L'articolo 18 non si tocca ( testo dell'art.18)
RESPINGERE CON LA LOTTA LA LIBERTA' PADRONALE DI LICENZIARE
Come era nelle previsioni, il governo Berlusconi intende procedere nella controriforma liberista e neofascista sul lavoro con piglio di stampo craxiano, di più, di stampo mussoliniano. L'atteso incontro di lunedì 26 novembre tra il presidente del Consiglio e i ministri per l'Economia e il Lavoro (Tremonti, Marzano e Maroni), da un lato, e i segretari di Cgil, Cisl e Uil Cofferati, Pezzotta, Angeletti, dall'altro, ha infatti confermato che il governo non intende ritirare la legge delega e, soprattutto, è deciso a manomettere l'art.18 dello "Statuto dei Lavoratori'' che, di fatto, concede ai padroni la libertà di licenziare.
Berlusconi, forte anche del risultato elettorale in Sicilia conseguito dalla "Casa delle libertà'', ha detto chiaro ai sindacalisti che indietro non si torna; nonostante che sul tavolo ci fosse, come conseguenza diretta, la rottura dei rapporti sindacali e la minaccia dello sciopero generale nazionale. Andando, questa volta, anche contro i sondaggi condotti dalla Cirm secondo cui il 53 per cento degli interpellati si è dichiarato contrario alla sospensione dell'art.18 sui licenziamenti, il 21 senza opinione e solo il 26 per cento favorevole.
Già nel "Libro bianco'' presentato all'inizio di ottobre dal ministro leghista Roberto Maroni alle cosiddette "parti sociali'', erano emerse chiare le finalità del governo in materia di relazioni sindacali, di previdenza e, appunto, di liberalizzazione del "mercato del lavoro''; finalità praticamente fotocopiate dal programma della Confindustria. Ma pur palesando la volontà di operare per ampliare le flessibilità non solo in entrata ma anche in uscita (cioè licenziare senza che vi sia la "giusta causa'') i ministri berlusconiani avevano più volte dichiarato che senza un accordo di massima con i sindacati, anche delle sole Cisl e Uil, si sarebbero fermati. Fingevano!
Fino alla metà di novembre il ministro Maroni si era limitato ad avanzare una proposta che non toccava direttamente l'art.18 ma lo aggirava e ne annullava gli effetti, attraverso l'uso dell'arbitrato che dava al giudice il potere di scegliere di fronte a un licenziamento "illegittimo'', tra il reintegro al lavoro o un semplice risarcimento economico. Rispetto a questa posizione, già grave e inaccettabile, il governo ha fatto un passo in più per forzare la situazione. Ha approvato all'unanimità una legge delega collegata alla Finanziaria 2002 che mette totalmente nelle mani dell'esecutivo la possibilità di "riformare'' il "mercato del lavoro'', anche di fronte a un giudizio apertamente negativo dei sindacati e senza alcuna discussione e votazione parlamentare. Una legge delega che contiene, come aspetto più grave la liberalizzazione dei licenziamenti, ma anche altre pesanti misure antioperaie che portano alle estreme conseguenze la flessibilità del lavoro e ai minimi termini le tutele sindacali dei lavoratori, a partire per i neo-assunti e poi per tutti gli altri come conseguenza inevitabile. Infatti, la suddetta "riforma'' liberista prevede l'introduzione dei lavori intermittenti, su chiamata, ossia il famigerato "job on call'' respinto dagli operai della Zanussi nell'ultima vertenza aziendale, la manodopera in leasing, oltre alla moltiplicazione dei contratti a tempo determinato e alla possibilità per le agenzie di collocamento privato di trattare anche assunzioni a tempo indeterminato.
Non deve ingannare la formula truffaldina ideata da Maroni e dal suo tirapiedi, il vice ministro Sacconi, per manomettere lo "Statuto dei Lavoratori''. Formula che si concretizza sperimentando un regime provvisorio della durata di quattro anni che, in deroga all'art.18, disponga il risarcimento in luogo del reintegro del lavoratore ingiustamente licenziato. Una sperimentazione che, secondo il governo, dovrebbe valere per le aziende che emergono dal lavoro nero; le assunzioni a termine che passano a tempo determinato; le assunzioni nelle imprese che superano i 15 dipendenti. Il fatto che questo provvedimento sia sperimentale per un tempo definito e "limitato'' ai casi citati non lo rende meno grave e meno pericoloso. Una volta aperta la porta della liberalizzazione dei licenziamenti diventa difficile se non impossibile richiuderla. L'esperienza fatta negli anni '80 con il governo Craxi, che portò all'abolizione della scala mobile sui salari, dovrebbe insegnare qualcosa.
In ogni modo la proposta governativa creerebbe un doppio regime di trattamento sindacale e contrattuale e una vasta area di lavoratori di serie B, privi delle tutele di legge. Ci sono esperti di diritto del lavoro, come Pietro Ichino, che la giudicano incostituzionale.
Ma quali sono i veri scopi del governo e della Confindustria quando rivendicano la libertà di licenziamento? Considerato che a tutt'oggi ben l'85% delle aziende, pari al 56% dei lavoratori, non sono coperte dalla tutela della "giusta causa''; grazie alle leggi che permettono i licenziamenti collettivi negli ultimi 10 anni per ristrutturazioni o crisi, le imprese hanno espulso 2.500.000 dipendenti; ogni anno 34 su 100 occupati interrompono il rapporto di lavoro. Una mobilità, questa, molto vicina a quella che esiste negli Usa (38 su 100) indicata a modello dai liberisti nostrani. Gli scopi sono certo la totale liberalizzazione nell'uso della manodopera, ma allo stesso tempo la frantumazione dell'unità economica e normativa dei lavoratori, non a caso si vorrebbe depotenziare o eliminare il contratto nazionale di lavoro, e ridurre il potere sindacale e contrattuale dei lavoratori e la loro capacità di mobilitazione e di protesta.
Lo sanno bene i lavoratori delle piccole aziende, licenziabili dalla mattina alla sera senza nemmeno saperne la ragione: la libertà di licenziamento mette nelle mani dei padroni un enorme potere ricattatorio e mina alle fondamenta l'intero impianto delle tutele sindacali sancite dallo "Statuto dei Lavoratori'', nei contratti nazionali di lavoro e nella stessa legislazione del lavoro.
Ammesso e non concesso che vi sia stato dello spazio al tavolo della trattativa col governo, con tutta evidenza è venuto il tempo della lotta per dire forte e chiaro che l'art.18 non si tocca. è venuto il tempo inderogabile della proclamazione dello sciopero generale nazionale di tutte le categorie, è venuto il tempo di portare in piazza la forza dell'insieme del movimento degli operai e dei lavoratori, una forza che c'è, come ha dimostrato la potente manifestazione dei metalmeccanici del 16 novembre a Roma, per dire no ai licenziamenti facili, per respingere tutta la politica economica e sociale del governo contenuta nel libro nero di Maroni e nella finanziaria di guerra di Berlusconi, per contestare la politica guerrafondaia del neoduce di Arcore.
Dai vertici sindacali Cgil , Cisl e Uil ci aspettiamo un atto di coerenza con le posizioni espresse contro la legge delega sul lavoro, da concretizzarsi con tempestive decisioni per la mobilitazione dei lavoratori e per una piattaforma rivendicativa che vada nella direzione opposta di quella di Berlusconi e D'Amato.

28 novembre 2001