mai validi!