Neocolonialismo
I paesi capitalisti e le multinazionali si accaparrano aree agricole nel sud del mondo
La Banca mondiale, che ha favorito la pratica, ora stabilisce un codice di condotta per gli accordi
I contadini poveri si oppongono

In inglese è definito land grabbing, ossia la rapina di terre agricole sviluppatasi soprattutto negli ultimi due anni in tutto il Sud del mondo da governi, istituti finanziari e fondi di investimento. La denuncia di questo fenomeno neocolonialista è venuta nientemeno che dalla Banca mondiale, l'istituto fiananziario imperialista che finora l'aveva favorito, e che in un recente rapporto ha messo in guardia contro l'accaparramento di aree agricole nel sud del mondo da parte di gruppi esteri, un accaparramento che "mette a rischio la vita dei contadini poveri".
Il rapporto sostiene che "prima della fine del 2009 sono stati annunciati accordi di affitto di terre per 45 milioni di ettari", un numero enorme se paragonato "a una crescita globale di terra agricola nel mondo prima del 2008 pari a 4 milioni di ettari l'anno". "Più del 70 per cento di queste richieste sono state fatte in Africa, in paesi come l'Etiopia, il Mozambico e il Sudan che negli ultimi anni hanno trasferito milioni di ettari a investitori stranieri", sottolinea il rapporto che ha analizzato in particolare la situazione in 14 paesi. L'accaparramento delle terre coltivabili da sfruttare si è moltiplicato con l'ingresso di capitali dei fondi di investimento alla ricerca di beni su cui speculare.
Il fenomeno del land grabbing si estende in tutto il mondo ma colpisce soprattutto i paesi africani che hanno molti governi deboli e corrotti e grandi quantità di terre da destinare ai capitali stranieri. Fermati solo dalle rivolte dei contadini poveri. Come è avvenuto di recente in Mozambico, uno dei paesi nei quali l'affitto delle terre a capitali stranieri è concentrato soprattutto nelle terre per la produzione di colture da destinare ai biocarburanti. E come è avvenuto in Madagascar alla fine del 2008 quando il governo dell'allora presidente Marc Ravalomanana aveva concesso in leasing per 99 anni alla ditta sudcoreana Daewoo 1,3 milioni di ettari, pari alla metà della terra coltivabile, per produrre palma da olio da usare come biocarburante. Le proteste e la rivolta dei contadini hanno portato alla deposizione del presidente e alla cancellazione dell'accordo.
In Etiopia il premier Meles Zenawi ha dato in leasing un milione di ettari e prevede di affittarne altri due nei prossimi due anni a società indiane e saudite. Significativa anche la vicenda del Sud Sudan dove nel prossimo gennaio dovrebbe tenersi un referendum per l'indipendenza; il capo dell'esercito del Sud Sudan ha già siglato un accordo per la cessione di 800 mila ettari a un fondo di investimento americano rappresentato nel paese da ex ufficiali del dipartimento di Stato americano e della Cia.
In queste operazioni neocolonialiste, moltiplicatesi a partire dal 2008 dopo lo scoppio della crisi alimentare mondiale, quando i valori del grano, del riso, del mais e di altre beni di prima necessità erano schizzati alle stelle, troviamo impegnati non solo le vecchie potenze imperialiste ma anche paesi "emergenti" del calibro di Cina e India, assieme a altri paesi ricchi ma molto dipendenti dalle importazioni di generi alimentari quali Arabia Saudita e Corea del Sud.
I contratti di sfruttamento delle terre sono in genere definiti direttamente tra i governi interessati e le società estere, senza alcuna discussione pubblica e spesso in segreto, tale da rendere difficile una valutazione accurata delle reali dimensioni del fenomeno. Una pratica che fino a poco tempo fa era favorita dalla Banca mondiale attraverso l'International Financial Corporation, il settore che finanzia investimenti privati nel mondo in via di sviluppo e "incoraggia" riforme politiche liberiste per attrarre gli investimenti stranieri; gli agenti dell'istituto hanno promosso gli accordi di vendita delle terre facendo pressioni sui governi e ponendosi come intermediari.
Adesso la Banca mondiale ci ripensa, anche se non convince affatto il suo passaggio a fianco dei contadini poveri "che si troveranno privati della propria terra". Infatti non ha reclamato la fine della pratica neocolonialista ma si è limitata a chiedere di togliere "il velo di segretezza che spesso circonda questi accordi" e ha proposto un codice di condotta in sette punti per gli investitori e per i paesi ospiti che prevede fra gli altri il rispetto dei diritti fondiari delle comunità locali, la garanzia della sicurezza alimentare, la trasparenza e la consultazione permanente con tutti gli attori coinvolti, la sostenibilità sociale e ambientale.

13 ottobre 2010