Il filo nero della politica estera italiana: dall'Iraq al Libano

Milioni di elettori hanno votato il "centro-sinistra" perché speravano in un netto cambiamento di rotta rispetto alla precedente politica di Berlusconi, Bossi e Fini. È innegabile che, giorno dopo giorno, il nuovo governo distrugge sempre più questa ingenua ma tenace illusione.
Qui ci limiteremo all'analisi della politica estera, poiché è il settore dove forse più grandi apparivano le possibilità di cambiamento davanti agli occhi delle masse di sinistra, e poiché in questo settore rientra il tema attualmente più scottante, ovvero la missione militare in Libano.
All'indomani dell'insediamento del nuovo governo, il ministro degli Esteri D'Alema, già conosciuto nel '99 come capo del governo italiano, tra i bombardatori dei Balcani, ha assicurato il rientro dei soldati italiani dall'Iraq entro l'autunno, negando il ritiro immediato. Ai dirigenti del "centro-sinistra", impegnati a tenere i piedi su due staffe, una tra il mondo dell'alta finanza, della grande imprenditoria, del Vaticano, dei circoli americani e massonici, e finanche della mafia, e l'altro tra il proprio elettorato dinanzi al quale non possono permettersi di perdere completamente la faccia, non è parso vero di "accontentare" i movimenti pacifisti semplicemente urlando che avrebbero mantenuto una promessa di Berlusconi: quella del ritiro dei soldati dall'Iraq entro l'inverno, appena anticipata all'autunno.
Contemporaneamente è stata confermata la presenza militare dell'Italia nell'occupazione dell'Afghanistan che prosegue da ormai cinque anni. Presenza che non solo non si è alleggerita, ma è stata anzi aumentata sia quantitativamente, con l'invio di ulteriori forze, che qualitativamente, con l'assunzione del comando della Task Force nel Mediterraneo, la quale tra l'altro compie anche operazioni di sostegno alla missione irakena.
Per mettere a tacere la critica più o meno timida di alcuni parlamentari "dissidenti" della "sinistra radicale" riguardo la conferma della missione afghana, l'Unione ha sostenuto di aver dovuto applicare ciò che era scritto sul Programma di governo per obbedire alla volontà degli elettori. Come se i 20 milioni di italiani, molto spesso lavoratori, che hanno sbarrato un qualche simbolo del "centro-sinistra", avessero letto le 281 pagine del Programma, come se lo avessero anzi scritto loro stessi e lo avessero accettato in ogni singola parte. Tale ipocrita giustificazione però, oltre a ricordare che non era poi così difficile nutrire sfiducia nella politica estera del nuovo governo prima che questo la spostasse dalla carta alla realtà, mette in luce il carattere pienamente presidenzialista del "centro-sinistra", in tutto e per tutto omologato alla seconda repubblica.
Come se non bastasse, Prodi e Parisi non hanno esitato a promuovere in prima linea la missione militare Onu in Libano, sulla quale va fatta un po' di chiarezza.
Essa viene spacciata per una missione di pace. In realtà si tratta di una missione di guerra: a cosa serve altrimenti l'enorme apparato bellico spedito nella regione, composto tra l'altro da navi da guerra, mezzi corazzati, reparti d'assalto, elicotteri da combattimento? Nelle regole d'ingaggio (per quel poco che sono state rese pubbliche) si autorizza esplicitamente i soldati a sparare non solo se aggrediti, ma anche per "prevenire" gli attacchi. È ad ogni modo curioso che Prodi e Bertinotti cerchino di mascherare questa missione con lo stesso appellativo di "missione di pace" con cui Berlusconi ha tentato invano di mascherare la guerra imperialista in Iraq. Ci ha già pensato il ben informato Cossiga, prima che ci pensino i fatti, a mettere a nudo la realtà di questa missione: "Temo che molti in Italia non abbiano ancora capito. Lì si andrà a sparare, purtroppo" (intervista a "Il Giornale" del 27 agosto).
L'obiettivo di questa missione è quello di salvare gli aggressori israeliani nel momento in cui la resistenza libanese, organizzata per la maggioranza dagli Hezbollah, era finalmente riuscita a bloccare l'invasione israeliana. Nella risoluzione dell'Onu infatti, non si parla mai di assicurare il ritiro immediato delle truppe di Israele dal territorio libanese, mentre si stabilisce quale compito specifico della missione il disarmo di Hezbollah, cioè della resistenza libanese, esattamente ciò in cui non era riuscito Israele. Proprio per questo il contingente multinazionale non viene stanziato nel Paese aggressore, e nemmeno in entrambi, ma nel Paese aggredito.
Ci viene detto che la funzione di questa missione è quella di salvaguardare il Libano dalle violenze israeliane. Ma quando mai si è vista una forza che, per difendere gli aggrediti, li disarma e al contempo garantisce all'aggressore la libertà di restare sul loro territorio? Una forza che vuole "difendere" gli aggrediti dichiara forse tregua solo allorché essi conseguono le prime vittorie sull'invasore?
Senza dire che nella risoluzione dell'Onu non viene detta una parola sui crimini di Israele, che ha deliberatamente invaso un paese sovrano senza alcun preavviso, facendo tornare alla memoria le vili invasioni naziste ai danni dell'Austria nel '38, della Polonia nel '39 e della Russia nel '41, e ha compiuto stragi efferate, massacrato oltre 1.100 civili, distrutto 15.000 case, provocato un milione di profughi su un Paese di appena tre milioni di abitanti. Anzi vengono giustificati ufficialmente.
Questo per quanto riguarda le caratteristiche più visibili della missione, direttamente ricavabili dalle stesse dichiarazioni e documenti. Per quanto riguarda un'analisi più profonda, non dobbiamo mai dimenticare la celebre frase del generale Von Clausewitz divenuta parte integrante della visione materialista della storia, secondo cui " la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi".
Gli Stati che oggi sostengono la missione Onu in Libano, legati da mille fili economici politici e militari a Israele, hanno nel recente passato sempre sostenuto una politica filoisraeliana, antisiriana, antilibanese, antipalestinese, e il loro intervento militare in quella regione è la diretta continuazione, con le armi in mano, della politica precedente. Non è verosimile credere che senza armi sviluppino una politica e con le armi ne sviluppino una opposta.
Si sente dire che questa missione sarebbe legittima perché approvata e gestita dall'Onu. Ma non è certo il colore dei caschi che rende una missione giusta o sbagliata. In ogni caso non si può ignorare che l'Onu rappresenta oggi solo il luogo dove le varie potenze tentano di gestire le reciproche contraddizioni interimperialiste. E dunque l'"unità dell'Onu" significa solo la temporanea ricomposizione degli interessi particolari delle varie potenze imperialiste attorno a un qualche interesse comune. Niente di più probabile che l'interesse comune all'imperialismo americano, a quello europeo, a quello russo, ecc., cozzi direttamente con l'interesse di un qualche popolo, in questo caso quello libanese. Fino a quando l'Onu sarà solo un "covo di briganti", per parafrasare la felice espressione con cui Lenin ebbe a indicare la defunta Società delle Nazioni, dove questi briganti "multilateralmente" e "democraticamente" tentano di accordarsi sulla spartizione del bottino, il sigillo Onu non solo non dimostrerà la legittimità di una missione, ma anzi la metterà ulteriormente in dubbio.
Gli interessi particolari dei vari Stati si sono in questo caso risolti attorno al comune interesse politico strategico di salvaguardare nella regione l'egemonia di Israele in quanto longa manus dell'imperialismo americano in Medioriente.
Ogni paese si differenzia poi nello sforzo e nelle richieste a seconda dei rispettivi interessi particolari. Così, non è un caso se le due potenze che si spendono maggiormente in questa missione in terra libanese, ossia l'Italia e la Francia, sono rispettivamente il primo partner commerciale e il primo creditore del Libano. La seconda, assieme all'Arabia Saudita, altra grande sostenitrice di Israele, ha in passato esercitato pressioni sul governo libanese affinché privatizzasse i beni pubblici, col risultato di favorire la penetrazione delle aziende straniere. La prima ha invece firmato un trattato militare segreto con l'aggressore israeliano.
Il ruolo di prima importanza assunto dall'Europa in generale in questa missione si spiega anche con l'esistenza del progetto Mercato Unico Euro-mediterraneo del 2010 volto a garantire la penetrazione dei capitali europei nella regione, oltre che ovviamente con l'importanza geopolitica del Medioriente.

Quale discontinuità col governo Berlusconi?
I dirigenti della "sinistra radicale" non perdono occasione per sottolineare la discontinuità in politica estera che la missione Onu rappresenterebbe. Obiettivamente, non si capisce dove stia questa discontinuità. Un unico filo imperialista lega la politica estera di Berlusconi e Fini con quella di Prodi e D'Alema, ossia la strenua difesa degli interessi del capitale italiano (dal quale non a caso Prodi è stato incoronato) in tutto il mondo, anche a costo di intervenire con le armi. Ovviamente ciò non significa che non esistano delle differenze dialettiche tra i due schieramenti, e negarlo comporterebbe di non comprendere il modo concreto in cui questa continuità si realizza.
Ma queste differenze non riguardano né la natura imperialista della politica estera, né il metodo interventista di questo imperialismo, né la struttura essenziale delle alleanze internazionali. Mentre per Berlusconi la posizione ideale per l'Italia e per l'Unione europea era, come per Blair, all'ombra degli Usa, per Prodi essa può meglio giocare il suo ruolo di grande potenza all'interno dell'Ue accanto all'asse franco-tedesco, ma sempre e comunque in stretta alleanza con gli "amici d'Oltreoceano". Di conseguenza, per Berlusconi l'unilateralismo americano rappresentava il carro su cui l'Italia doveva salire per giocare un ruolo nello scenario mondiale, mentre per Prodi il "multilateralismo" dell'Onu rappresenta la leva per rafforzare la posizione dell'Ue in alleanza con gli Usa. Questa e solo questa è la "discontinuità" del governo Prodi dal governo Berlusconi.
La continuazione della politica estera interventista ad ogni modo dimostra che la guerra non deriva dalla volontà di singoli ministri, governi o parlamenti, ma si impone ad essi come una necessità oggettiva dell'attuale fase del capitalismo.
Per ultimo, per non cadere nell'empirismo, in quel metodo di indagine cioè che isola ciascun fenomeno dal suo contesto, occorre inserire la politica estera del governo Prodi all'interno di tutta la sua politica generale: e ci si accorge che la continuità col governo Berlusconi non è prerogativa della politica estera, ma riguarda tutte le questioni anche sul piano interno, dalla finanziaria stangatrice alle privatizzazioni in cantiere, dal mantenimento dei Cpt e della logica repressiva sull'immigrazione al rifiuto di abrogare le controriforme Biagi e Moratti, ai già preannunciati attacchi alle pensioni, dal sopra citato presidenzialismo al promesso federalismo, ecc.

La triste parabola del pacifismo borghese: dalla "non violenza" alle "missioni di pace"
Quel che più risulta incomprensibile ad un osservatore sentimentale, è l'appoggio alle missioni militari dato da molte di quelle forze (PRC, Verdi, Manifesto, Tavola della pace, associazioni cattoliche, ecc.) che fino a ieri non solo si erano opposte con apparentemente fermezza alle guerre di Berlusconi, ma avevano anche elevato la "non-violenza" a principio assoluto e metafisico. Se nel caso dell'Afghanistan si è trattato per lo più di una rassegnata accettazione, nel caso del Libano si tratta di una vera e propria campagna interventista, tanto che la tradizionale Marcia della pace di Assisi è stata quest'anno trasformata in una vera Marcia della guerra a sostegno della missione in Libano.
Ciò non è frutto solo di un cattivo compromesso tra le forze "pacifiste" e quelle liberali e imperialiste nel "centro-sinistra", ma del naturale "sviluppo" del riformismo in socialsciovinismo. Nell'epoca dell'imperialismo lo sfruttamento dei paesi arretrati diventa una condizione necessaria per una politica di piccole e insignificanti concessioni economiche ai lavoratori dei paesi ricchi: l'appoggio delle forze riformiste dei paesi capitalisti alla propria borghesia contro i popoli dei paesi oppressi è la conseguenza politica più lampante di questa situazione economica.
Ieri che le forze riformiste stavano all'opposizione elaborarono la teoria della non-violenza assoluta quale teoria della capitolazione alle guerre imperialiste; oggi che stanno al governo gettano a mare la vecchia non-violenza in luogo della "nuova" teoria delle "missioni di pace" quale teoria del sostegno alle guerre imperialiste.
Le due "teorie" sembrano inconciliabili, invece non lo sono affatto. La teoria della "missione di pace" è solo lo sviluppo dialettico e conseguente della teoria della non violenza quando essa compie un necessario salto di qualità e si trasforma nel proprio opposto: è la dimostrazione più chiara della totale bancarotta del pacifismo borghese.
Se ieri i "non-violenti" facevano comunque parte del movimento contro la guerra, oggi i "missionari di pace" fanno parte a pieno titolo del fronte dell'imperialismo, hanno cioè definitivamente compiuto la loro parabola dalla codarda capitolazione al tradimento pieno.

18 ottobre 2006