Gloria eterna agli scioperanti del 1944
In occasione del 60° anniversario della coraggiosa rivolta operaia del marzo 1944 contro l'occupazione nazi-fascista il PMLI esprime eterna riconoscenza ai milioni di lavoratori, donne, giovani e antifascisti che a partire dal 1° marzo 1944 diedero vita alla più grande mobilitazione di massa contro le armate nazi-fasciste nell'Europa occupata. Oltre 1 milione e 200 mila lavoratori incrociarono le braccia e inflissero un colpo durissimo ai nazi-fascisti, contribuendo in maniera determinante alla loro definitiva sconfitta.
Quasi 4 anni di guerra, milioni di morti, sfollati e feriti, città interamente distrutte dai bombardamenti, la fame, i razionamenti, i salari decurtati, la giornata di lavoro che superava le 10 ore, l'insopportabile militarizzazione del lavoro e l'economia di guerra, con il supersfruttamento e la feroce repressione di qualsiasi tentativo di ribellione, avevano oramai ridotto allo stremo la sopportazione del popolo italiano.
Ma le cause principali che portarono agli scioperi del marzo '44 non furono solo economiche e sociali. Sul piano politico va ricordato che, dopo la caduta del regime mussoliniano il 25 luglio del '43, l'armistizio badogliano dell'8 settembre, la riorganizzazione dei fascisti sotto le bandiere della "repubblica di Salò" e la conseguente occupazione nazi-fascista, la situazione diventò ancora più dura e alla classe operaia apparve chiaro che ormai l'unico modo per ottenere la pace e riconquistare la libertà era la ribellione di massa contro gli aguzzini in camicia nera.
Un potente impulso in questa direzione lo esercitò sul gruppo di operai comunisti che organizzarono la protesta e sull'intero proletariato italiano la vittoriosa battaglia di Stalingrado e la grande controffensiva sovietica che tra la fine del '42 e l'inizio del '43 capovolse le sorti del conflitto mondiale, infliggendo una dura e irreversibile sconfitta alle armate hitleriane (e anche italiane), che fino ad allora sembravano invincibili su tutti i fronti. Va ricordato che già l'anno prima, il 5 marzo del '43, c'erano stati i primi scioperi alla Fiat. Oltre che a Torino gli operai erano scesi in sciopero a Milano, Porto Marghera, Bologna e Firenze ed erano riusciti a strappare un pur misero aumento salariale e qualche pacco viveri, ma la miseria e la fame continuavano a farla da padrone soprattutto quando tra il gennaio e il febbraio del '44 i fascisti e i capitalisti tolsero agli operai sia gli aumenti che i pacchi viveri.
Di fronte a questa situazione, il 1° marzo 1944 i lavoratori delle fabbriche del Centro-Nord ancora occupate dai tedeschi scendono in sciopero: per una settimana la grande industria italiana si ferma. L'aumento della produzione imposta dai tedeschi subisce un duro colpo. Epicentro del grande movimento di lotta sono le città di Torino e Milano dove la popolazione è ormai ai limiti della sopravvivenza.
A Torino, nonostante il giorno prima Zerbino, il capo fascista della provincia, avesse comunicato la messa in ferie delle fabbriche, giustificando tale provvedimento con la mancanza di acqua e quindi di energia elettrica, lo sciopero non viene sospeso. Vengono escluse dal provvedimento una serie di fabbriche, tra cui tutto il complesso Fiat, decisivo per le esigenze belliche. Seguendo l'appello del Comitato d'agitazione, diffuso nella fabbriche con un volantino clandestino, il 1° marzo scioperano in 60.000; alla sera Zerbino ordina la ripresa del lavoro per l'indomani, 2 marzo, minacciando la chiusura degli stabilimenti, con perdita delle retribuzioni, arresti e deportazioni in campo di concentramento, licenziamento in tronco e perdita dell'esonero per i lavoratori che hanno l'obbligo del servizio militare.
Nonostante queste minacce il 2 marzo l'esempio degli operai Fiat viene seguito dalla stragrande maggioranza delle fabbriche in attività (Zenith, Viberti, Ceat, Rasetti) e scioperano in 70.000, mentre in città vengono sabotate diverse linee tranviarie.
Il 3 marzo gli operai della Grandi Motori Fiat vengono attaccati dai fascisti all'uscita della fabbrica e numerosi sono i feriti. Intorno a Torino intervengono a sostegno dello sciopero le formazioni partigiane insediate ad ovest della città con l'obiettivo di interrompere i collegamenti tra Torino e le valli di Lanzo, la Val di Susa, la Val Sangone e la zona di Pinerolo.
In Valsesia sono i partigiani garibaldini a decretare lo sciopero, mentre in Val d'Aosta vengono compiuti atti di sabotaggio a sostegno dello sciopero: vengono interrotte le linee elettriche e danneggiati gli impianti per paralizzare alcuni dei più importanti complessi industriali della regione.
Il 3 marzo la Fiat dichiara la serrata degli stabilimenti e da quel momento tutte le fabbriche sono bloccate o dalla serrata stessa o dalla presenza di presidi fascisti e tedeschi.
In tutto il Piemonte sono oltre 150 mila gli operai che hanno scioperato.
A Milano e in tutta la zona industriale limitrofa lo sciopero assume subito un carattere generale. Accanto agli operai delle fabbriche si fermano infatti per tre giorni anche i tranvieri, che paralizzano il trasporto pubblico della città, gli operai del "Corriere della Sera", che per tre giorni di seguito non esce in edicola, e gli impiegati della Edison e della Montecatini.
Il generale delle SS Paul Zimmerman decreta lo stato d'assedio delle fabbriche, intima la consegna delle liste degli operai schedati come sovversivi, fa sospendere ogni pagamento dei salari. Ma lo sciopero non si arresta e prosegue sino all'8 Marzo, coinvolgendo sia le grandi fabbriche che le decine e decine di piccole e medie industrie.
Alla Breda di Sesto San Giovanni un ufficiale delle SS intima agli operai: "Chi non lavora esca dalla fabbrica e chi non lavora ed esce dalla fabbrica, è un nemico della Germania". Gli operai gli rispondono uscendo, uno ad uno, dalla fabbrica. Sempre a Sesto San Giovanni, la Magneti Marelli entra in sciopero compatta alle 10 esatte del 1° marzo: è un'operaia di 18 anni, Teresina Ghioni, che si prende l'incarico di abbassare, sotto gli occhi dei tedeschi, le leve a coltello per interrompere l'erogazione di energia elettrica all'intero stabilimento. Molte fabbriche, tra cui la Pirelli, vengono occupate militarmente. Si calcolano circa trecentomila scioperanti sin dal primo giorno, nonostante la reazione dei nazifascisti che cercano con ogni mezzo di fermare i lavoratori: arresti, deportazioni, ritiro delle tessere alimentari.
Compatta la partecipazione allo sciopero dei tranvieri milanesi. Per tre giorni su 800 vetture escono solo quelle guidate dai fascisti, che nel giro di poche ore fracassano per imperizia centosessantasei vetture. La lotta dei tranvieri è sostenuta dai gappisti, che fanno saltare la cabina elettrica che fornisce energia elettrica alla rete nord dei mezzi pubblici. Squadristi fascisti irrompono nei depositi dei tranvieri di via Brioschi, via Primaticcio e via Teodosio, per prelevare i conducenti e costringerli con la forza a riprendere il lavoro, sotto la vigilanza di scorte armate. Alcuni tranvieri riprendono il servizio, ma poi abbandonano le vetture per la strada dopo averle rese inutilizzabili. Allo sciopero seguono centinaia di arresti, 35 tranvieri vengono deportati nei campi di concentramento.
Lo sciopero dei tranvieri di Milano ha un notevole risalto nei bollettini delle emittenti radio dei tre grandi Paesi alleati nella guerra contro la Germania nazista.
Radio Mosca: "Viva i lavoratori addetti ai tram milanesi! Grande sciopero generale contro i tedeschi e i fascisti di Salò. Le autorità militari sorprese dalla perfetta organizzazione e riuscita dello sciopero. Fascisti e tedeschi si sono assunti la responsabilità di guidare i tram provocando incidenti nella popolazione. Si registrano morti e feriti. Viva i tranvieri milanesi, a morte i tedeschi. Avanti verso l'insurrezione generale per la fine della guerra".
Radio Londra: "Grande sciopero dei tranvieri milanesi, la parola d'ordine è: via i tedeschi! Abbasso la repubblica di Salò. I lavoratori dei tram hanno dimostrato una perfetta identità di sentimenti con la popolazione milanese. Da Radio Londra inviamo un caloroso e fraterno saluto ai tranvieri per la dimostrazione di fede delle forze democratiche contro il nazi-fascismo."
La Voce dell'America: "Grande entusiasmo ha provocato la notizia che i tranvieri milanesi hanno proclamato uno sciopero generale, in piena occupazione militare nazi-fascista. Tutta la stampa americana esalta il coraggio e il patriottismo di questi lavoratori addetti al servizio pubblico cittadino, sfidando la prepotenza degli eserciti occupanti. Le astensioni dal lavoro sono al 100%. Si vedono per Milano tram condotti da giovinastri volontari delle forze armate nazi-fasciste, provocando gravi incidenti con morti e feriti. Viva i tranvieri milanesi!"
Hitler minaccia fin da subito una repressione durissima e ordina ai suoi aguzzini di deportare il 20% degli scioperanti e metterli a disposizione di Himmler per il servizio del lavoro.
Ma la lotta non si ferma, anzi si intensifica e si allarga sempre di più. Al fianco degli operai si schiera il CLNAI (Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia) e alle rivendicazioni economiche degli operai si affiancano anche quelle politiche contro la guerra e l'occupazione nazi-fascista. Nonostante gli arresti e la deportazioni di migliaia di lavoratori, lo sciopero dura sino all'8 Marzo, quando il lavoro riprende, in base alle indicazioni date dal Comitato di agitazione interregionale.
Oltre che a Torino e Milano, imponenti scioperi si verificano in tutte le regioni ancora sotto l'occupazione nazi-fascista.
A Legnano gli operai della Franco Tosi, fabbrica interessata alla produzione bellica (mine, tubi di lancio, ecc.), anticipano di quasi due mesi la mobilitazione del 1° marzo e agli inizi di gennaio entrano in sciopero. Il generale delle SS Zimmerman fa visita alla fabbrica nella speranza di poter convincere, con minacce e false promesse, le maestranze a riprendere il lavoro. La lotta invece continua, diretta dai rappresentanti della Commissione interna, che chiedono l'aumento delle razioni di pane, dei salari e degli stipendi.
Per cercare di sbloccare la situazione la mattina del 5 gennaio camion carichi di SS entrano alla Franco Tosi: vengono piazzate le mitragliatrici contro i lavoratori che in quel momento sono radunati nel piazzale centrale dello stabilimento. Tramite un altoparlante viene ordinato ai lavoratori di ritornare in fabbrica, ma nessuno si muove. Allora il comandante delle SS ordina "fuoco", ma fortunatamente le raffiche delle mitragliatrici sono rivolte in aria. I lavoratori si disperdono nei reparti della fabbrica e i tedeschi cominciano la caccia ai rappresentanti della Commissione interna e ai più noti antifascisti.
Ottanta lavoratori vengono portati al carcere di San Vittore; vengono tutti rilasciati alcuni giorni dopo, tranne nove, quasi tutti appartenenti alla Commissione interna, che vengono deportati a Mauthausen.
Dopo lo sciopero di gennaio, i lavoratori della Franco Tosi iniziano una resistenza passiva, con lo scopo di rallentare la produzione bellica e produrre clandestinamente baionette, chiodi a tre punte per bloccare gli automezzi tedeschi, barre di deviamento per far deragliare le tradotte tedesche e i convogli carichi di armi.
In Liguria gli scioperi si concentrano soprattutto nel Savonese. A Savona, a Vado Ligure, a Finale e nella Valbormida si hanno scioperi nelle maggiori fabbriche (Brown Boveri, Ilva, Sams, Servettaz, Piaggio). A Pietra Ligure entrano in agitazione millecinquecento operai. Dovunque si scatena la reazione nazifascista con l'irruzione nelle fabbriche di reparti armati tedeschi e italiani, rastrellamenti interni, arresti e deportazioni. Nella sola Savona i deportati sono sessantasette, di cui solo otto faranno ritorno a casa. A La Spezia scioperano circa seimila operai dell'Oto Melara, della Termomeccanica, dei cantieri di Muggiano, dello Jutificio Montecatini. Alla fonderia di piombo della Pertusola, le milizie fasciste puntano i mitra sulla schiena degli operai in sciopero perché riprendano il lavoro, minacciando fucilazioni e deportazioni.
In Emilia-Romagna, Bologna è all'avanguardia. Qui i primi a scioperare sono gli operai della Ducati. Reparti di SS occupano lo stabilimento, ma non riescono a impedire lo sciopero. I lavoratori si rifiutano di trattare con i tedeschi e i reparti della fabbrica vengono invasi dalle SS, dalle guardie repubblichine e dagli agenti della questura che, armi alla mano, intimano la ripresa del lavoro. L'intimidazione cade nel vuoto e i nazifascisti arrestano 9 operai e 5 operaie tra i più combattivi. L'esempio di Bologna viene seguito dagli operai delle fabbriche di Reggio, Parma, Piacenza e Cesena.
In Veneto si verificano episodi di lotta nei maggiori centri industriali come Schio, Valdagno, Bassano e Porto Marghera. Le donne in particolare sono in prima linea a Valdagno: qui nel lanificio Marzotto, che occupa 4.000 operaie, lo sciopero è compatto.
In Toscana a Firenze scendono in sciopero gli operai della Galileo, della Pignone, della Cipriani e della Ginori. In tutto 20.000 operai in lotta, sostenuti dai Gap che sabotano le linee tranviarie e incendiano la sede dei sindacati fascisti, nella quale erano già state preparate le schede degli operai da inviare in Germania. Scioperi anche in altre città della Toscana, come a Empoli, Abbadia San Salvatore e soprattutto a Prato, dove vengono deportati per rappresaglia circa 400 lavoratori, in massima parte annientati a Ebensee, sottocampo di Mauthausen.
La repressione nazifascista degli scioperi è feroce. Migliaia di semplici lavoratori e di antifascisti vengono arrestati: per loro non ci sono interrogatori, i nazi-fascisti non cercano neppure di provare la loro partecipazione agli scioperi. Vengono portati nelle questure, nelle caserme o nelle carceri; a migliaia vengono deportati in Germania e la grande maggioranza di loro non tornerà più. Difficile fare un calcolo esatto dei diversi "trasporti" verso i Lager. I principali di marzo sono quattro: uno parte da Milano l'11 marzo con circa 100 deportati, destinazione Mauthausen; il secondo il 7 marzo da Torino con 150 lavoratori; il terzo da Firenze l'8 marzo: dopo aver fatto sosta a Fossoli e Verona, giunge a Mauthausen con circa 600 deportati; il quarto si costituisce a Bergamo il 16 marzo - anch'esso diretto a Mauthausen - con oltre 650 deportati provenienti in gran parte da Torino, Milano, Genova, Savona e dall'hinterland milanese. A Torino una relazione fascista del 6 marzo parla di 400 deportati, che probabilmente comprende sia gli operai arrestati sia i giovani catturati nelle operazioni di rastrellamento condotte nelle zone in cui i partigiani avevano con più decisione sostenuto lo sciopero. Altre centinaia furono arrestati e deportati dal circondario di Sesto San Giovanni. In totale si calcola che i deportati siano stati diverse migliaia, di cui il 90% non ritornò a casa a guerra finita.
24 marzo 2004