L'ultimo capitolo di "Salario, prezzo e profitto"
Marx: lotta per il salario e lotta per la soppressione del sistema del lavoro salariato
Nel ricordare il 129° Anniversario della scomparsa di Marx, avvenuta il 14 marzo 1883, proponiamo ai nostri lettori l'ultimo capitolo della sua opera, Salario, prezzo e profitto, scritta nel 1865. Il titolo è, dunque, redazionale.

La lotta tra capitale e lavoro e i suoi risultati

Primo. Dopo aver dimostrato che la resistenza periodica opposta dagli operai contro la diminuzione dei salari e gli sforzi che essi fanno di tempo in tempo per avere degli aumenti di salario sono inseparabili dal sistema del salario e dettati dal fatto stesso che il lavoro è parificato alle merci, e che perciò è soggetto alle leggi che regolano il movimento generale dei prezzi; dopo aver mostrato, in seguito, che un rialzo generale dei salari provocherebbe una caduta del saggio generale del profitto, senza esercitare alcuna influenza sui prezzi medi delle merci o sui loro valori, sorge ora infine la questione di sapere fino a qual punto, in questa lotta incessante tra capitale e lavoro, quest'ultimo ha delle prospettive di successo.
Potrei rispondere con una generalizzazione, e dire che il prezzo di mercato del lavoro, come quello di tutte le altre merci, si adatterà a lungo andare al suo valore; che perciò, malgrado tutti gli alti e bassi, e malgrado tutto ciò che l'operaio possa fare, in ultima analisi egli non riceverà in media che il valore del suo lavoro, il quale si risolve nel valore della sua forza-lavoro, determinato a sua volta dal valore degli oggetti d'uso necessari per la sua conservazione e la sua riproduzione, valore che, infine, è regolato dalla quantità di lavoro necessaria per la loro produzione.
Ma vi sono alcune circostanze particolari, che differenziano il valore della forza-lavoro o il valore del lavoro dai valori di tutte le altre merci. Il valore della forza-lavoro è costituito da due elementi, di cui l'uno è unicamente fisico, l'altro storico o sociale. Il suo limite minimo è determinato dall'elemento fisico, il che vuol dire che la classe operaia, per conservarsi e per rinnovarsi, per perpetuare la propria esistenza fisica, deve ricevere gli oggetti d'uso assolutamente necessari per la sua vita e per la sua riproduzione. Il valore di questi oggetti d'uso assolutamente necessari costituisce quindi il limite minimo del valore del lavoro. D'altra parte anche la durata della giornata di lavoro ha il suo limite estremo, quantunque assai elastico. Questo limite estremo è dato dalla forza fisica dell'operaio. Se l'esaurimento giornaliero della sua forza vitale supera un certo limite, questa non può rimettersi ogni giorno in attività. Però, come abbiamo detto, questo limite è molto elastico. Una successione rapida di generazioni deboli e di breve esistenza può servire il mercato del lavoro così bene come una serie di generazioni robuste e di lunga esistenza.
Oltre che da questo elemento puramente fisico, il valore del lavoro è determinato dal tenore di vita tradizionale in ogni paese. Esso non consiste soltanto nella vita fisica, ma nel soddisfacimento di determinati bisogni, che nascono dalle condizioni sociali in cui gli uomini vivono e sono stati educati. Il tenore di vita inglese potrebbe essere abbassato a quello degli irlandesi, il tenore di vita di un contadino tedesco a quello di un contadino della Livonia. L'importanza della parte che assumono, a questo riguardo, la tradizione storica e le abitudini sociali, potete rilevarla dal libro del signor Thornton sulla sovrappopolazione, nel quale egli mostra che i salari medi nelle diverse regioni agrarie dell'Inghilterra sono ancora oggi differenti, a seconda delle circostanze più o meno favorevoli nelle quali queste regioni hanno scosso il giogo del servaggio.
Questo elemento storico o sociale, che entra nel valore del lavoro, può aumentare o diminuire, e anche annullarsi, in modo che non rimanga che il limite fisico. Al tempo della guerra antigiacobina, la quale, come usava dire l'incorreggibile divoratore di imposte e di sinecure, il vecchio George Rose, fu fatta per salvare i comodi della nostra santissima religione dagli assalti dei francesi miscredenti, gli onesti agrari inglesi - che in una precedente nostra seduta abbiamo trattato con tanto riguardo -, ridussero i salari dei lavoratori agricoli persino al di sotto di questo minimo puramente fisico, e fecero aggiungere, mediante le leggi in favore dei poveri, il rimanente necessario per la conservazione fisica della razza. Fu questo un modo brillante per trasformare l'operaio salariato in uno schiavo, e il fiero libero contadino di Shakespeare in un povero.
Se confrontate tra loro i salari normali o i valori del lavoro in diversi Paesi e in diverse epoche storiche dello stesso Paese, troverete che il valore del lavoro non è una grandezza fissa, ma una grandezza variabile, anche se si suppone che i valori di tutte le altre merci rimangano costanti.
Lo stesso confronto per quanto riguarda i saggi di mercato del profitto, dimostrerebbe che non solo essi cambiano, ma che cambiano anche i loro saggi medi.
In quanto ai profitti, non esiste nessuna legge che ne determini il minimo. Non possiamo dire qual è il limite ultimo al quale essi possono cadere. E perché non possiamo stabilire questo limite? Perché siamo in condizione di stabilire i salari minimi, ma non quelli massimi. Possiamo soltanto dire che dati i limiti della giornata di lavoro, il massimo del profitto corrisponde al limite fisico minimo dei salari, e che, dati i salari, il massimo del profitto corrisponde a quella estensione della giornata di lavoro che è ancora compatibile con le forze fisiche dell'operaio. Il massimo del profitto è dunque limitato solamente dal minimo fisico dei salari e dal massimo fisico della giornata di lavoro. È chiaro che fra questi due limiti del saggio massimo del profitto è possibile una serie immensa di variazioni. La determinazione del suo livello reale viene decisa soltanto dalla lotta incessante tra capitale e lavoro; il capitalista cerca costantemente di ridurre i salari al loro limite fisico minimo e di estendere la giornata di lavoro al suo limite fisico massimo, mentre l'operaio esercita costantemente una pressione in senso opposto.
La cosa si riduce alla questione dei rapporti di forza delle parti in lotta.
Secondo. Per quanto riguarda la limitazione della giornata di lavoro in Inghilterra e in tutti gli altri paesi, essa non è mai stata regolata altrimenti che per intervento legislativo. Senza la pressione costante degli operai dall'esterno, questo intervento non si sarebbe mai verificato. Ad ogni modo, il risultato non avrebbe potuto essere raggiunto per via di accordi privati fra gli operai e i capitalisti. È proprio questa necessità di una azione politica generale che ci fornisce la prova che nella lotta puramente economica il capitale è il più forte.
In quanto al limite del valore del lavoro, la sua determinazione reale dipende sempre dalla domanda e dall'offerta, intendo dire dalla domanda di lavoro da parte del capitale, e dall'offerta di lavoro da parte degli operai. Nei paesi coloniali la legge della domanda e dell'offerta è favorevole all'operaio. Ciò spiega il livello relativamente alto dei salari negli Stati Uniti d'America. In questo paese il capitale può tentare tutto quello che vuole; esso non può impedire che il mercato del lavoro si svuoti continuamente in seguito alla trasformazione continua degli operai salariati in contadini indipendenti, che provvedono a se stessi. La condizione di operaio salariato è per una parte molto grande degli americani soltanto uno stadio transitorio, che essi sicuramente abbandonano dopo un tempo più o meno breve. Per far fronte a questo stato di cose che esiste nelle colonie, il paterno governo britannico ha fatto propria durante un certo periodo di tempo la cosiddetta teoria moderna della colonizzazione, che consiste nell'innalzare artificialmente il prezzo delle terre nelle colonie, per impedire in tal modo la trasformazione troppo rapida dell'operaio salariato in un contadino indipendente.
Passiamo ora ai paesi di vecchia civiltà, nei quali il capitale domina interamente il processo della produzione. Prendiamo, per esempio, l'aumento dei salari degli operai agricoli in Inghilterra dal 1849 al 1859. Quale ne fu la conseguenza? I coltivatori non poterono, come avrebbe consigliato loro il nostro amico Weston, aumentare il valore del grano, e nemmeno i suoi prezzi di mercato. Al contrario, dovettero accomodarsi alla loro caduta. Ma durante questi undici anni essi introdussero ogni sorta di macchine e nuovi metodi scientifici, trasformarono una parte del terreno arato in pascolo, aumentarono le dimensioni delle aziende agricole e perciò il volume della produzione; e con questi e altri mezzi avendo ridotto la domanda di lavoro accrescendone la forza produttiva, fecero sì che la popolazione lavoratrice delle campagne diventò di nuovo relativamente sovrabbondante. È questo il metodo generale secondo il quale, nei paesi vecchi, dove il suolo è occupato, si compiono più o meno rapidamente le reazioni del capitale agli aumenti di salario. Ricardo ha giustamente osservato che la macchina si trova in continua concorrenza col lavoro e spesso può essere introdotta solo quando il prezzo del lavoro ha raggiunto una certa altezza; ma l'adozione della macchina non è che uno dei molti metodi per aumentare la forza produttiva del lavoro. Lo stesso processo che rende relativamente superfluo il lavoro abituale semplifica, d'altra parte, il lavoro qualificato e perciò lo svaluta.
La stessa legge si fa valere anche in un'altra forma. Con lo sviluppo delle forze produttive del lavoro, l'accumulazione di capitale è molto accelerata, anche se il livello dei salari sia relativamente alto. Si potrebbe dunque concludere - come ha ritenuto A. Smith, ai tempi del quale l'industria moderna si trovava ancora ai suoi albori - che questa accumulazione accelerata di capitale deve far traboccare la bilancia a favore dell'operaio, in quanto crea una domanda crescente del suo lavoro. Per questa stessa ragione molti scrittori contemporanei si sono meravigliati che, sebbene il capitale inglese sia aumentato in questi ultimi venti anni molto più rapidamente della popolazione inglese, i salari non siano più aumentati. Ma parallelamente all'accumulazione progressiva del capitale ha luogo una modificazione crescente nella composizione del capitale. Quella parte del capitale che è formata da capitale fisso, macchine, materie prime, mezzi di produzione d'ogni genere, aumenta più rapidamente di quell'altra parte del capitale che viene investita in salari, cioè per comperare lavoro. In forma più o meno precisa, questa legge è stata stabilita da Barton, Ricardo, Sismondi, dal professor Richard Jones, del professor Ramsay, da Cherbuliez e altri.
Se il rapporto primitivo fra questi due elementi del capitale era uno a uno, col progredire dell'industria esso diventa cinque a uno, ecc. Se di un capitale globale di seicento, si investono trecento parti in strumenti di lavoro, materie prime, e così via, e trecento in salari, basta raddoppiare il capitale globale per creare una domanda di seicento operai invece che di trecento. Ma se di un capitale di seicento, cinquecento parti sono investite in macchine, materie prime, e così via e soltanto cento in salari, questo capitale deve salire da 600 a 3.600 per creare una domanda di seicento operai invece che di trecento. Con lo sviluppo dell'industria la domanda di lavoro non procede dunque di pari passo con l'accumulazione del capitale. Essa aumenta indubbiamente, ma in proporzione continuamente decrescente rispetto all'aumento del capitale.
Queste poche indicazioni basteranno per dimostrare che proprio lo sviluppo dell'industria moderna deve far pendere la bilancia sempre più a favore del capitalista, contro l'operaio, e che per conseguenza la tendenza generale della produzione capitalistica non è all'aumento del livello medio dei salari, ma alla diminuzione di esso, cioè a spingere il valore del lavoro, su per giù, al suo limite più basso. Se tale è in questo sistema la tendenza delle cose, significa forse ciò che la classe operaia deve rinunciare alla sua resistenza contro gli attacchi del capitale e deve abbandonare i suoi sforzi per strappare dalle occasioni che le si presentano tutto ciò che può servire a migliorare temporaneamente la sua situazione? Se essa lo facesse, essa si ridurrebbe al livello di una massa amorfa di affamati e di disperati, a cui non si potrebbe più dare nessun aiuto. Credo di aver dimostrato che le lotte della classe operaia per il livello dei salari sono fenomeni inseparabili da tutto il sistema del salario, che in 99 casi su 100 i suoi sforzi per l'aumento dei salari non sono che tentativi per mantenere integro il valore dato del lavoro, e che la necessità di lottare con il capitalista per il prezzo del lavoro dipende dalla sua condizione, dal fatto che essa è costretta a vendersi come merce. Se la classe operaia cedesse per viltà nel suo conflitto quotidiano con il capitale, si priverebbe essa stessa della capacità di intraprendere un qualsiasi movimento più grande.
Nello stesso tempo la classe operaia, indipendentemente dalla servitù generale che è legata al sistema del lavoro salariato, non deve esagerare a se stessa il risultato finale di questa lotta quotidiana. Non deve dimenticare che essa lotta contro gli effetti, ma non contro le cause di questi effetti; che essa può soltanto frenare il movimento discendente, ma non mutarne la direzione; che essa applica soltanto dei palliativi, ma non cura la malattia. Perciò essa non deve lasciarsi assorbire esclusivamente da questa inevitabile guerriglia, che scaturisce incessantemente dagli attacchi continui del capitale o dai mutamenti del mercato. Essa deve comprendere che il sistema attuale, con tutte le miserie che accumula sulla classe operaia, genera nello stesso tempo le condizioni materiali e le forme sociali necessarie per una ricostruzione economica della società. Invece della parola d'ordine conservatrice: "Un equo salario per un'equa giornata di lavoro", gli operai devono scrivere sulla loro bandiera il motto rivoluzionario: "Soppressione del sistema del lavoro salariato".

14 marzo 2012