Dopo oltre 10 anni di scelte industriali disastrose e devastanti ristrutturazioni
Il governo Prodi mette in vendita l'Alitalia
No alla "cura" della privatizzazione
Rilanciare la compagnia di bandiera come azienda pubblica
Prodi, già quando era presidente dell'Iri, si distinse per le privatizzazioni delle aziende pubbliche e a partecipazione statale: l'Alfa Romeo, la Sme, per dirne due ben conosciute, anche per i suoi risultati fallimentari. In questo non lo batte nessuno; nemmeno Berlusconi. E non si smentisce nemmeno ora che è alla guida del suo secondo governo, sostenuto dall'Unione.
Pochi giorni fa, esattamente il 5 dicembre, di concerto con il ministro per l'Economia, Tommaso Padoa-Schioppa, e il ministro dei Trasporti, Alessandro Bianchi (PdCI), ha deciso di portare a compimento la privatizzazione dell'Alitalia.
Come? Vendendo "una quota di capitale della società non inferiore al 30,1% - attualmente il Tesoro ne detiene il 49,9% - e la totalità delle obbligazioni convertibili detenute dal ministero" col vincolo che "la cessione comporterà per l'acquirente, l'obbligo di promuovere un'offerta pubblica di acquisto sulla totalità delle azioni". La vendita insomma avverrà attraverso un'asta, sulla base di quella che in gergo economico si chiama Opa (offerta pubblica d'acquisto). Sulla carta il governo pone altre condizioni, tendenti a tenere buoni e tacitare sindacati e lavoratori, che in sintesi sono: un dettagliato piano industriale e un vincolo contrattuale con lo Stato; un'adeguata offerta di copertura del territorio; copertura dei livelli occupazionali; mantenimento dell'identità nazionale della società, del suo logo, del suo marchio.
La compagnia aerea di bandiera, per quanto in profonda crisi e fortemente indebitata, fa gola a molti. Non per caso dopo l'annuncio della messa in vendita le azioni Alitalia in Borsa sono schizzate in alto in un batter d'occhio. Non per caso le banche d'affari, le compagnie aeree europee più forti, cordate di capitalisti italiani e stranieri hanno iniziato a mobilitarsi per aggiudicarsi questo grosso boccone industriale e finanziario. Poche cifre possono aiutare a capire. L'Alitalia, al 30 novembre 2006, vale in Borsa 1.190 milioni di euro; oltre 3 miliardi il fatturato; gestisce una flotta di aerei pari a 185, di cui 156 dedicati a breve e medio raggio e 29 dedicati a lungo raggio; 115 sono di proprietà, gli altri a noleggio; 11.758 sono i dipendenti senza contare gli 8.420 occupati in Az servizi: 1.004 milioni di euro, l'indebitamento finanziario; 275 milioni di euro la perdita nei primi nove mesi di quest'anno.
Prodi e Padoa-Schioppa giustificano la vendita dell'Alitalia come unica soluzione per salvarla dal fallimento imminente. E' così? Non vi è dubbio che da almeno un decennio la compagnia di bandiera abbia subito un processo di crisi, di ristrutturazioni e di ridimensionamento senza soluzione di continuità. In questo non vi sono solo cause oggettive, ma anche responsabilità politiche dei governi che si sono succeduti (di "centro-destra" e di "centro-sinistra"), nonché responsabilità gravissime gestionali dei vari strapagati manager che si sono avvicendati alla guida. Basti dire che in questo lasso di tempo sono stati cambiati ben quattro amministratori delegati (Domenico Cempella, Francesco Mengozzi, Marco Zanichelli e l'attuale Giancarlo Cimoli) e quattro presidenti (Renato Riverso, Fausto Cereti, Giuseppe Bonomi e l'attuale Giancarlo Cimoli) con stipendi principeschi e buonuscite altrettanto principesche.
La crisi dell'Alitalia non si spiega solo con gli effetti dell'attentato alle torri gemelle, con la guerra all'Iraq, la conseguente paura a volare, la recessione. Non si spiega con la selvaggia deregolamentazione del settore e la nascita di piccole compagnie di volo a basso costo, che pure hanno contribuito al declino. Visto che altre compagnie di bandiera come quelle francese (Air France), tedesca (Lufthansa), inglese (British Airways) e persino la Klm olandese hanno risolto i loro problemi senza privatizzare e hanno attuato un piano di sviluppo. Né si spiega dal lato del "costo del lavoro" poiché in Alitalia esso è più basso che in altre parti. A questo proposito, va detto che i lavoratori sia di volo che di terra hanno pagato un prezzo altissimo in termini di occupazione, di flessibilità e carichi di lavoro, di perdita salariale. Ciò è accaduto con l'accordo sindacale del 2004 e ancor più col piano di ristrutturazione e di privatizzazione di Cimoli, sottoscritto sciaguratamente dai vertici sindacali di Cgil, Cisl e Uil, più il sindacato di destra Ugl, del settembre 2005. Un piano di lacrime e sangue con pesantissimi sacrifici per i lavoratori, senza garantire loro un futuro occupazionale e senza salvaguardare l'unicità e la natura pubblica dell'azienda. Un piano che ha spezzettato l'Alitalia in Az Fly e in Az Service, per attuare massicce esternalizzazioni e soprattutto per tagliare complessivamente 3.700 posti di lavoro.
Il piano Cimoli ha fatto fallimento totale: non c'è stato recupero di quote di mercato, caso mai c'è stato un passivo più consistente, di conseguenza è cresciuto l'indebitamento; oltre a peggiorare sensibilmente le condizioni di lavoro del personale. Ora anche i vertici sindacali, con il "morto nella bara", contestano i risultati del piano e chiedono le dimissioni di Cimoli. Noi marxisti-leninisti l'avevamo detto subito e per questo invitammo i lavoratori a votare no nel referendum sindacale sull'accordo con l'azienda del settembre 2005. Perché scaricava i costi della crisi sulle spalle dei lavoratori; perché consideravamo sbagliato il piano industriale che non garantiva il rilancio della compagnia ma casomai conteneva gli elementi per una sua frantumazione, privatizzazione e riduzione a una società low-cost; perché la promessa del governo di costituire una holding pubblica che mantenesse l'unitarietà dell'azienda non era stata mantenuta.
Tutti i partiti dell'Unione appoggiano il piano di vendita e privatizzazione di Prodi, con Fassino e Rutelli in testa. Il PRC non si oppone. Per Bertinotti è sufficiente salvaguardare l'italianità dell'azienda (sic!). Mentre per il ministro di Rifondazione trotzkista, Paolo Ferrero "non è assolutamente detto che la soluzione con i privati italiani sia la migliore per l'Alitalia". Su altre questioni fanno tanto baccano, ma sulla vendita della compagnia di bandiera c'è il consenso della casa del fascio berlusconiana.
Corrono le voci su chi potrà essere il compratore. C'è chi parla di una cordata italiana formata da Carlo De Benedetti, Diego Della Valle e Roberto Colaninno; poi vi sono gli altri, anzitutto Air France-Klm, ma anche a Lufthansa farebbe comodo fagocitare l'Alitalia. Sia come sia, tutto questo procede senza che i lavoratori e gli stessi sindacati abbiano alcuna voce in capitolo e verso una prospettiva molto incerta, al di là delle promesse strumentali governative. È quasi certo che, in caso di vendita, la nuova proprietà attuerà piani di "riorganizzazione" e "ristrutturazione".
Urge la mobilitazione dei lavoratori contro il piano di vendita. Con la lotta va battuta la strategia neoliberista della privatizzazione, piena di conseguenze negative. Con la lotta va imposta una strategia opposta. Al governo va richiesta l'apertura immediata di un tavolo delle trattative con una piattaforma che si fondi sul rilancio e il potenziamento della compagnia di bandiera, come azienda unica e pubblica, comprensiva dei servizi di volo e di terra, e la difesa dei diritti dei lavoratori, a partire dalla stabilizzazione dei precari in posti a tempi indeterminato, e la contrattazione degli orari, dei turni e dei compensi.
Alitalia è un'azienda di interesse nazionale e deve rimanere pubblica!

13 dicembre 2006