Scambio di confidenze tra due ex giovani fascisti
Napolitano: "non possiamo non dirci liberali"
Il presidente della Repubblica è da sempre liberale, ma non poteva dirlo quando era travestito da comunista

La videointervista concessa da Giorgio Napolitano a Eugenio Scalfari era senz'altro tra i pezzi forti della "Repubblica delle idee", la tre giorni di eventi organizzata quest'anno a Firenze per pompare la leadership di Renzi, il nuovo cavallo da corsa della "sinistra" borghese sponsorizzato dal quotidiano del magnate De Benedetti e dello stesso Scalfari dopo l'uscita di scena ingloriosa di Bersani.
In questa lunga intervista i due si scambiano molte complici confidenze, a partire dalle comuni militanze nei Guf (Gruppi universitari fascisti) nei primi anni '40, passando per gli anni '70 della "solidarietà nazionale" tra PCI e DC, fino ai recenti avvenimenti segnati dal golpe bianco della rielezione di Napolitano al Quirinale e dalla nascita del governo delle "larghe intese" Letta-Berlusconi.
Si può dire anzi che l'intervista volesse rappresentare una sorta di lascito testamentario da parte di Napolitano, la sua personale reinterpretazione della storia degli ultimi 70 anni per dimostrare che il suo percorso politico, pur attraversando le fasi storiche più disparate e contraddittorie della seconda metà del '900, è stato in fondo un tutto coerente dall'inizio alla fine, e sempre sotto un unico e costante segno: quello del liberalismo e del servizio alle istituzioni borghesi. Un testamento che non a caso ha voluto rilasciare a un altro ex giovane fascista e poi liberale come lui, praticamente suo coetaneo e col quale ha condiviso - salvo temporanee divergenze tattiche in qualche periodo - gli stessi valori e posizioni politiche: fino a sfociare oggi in una vera e propria complicità politica da parte del fondatore de La Repubblica, come dimostra il suo attacco ai magistrati di Palermo per aver osato intercettare il capo dello Stato, e la sua disinvolta virata di 180° a favore dell'alleanza tra il PD e il PDL e del governo Letta-Berlusconi.

L'oscura transizione di Napolitano dal fascismo al PCI
La video intervista comincia con la rievocazione, da parte di Scalfari, di una frase pronunciata da Napolitano nel 1995: "Perché non possiamo non dirci liberali". Frase che l'inquilino del Quirinale aveva parafrasato da quella più famosa del filosofo liberale Benedetto Croce, "Perché non possiamo non dirci cristiani". Per spiegare perché pronunciò quella frase, Napolitano ripercorre la propria storia spiegando come si avvicinò al PCI, a cui si iscrisse nel dicembre del 1945, dopo un avvicinamento "molto lento e pieno di dubbi". Napolitano apparteneva infatti a una famiglia napoletana alto borghese di tradizioni liberali, e il padre era un noto avvocato penalista liberale, "molto amico di De Nicola", che però negli anni '30 aveva aderito al partito fascista ("sotto il regime visse appartato, poi finì per prendere la tessera", si limita a dire restando sul vago).
Nel 1943, frequentando l'Università a Napoli, lui stesso si era iscritto ai Guf, ma di questo periodo racconta solo quel che gli serve per accennare della lettura e delle discussioni su alcuni testi marxisti e per affermare che in questi gruppi "si formarono anche molti antifascisti e molti comunisti": come a sottolineare che si formarono non malgrado ma grazie ai Guf, quasi che questi organismi fascisti fossero delle fucine di idee antifasciste e rivoluzionarie. Non una macchia da lavare, insomma, ma una medaglia da ostentare e di cui andare quasi orgogliosi, tant'è vero che anche Scalfari si associa prontamente all'operazione di auto-riabilitazione del proprio passato fascista aggiungendo che "anche io frequentavo il Guf, da cui fui espulso. Mi consideravo un giovane fascista, ma il fatto che ad espellermi fosse stato uno dei capi del Pnf, il vicesegretario Carlo Sforza, mi fece venire dei dubbi. E lì cominciò il mio viaggio attraverso il fascismo".
Sul periodo successivo, fino all'iscrizione al PCI sulla scia dell'infatuazione per Giorgio Amendola, il suo Mentore liberalsocialista e padrino politico, che lo fece eleggere subito delegato al V Congresso nazionale, Napolitano si tiene prudentemente coperto, parla solo di una sua collaborazione nel 1944 alla "Voce" diretto da Mario Alicata e di aver lavorato per le truppe americane di stanza a Capri. Eppure in quel periodo era ancora in corso la guerra di Mussolini e l'invasione dell'URSS, c'era stata l'occupazione nazista e poi l'insurrezione popolare che aveva liberato Napoli, poi ancora l'occupazione militare alleata della città: che posizioni prese Napolitano, e quale fu il suo ruolo, se ne ebbe uno, in tutti questi avvenimenti? Non lo dice. Salta direttamente all'iscrizione al PCI nel dicembre 1945, che avvenne "moltissimo sulla base di un impulso morale, assolutamente non sulla base di una maturazione ideologica". Non perché si sentisse un marxista, cioè, ma unicamente perché in quel momento il PCI era il partito che più di tutti gli altri "aveva combattuto contro il fascismo" e che più "si mescolava con il popolo".

Un intero vertice di liberali, opportunisti e doppiogiochisti
Del resto il giovane ex fascista e liberale Napolitano si era accorto subito che il PCI revisionista aveva ben poco di marxista e molto invece - come lui stesso ammette - di "riformismo negato in teoria ma largamente coltivato nella pratica". C'era insomma largo spazio anche per un destro e liberale come lui, e presto - sottolinea - dopo la polemica tra Togliatti e Bobbio su politica e cultura, "cominciai a capire alcuni elementi del pensiero liberale e liberaldemocratico che non collimavano con la visione del partito comunista". Ma perfino lo stesso Togliatti, lascia intendere Napolitano, inclinava al liberalismo e al riformismo e aveva una concezione poco allineato con la Terza Internazionale e il PCUS di Lenin e Stalin, ma piuttosto "nazionale e autonoma" del partito. Tanto che "sentiva l'URSS come una prigione" (quando vi andò nei primi anni '50 per trascorrervi, ricorda, un periodo di convalescenza), e rifiutò l'invito di Stalin a restare per dirigere il Cominform: "Aveva assaporato la libertà", sottolinea Napolitano, rammentando che prima di morire Togliatti aveva preparato un memoriale da inviare a Krusciov in cui sosteneva la necessità di "superare il partito comunista".
Circa la sua posizione di condanna della controrivoluzione ungherese del '56, su cui fece pubblica autocritica dopo la sua elezione al Quirinale, rammenta che tutto il gruppo dirigente del PCI fu allora fermo su quella posizione, da Amendola fino a Ingrao. Tutti e due, al di là delle collocazioni apparentemente opposte nel partito, furono suoi grandi amici personali: Amendola, in quanto propugnatore di un PCI "né comunista né socialdemocratico" è da considerare per lui addirittura "il precursore del PD". Sorprendentemente (ma non tanto), anche con il trotzkista Ingrao egli ha avuto "un magnifico rapporto personale", e lui è stato "un magnifico presidente della Camera".
Lo stesso dicasi per Berlinguer: "Eravamo molto amici, anche le famiglie, e anche molto solidali politicamente", dice l'inquilino del Quirinale, riducendo le uniche divergenze con lui al fatto che egli considerava i governi di "solidarietà nazionale" un'alleanza PCI-DC per affrontare la crisi economica e il terrorismo, e per dirlo ufficialmente (chiara l'allusione alle attuali "larghe intese", ndr), mentre Berlinguer voleva dissimulare tale alleanza con il "compromesso storico", introducendovi motivi "mitici" tipo la via per "introdurre elementi di socialismo in Italia". Tutti e due volevano la stessa cosa, ma Berlinguer doveva coprirsi di fronte alla base del partito agitando ancora un simulacro di socialismo, mentre Napolitano cominciava già allora a venire allo scoperto, cosa che avverrà compiutamente costituendo l'ala "migliorista" del PCI protesa al dialogo e poi all'annessione del PCI da parte del PSI di Craxi.

Uomo delle istituzioni borghesi da sempre
Comincia allora anche la costante ascesa di Napolitano all'interno delle istituzioni, che lo porterà alla presidenza della Camera e poi, per ben due volte, alla presidenza della Repubblica. Egli sottolinea anzi con enfasi di essere sempre stato un uomo delle istituzioni borghesi, più che di partito come altri dirigenti del PCI, e questo fin dal suo ingresso in parlamento all'età di 28 anni, nel cui lavoro si "immerse" fin da subito. Un percorso compiuto conservando sempre la sua anima liberale, e tuttavia senza mai entrare in conflitto con la sua storia di ex dirigente revisionista del PCI, grazie alla composizione di questi due elementi solo apparentemente contraddittori nella cornice liberalsocialista: "Il liberalismo è principio fondante di qualsiasi trasformazione della società", conclude infatti Napolitano, rifacendosi a Croce e alla sua distinzione tra liberalismo e liberismo. E il liberale di provenienza azionista Scalfari, prontamente lo accoglie in famiglia: "Infatti noi ci chiamiamo liberali di sinistra", chiosa trionfante.
Quindi il messaggio del rinnegato Napolitano ai "posteri" è in sostanza il seguente: io non sono mai stato comunista, anzi sono sempre stato un liberale di stampo crociano, pur essendomi dovuto adeguare fino ad un certo periodo alla linea ufficiale del vertice revisionista del PCI. Ma anche quest'ultimo, chi più apertamente e chi sotto sotto, era liberale e riformista, dalla destra amendoliana fino alla "sinistra" trotzkista ingraiana, passando perfino per Togliatti e Berlinguer.
Solo che allora tutti questi opportunisti e doppiogiochisti, di cui il rinnegato Napolitano è il caso più compiuto ed emblematico, dovevano mascherarsi da comunisti di fronte alla base operaia e popolare del partito e di fronte al movimento operaio e comunista internazionale, almeno finché era vivo Stalin ed esisteva l'URSS. Oggi, compiuto il loro sporco lavoro, possono proclamare tranquillamente a tutto il mondo di essere sempre stati dei liberali borghesi travestiti da comunisti, in realtà revisionisti.

Ritorno al liberalismo crociano
Si conclude così, con il pieno ritorno al liberalismo crociano, la parabola iniziata con la fondazione stessa del PCI revisionista nel 1921, avvenuta sotto il segno ideale di Croce a cui era inestricabilmente ancorato il suo stesso fondatore Antonio Gramsci, il primo liberalsocialista del PCI. Confermando con ciò che il PCI non era nato dal ceppo marxista-leninista dell'Unione Sovietica di Lenin e Stalin e della III Internazionale, ma da quello dell'idealismo borghese di stampo crociano. La dimostrazione più evidente sta nella Costituzione borghese del 1948 e nei suoi principi liberali, che il PCI riconobbe sempre come un accordo strategico e un limite invalicabile, e non un compromesso tattico sulla via della rivoluzione socialista in Italia; obiettivo a cui non ha mai veramente creduto e di cui si è presto sbarazzato anche ufficialmente sostituendolo con la "via italiana al socialismo" attraverso le "riforme di struttura", e via via col "compromesso storico", l'"alternativa democratica" e altri simili formule demagogiche e truffaldine. Fino ad arrivare al suo autoscioglimento nel 1991, che ha solo posto fine ad un inganno durato 70 anni, per partorire quel mostriciattolo liberalsocialista del PDS destinato a trasformarsi nel PD liberale, oggi al governo col neoduce Berlusconi per diretta volontà del presidenzialista Napolitano.
Una fine per nulla ingloriosa e vergognosa, ma anzi del tutto naturale quella del PD per il rinnegato del Quirinale, che anzi si indigna sentendo "serpeggiare la preoccupazione che questa alleanza possa durare troppo", che qualcuno possa far cadere il governo Letta-Berlusconi, che invece deve "vivere per un'esigenza minima di stabilità istituzionale e di sopravvivenza del Paese". E per fare la controriforma presidenzialista della Costituzione, sulla quale, ribadisce, "bisogna trovare il consenso più largo": "Il governo deve vivere, e in questo momento io sono per le riforme", sbotta infatti Napolitano lanciando un ultimo monito prima di concludere la videointervista.
Col che questo rinnegato e golpista chiude storicamente il cerchio ricongiungendo il nuovo con il vecchio liberalismo. E infatti, come i vecchi liberali aprirono le porte a Mussolini e al fascismo, così oggi il liberale Napolitano apre le porte al neoduce Berlusconi e all'ufficializzazione della repubblica presidenziale, secondo il piano neofascista e golpista della P2.
Avevamo visto giusto noi marxisti-leninisti italiani, sin dai primi passi dei primi pionieri del PMLI nel lontano 29 settembre 1967, a denunciare che il gruppo dirigente del PCI già dalla fondazione nel 1921 non è mai stato una direzione marxista-leninista ma opportunista e revisionista e che l'elemento fondamentale che ha caratterizzato la storia del PCI è stato l'inganno politico. Come si legge nel documento del CC del PMLI del 21 gennaio 1991 che faceva un bilancio della storia del PCI alla vigilia della sua definitiva liquidazione: "Il PCI si è costituito nel '21 per abbattere il capitalismo e realizzare il socialismo, tramite la lotta di classe e la rivoluzione socialista, mentre in realtà in tutto il corso della sua storia ha lavorato per sabotare la lotta di classe, per difendere il sistema capitalistico e la democrazia borghese e integrare in essi la classe operaia.
Per tutti questi anni il PCI non ha fatto che spargere nella classe operaia revisionismo, riformismo, liberalismo, elettoralismo, parlamentarismo, pacifismo, legalitarismo, al posto del marxismo-leninismo e della strategia e della tattica proletarie e rivoluzionarie.
Questo inganno è stato possibile grazie a un lento, graduale e pilotato processo di deideologizzazione, decomunistizzazione e socialdemocratizzazione dei militanti, del proletariato e dei lavoratori, delle masse femminili, giovanili e popolari.
Attraverso mille sotterfugi, mille piccoli e grandi cambiamenti sempre diretti a spostare a destra l'asse del partito, il PCI ha finito col depotenziare sul piano ideologico, politico e organizzativo la carica rivoluzionaria del proletariato, col decomunistizzare le nuove generazioni, col sradicare la concezione marxista-leninista dell'emancipazione della donna dalla coscienza delle masse femminili."
Fa bene Napolitano a rivendicare di essere un liberale e di non essere mai stato un comunista. Come gli antichi liberali aprirono la strada alla salita di Mussolini al potere, così oggi il rinnegato Napolitano, quale nuovo Vittorio Emanuele III, ha spalancato le porte al regime neofascista, presidenzialista e federalista.

19 giugno 2013