Attraverso la viscida penna della trotzkista Rossanda
"Il manifesto" rende "onore" a Mao per attaccarlo
"L'unità" non è da meno
Nella vera e propria campagna orchestrata e sostenuta dalla reazione internazionale contro Mao Zedong e il comunismo che si è sviluppata quasi senza soluzione di continuità negli ultimi mesi, in concomitanza del 40esimo anniversario della Grande Rivoluzione Culturale Proletaria cinese e del 30esimo anniversario della morte del grande maestro del proletariato internazionale, hanno certamente avuto largo spazio gli attacchi frontali degli anticomunisti dichiarati, da Bush a Berlusconi. Rinvigoriti dalla pubblicazione in italiano del libro di Jung Chang e Jon Halliday "Mao. La storia sconosciuta" dove si accomuna Mao a Hitler e gli si attribuisce la responsabilità di 70 milioni di morti.
Attacchi spregevoli e in maniera talmente sbracata che potrebbero, per reazione, spingere in particolare i giovani a cercare di capire qual è la realtà.
Ecco che scendono allora in campo gli opportunisti trotzkisti che arrivano allo stesso obiettivo partendo da posizioni che sembrano solo in parte critiche se non di aperto appoggio. Ne abbiamo avuto un esempio con l'articolo della trotzkista luxemburghiana Rina Gagliardi su Liberazione che ha rilanciato la visione di "Mao anarchico" per attaccare Stalin, il socialismo e il partito del proletariato", denunciato sul numero scorso de Il Bolscevico.
Da una posizione che sembra ancora più vicina a Mao parte la trotzkista Rossanda che su il manifesto del 9 settembre con un articolo dal titolo "Trent'anni dopo, onore a Mao" rende "onore" a Mao per attaccarlo.
La viscida tattica della Rossanda si scopre fin dall'apertura dell'articolo: "nel trentesimo anniversario della morte di Mao Tsetung la rete franco tedesca Arte ha mandato in onda quattro ore di inchiesta sul personaggio che disturba la memoria dell'occidente più di chiunque altro. Mao, une histoire chinoise". Un personaggio che "disturba'' ma che è relegato a "una storia cinese". E così prosegue: "a Mao dobbiamo l'esistenza della repubblica popolare" è l'unico merito che gli riconoscerà. Seguito dal giudizio, mutuato dal rinnegato Deng Xiaoping, "Mao ha fatto per il 70% le cose giuste e per il 30% le cose sbagliate". In successione i giudizi sono: "Mao è un comunista paradossale" che ha avuto la "specificità" di puntare sui contadini e sui giovani, sulle "idee giuste delle masse", in contrapposizione a "Lenin del Che fare". Un Mao che negherebbe il ruolo dirigente del partito del proletariato e il ruolo dirigente della classe operaia. Di seguito: "Mao non denunciò mai Stalin ma non gli somiglia in nulla". Con due colpi della sua viscida penna la Rossanda mette Mao contro Lenin e Stalin e lo riduce a interprete di un "suo marxismo fortemente innestato nella forbice fra omologazione e rivoluzione".
E aggiunge, "Mao non ha mai vinto se non finché la rivoluzione cinese era nazionale e ammodernatrice"; il Mao relegato appunto a "una storia cinese" e a cui si possono "rimproverare volontarismi e semplificazioni". Come quando decide dopo il 1956 di sterzare dal "modello di edificazione socialista proposto da Mosca". Così tra l'altro liquida, senza dire nemmeno una parola, la denuncia di Mao del revisionismo.
All'inizio del pezzo la Rossanda aveva sottolineato la "specificità" di Mao, specificità che si delinerebbero dopo il 1956 ma verso "la loro conclusione fatale". Il Grande balzo in avanti "è un immenso sforzo e sarà un immenso scacco". La Rivoluzione culturale causa "vittime", "la più illustre è Liu Shaoqi, vecchio compagno di guerra e vecchio signore stupefatto (quindi innocente, ndr)". Sembra non credere alle cifre delle vittime, "si parla di un milione di morti (...) ma sono rilevazioni più dei demografi, a posteriori"; comunque non risparmia il commento, una cifra che "fa spavento".
Chiude con "su tutta questa storia i comunisti, intendo gli ex, tacciono. Come presi da un furioso odio per quel che sono stati". Lei non tace ma attacca Mao.
Anche l'Unità non tace e non è da meno. Il compito è affidato a Siegmund Ginzberg cui riconosciamo un merito: è l'unico che ricorda come il giudizio sul "70% positivo e 30% negativo" di Mao era stato già espresso da Deng per giustificare il rovesciamento del socialismo e la restaurazione del capitalismo, facendo sì che la Cina potesse diventare oggi un inferno per il proletariato e le masse popolari e un paradiso per gli sfruttatori capitalisti. Comunque Ginzberg nell'edizione del 9 settembre lamenta che i ritratti di Mao "sono diventati simbolo di contestazione politica, compaiono sempre più spesso nei cortei di protesta" in Cina nonostante che anche la famigerata biografia di Jung Chang dimostrerebbe che non esiste un "Mao buono fino a un certo punto e cattivo da un certo punto in poi"; "le mostruosità hanno radici ben più profonde", sentenzia affermando che il Mao che ha proclamato nel 1949 la nascita della Cina "è il Mao peggiore, il capo brigante, l'eterno ribelle, l'imperatore paranoico, il despota assoluto". Vomitevoli e false accuse che fanno quasi sembrare dei semplici buffetti il velenoso attacco del grande vecchio trotzkista Pietro Ingrao, che nelle interviste di lancio del suo libro autobiografico "Volevo la luna" tra l'altro ha raccontato il suo disagio nell'ascoltare il discorso pronunziato da Mao a Mosca nell'autunno del 1957: "è come se lo rivedessi ora, un omone imponente che ci accolse con grandi pacche sulle spalle. Profetizzò un radioso avvenire a prezzo di milioni di vite uccise. Nessuno ebbe il coraggio di obiettare". Neppure l'opportunista Ingrao.
Al pezzo della Rossanda ha risposto il trotzkista Antonio Moscato su Liberazione del 12 settembre con una ricostruzione a suo uso e consumo della Rivoluzione culturale, per contestare alla Rossanda che Mao non ha il 70% di meriti, era un criminale come Stalin. Aggiungendo come fonte di prova "i documentatissimi studi di Livio Maitan", il defunto leader trotzkista. La quota del 70% è contestata anche da Filippo Ceccarelli che su la Repubblica del 10 settembre sbeffeggia i "maoisti nostrani" colpiti "dall'infatuazione cinese" negli anni Sessanta, da Dario Fo a Aldo Brandirali di "Servire il popolo". Bella forza, e come gli altri commentatori si dimentica del PMLI.
Ovviamente in diversi servizi non è mancato il commento del rinnegato e forzaitaliota Aldo Brandirali, che in queste occasioni resuscita regolarmente per affermare: "la rivoluzione maoista ci sembrava un umanesimo etico impregnato di confucianesimo, in realtà fu un dramma".
Chiudiamo questa rassegna con il rinnegato Pierluigi Battista, il vicedirettore del Corriere della Sera e marxista-leninista pentito, che nella sua rubrica "Particelle elementari" dell'11 settembre sostiene che non c'è da salvare il 30% di Mao. Per sbeffeggiamento o perchè accecato dal furore anticomunista scambia le percentuali e vomita veleno su Mao e il comunismo. Eppure afferma "il capitolo (del comunismo, ndr) è chiuso", "la 'questione comunista' non c'è più travolta dai detriti del muro di Berlino", "chi ne parla bene è un patetico rottame divorato dalla nostalgia". Dovrebbe essere dimenticato anche per "l'ineluttabile ricambio generazionale", i giovani non devono sapere e quindi non deve essere ricordato ma seppellito sotto un muro di silenzio. Il comunismo non dovrebbe avere più valore nemmeno "come pura idealità" che potrebbe essere "la nuova forza della seduzione comunista" perché comunque sarebbe "antichità inerte e senza vita". Eppure la storia del comunismo è "pervicacemente difesa dai suoi ultimi seguaci" lamenta Battista che rappresenta il sentimento della borghesia che ancora teme l'influenza di Mao e del comunismo.
Non avrebbe altrimenti ragione per attaccarlo direttamente o attraverso le viscide penne dei trotzkisti.

13 settembre 2006