Dichiarazione del "pentito" di mafia a cui il governo ha negato la protezione contro il parere dei magistrati
Spatuzza: "Schifani era il canale tra Dell'Utri e i boss Graviano"

Che nel passato di Renato Schifani ci siano rapporti con soggetti poi risultati appartenenti a Cosa nostra, quando ancora l'attuale presidente del Senato faceva l'avvocato amministrativista a Palermo, prima di essere eletto parlamentare nel collegio di Corleone e diventare un braccio destro del neoduce Berlusconi, era già emerso all'indomani della sua nomina a seconda carica dello Stato. Nella sua clientela di allora non si contano infatti i costruttori da lui assistiti che erano legati in vario modo alla mafia e che per questo nel corso del tempo sono stati arrestati, condannati e soggetti a sequestri patrimoniali.
Ai pochi giornalisti che avevano osato parlarne, tra cui Marco Travaglio che si era beccato una querela da lui insieme alle reprimende sdegnate del capo dello Stato e dell'intero parlamento nero, PD compreso, Schifani aveva opposto la risibile giustificazione che egli non poteva e non era tenuto a sapere allora che certi suoi clienti sarebbero successivamente risultati implicati in affari di mafia, e alcuni addirittura condannati per questo.
Cioè, in pratica, egli avrebbe curato gli interessi di elementi mafiosi "a sua insaputa"!
Ma, se già appariva incredibile allora, questa tesi di comodo si sta facendo oggi sempre più insostenibile, man mano che emergono altri fatti e testimonianze che moltiplicano e addensano sul suo capo i sospetti di una vera e propria collusione con Cosa nostra. In particolare sono state alcune rivelazioni de L'Espresso ad aprire ultimamente nuovi e significativi squarci su questi rapporti, anche se va detto che la stragrande maggioranza dei mass-media del regime neofascista ha fatto orecchie da mercante continuando invece a mantenere una rigida quanto compiacente cortina di omertà sulla vicenda.
A fine agosto il settimanale in questione riportava infatti alcune dichiarazioni rese dal "pentito" Gaspare Spatuzza nell'ottobre scorso alla procura di Firenze che tirano in ballo il presidente del Senato quale tramite tra i fratelli Filippo e Giuseppe Graviano, oggi in carcere, i capimafia che gestirono le stragi golpiste del 1992-93, e Marcello Dell'Utri, fondatore insieme a Berlusconi di Forza Italia a cui quella stagione stragista doveva spianare la strada. Secondo Spatuzza - a cui per ritorsione il ministero degli Interni ha negato la scorta appellandosi a un cavillo procedurale e mettendolo così insieme ai suoi familiari alla mercé delle vendette di Cosa nostra - Schifani era colui che teneva i collegamenti tra i due boss di Brancaccio e il senatore recentemente condannato in secondo grado a 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa, e i cui rapporti con i Graviano, incontestabilmente provati nella sentenza di primo grado, sono stati confermati in appello anche se "solo" fino al 1992.

Le rivelazioni di Spatuzza su Schifani
Nel verbale dell'interrogatorio condotto dai magistrati fiorentini, secondo quanto riferisce L'Espresso, risultano non solo le già note rivelazioni di Spatuzza relative alle confidenze fattegli da Giuseppe Graviano all'indomani della strage di via dei Georgofili, secondo cui "da quei morti avremmo tratto tutti benefici, a partire dai carcerati", e che i referenti di quella strategia stragista erano Berlusconi e Dell'Utri, grazie ai quali "ci eravamo messi il Paese nelle mani"; ma emergono altresì inedite rivelazioni sul ruolo giocato negli anni '90 dall'attuale presidente del Senato come agente di collegamento tra i boss palermitani e l'allora presidente di Publitalia. Oltreché sui rapporti dell'allora avvocato amministrativista con certi costruttori legati sia alla vecchia mafia di Stefano Bontade come alla nuova, com'è il caso dei rapporti coi costruttori Giuseppe Cosenza, Antonino Seidita e Pietro Lo Sicca. Quest'ultimo tuttora difeso da uno studio legale facente capo a Schifani per uno scandalo edilizio riguardante un palazzo abusivo a Palermo.
Il verbale di Spatuzza è stato trasmesso anche alla procura di Palermo, competente per l'inchiesta sui rapporti mafia-politica, e i sostituti Antonio Ingroia e Ignazio De Francisci hanno deciso di sentire a breve il "pentito" per acquisire e chiarire i nuovi elementi emersi. In particolare vogliono chiarire se e quanto c'è di vero nella dichiarazione di Spatuzza secondo cui Filippo Graviano utilizzava talvolta l'azienda Valtras, dove il "pentito" lavorava, come luogo di incontri, accanto al quale esisteva un capannone di cucine componibili di Pippo Cosenza (a cui fu poi sequestrato il patrimonio), dove Spatuzza asseriva di aver assistito più volte ad incontri tra Graviano, Cosenza e quello che più tardi avrebbe riconosciuto come Schifani.
Nel numero successivo de L'Espresso è comparso poi un articolo che aggiunge nuovi elementi sull'attività dell'allora avvocato Schifani come consulente di personaggi poi risultati coinvolti in vicende di mafia o sospettati tali: si tratta delle rivelazioni dell'imprenditore palermitano Giovanni Costa, già condannato in primo grado a 9 anni per riciclaggio e al sequestro di un patrimonio ammontante a varie centinaia di milioni di euro. Anche lui sarà sentito dalla procura di Palermo insieme a Spatuzza.

...e quelle di Costa
"Lui - dice Costa parlando di Schifani - era il mio consulente, la persona che mi consigliava, quello che riusciva a mettere le carte a posto controllando i documenti con i quali chiudere affari senza avere problemi". Tra gli anni '80 e i primi anni '90 Costa controllava un giro d'affari enorme, frutto secondo gli inquirenti anche di soldi riciclati dalla mafia. L'imprenditore, che si proclama innocente, sostiene di aver pagato dal 1986 a Schifani uno stipendio mensile di due milioni di lire per seguire i suoi lavori a 360 gradi. "Ma - aggiunge - nel processo in cui sono stato condannato lui, chiamato a testimoniare, non ha detto la verità. Ha preso le distanze stravolgendo i fatti, sostenendo addirittura che lo avevo inserito nel consiglio di amministrazione di una società di Milano a sua insaputa. E invece era stato lui a chiedermelo perché voleva lasciare Palermo, per questo gli proposi l'incarico di presidente o di amministratore delegato. Poi decisi che non se ne faceva più nulla".
Perché Schifani era così ansioso di lasciare Palermo? Erano gli anni delle uccisioni di Salvo Lima e poi di Falcone e Borsellino, spiega Costa, e Schifani "mi aveva chiesto di venire a Milano e di inserirlo nel consiglio di amministrazione della Alpi assicurazioni di Fabbretti. Non voleva stare più a Palermo, sospettavo che avesse paura". Alla domanda precisa se l'allora avvocato avesse contatti con la mafia, Costa risponde in maniera sibillina: "Non lo so. Però lo conoscevano tutti. Era un bravo civilista e lui forse queste persone le conosceva perché trovava le pratiche già allo studio". "Noto però - aggiunge - che molti nomi dei suoi clienti non vengono fatti. Eppure erano tutte persone che all'epoca avevano un peso a Palermo. Prima o poi la verità su Schifani la racconterò tutta fin dal primo giorno in cui l'ho conosciuto", perché "la verità viene sempre a galla".
La cosa sorprendente è che a proposito delle rivelazioni di Spatuzza pubblicate su L'Espresso, Schifani non ha fatto fuoco e fiamme seguendo l'esempio del suo capo Berlusconi, ma pur dichiarando "priva di ogni fondamento" l'ipotesi di essere stato il tramite tra i Graviano e Dell'Utri, ha tuttavia assicurato la sua "massima disponibilità con l'autorità giudiziaria qualora decidesse di occuparsi della questione". Un comportamento che sembrerebbe improntato ad una certa cautela, quasi in attesa che siano gli altri a mostrare le carte che hanno in mano prima di dichiararsi; quasi cioè a non volersi sbilanciare nel negare troppo recisamente dei contatti che, se dimostrati, sarebbe poi impossibile giustificare a posteriori con dei pretesti.
Tutte cose, queste, che sapevano benissimo anche i vertici del PD liberale, quando hanno deciso nonostante ciò di confermare l'invito al presidente del Senato e a mettergli a disposizione la platea della festa di Torino come se niente fosse. Il che è suonato oggettivamente come un insulto e una provocazione per i tanti militanti onesti di questo partito e per tutti i sinceri democratici e antimafiosi, così che giusta e ben meritata è stata la sonora contestazione con cui il gerarca belusconiano è stato accolto e zittito a Torino.
A maggior ragione è intollerabile che un simile personaggio continui a rivestire la più alta carica istituzionale dopo Napolitano. Comunque di sicuro è una conferma eloquente della compenetrazione della mafia con le istituzioni del regime neofascista, e il parlamento nero in particolare.

22 settembre 2010