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Stalin, la vita e l'opera

Capitolo 23
Il revisionismo moderno nemico giurato del socialismo

 

Divampa la "guerra fredda"

Subito dopo la fine della guerra, gli anglo-americani violarono dunque le decisioni unanimemente concordate dalle potenze alleate, svuotando d'ogni valore gli impegni e gli accordi scaturiti dalle Conferenze di Teheran, Jalta e Potsdam. Stracciare gli accordi internazionali era necessario all'imperialismo americano per imporre al mondo la propria volontà egemonica. Rendere concreta l'ambizione degli Stati Uniti al predominio mondiale significava subordinare agli interessi del capitale monopolistico americano il futuro sviluppo degli altri Stati capitalistici, diretti concorrenti degli USA nell'aspirazione al dominio imperialistico sul mondo.
Occorreva sfruttare appieno quindi, la situazione postbellica, l'estremo indebolimento della Germania, del Giappone e dell'Italia, il ridimensionamento del ruolo di grandi potenze subito da Francia e Inghilterra, la più o meno accentuata precarietà economica di tutti questi paesi che creava le condizioni necessarie per la penetrazione in essi del capitale americano, dell'influenza e del controllo politico americano.
Occorreva, inoltre, sferrare l'attacco contro il socialismo, contro cioè, la sola, vera alternativa in grado di arrestare e sconfiggere tutti i piani imperialistici di dominio internazionale. Questo significava innanzi tutto scagliarsi contro l'Unione Sovietica e bloccare la formazione e la crescita del socialismo negli altri paesi. Occorreva, infine, mettere un argine allo sviluppo dei movimenti di liberazione nazionale dei paesi coloniali.
La "guerra fredda" fu la strategia politica adottata dagli Stati Uniti d'America per imporre al mondo la propria egemonia imperialista. Una guerra combattuta con crescente aggressività sul piano militare, economico e ideologico. Alla stessa stregua di Hitler e dei suoi accoliti fascisti che dietro la maschera dell'anticomunismo calpestarono la dignità e la libertà di popoli e nazioni gettando, in modo ignobile e criminale, il mondo nel tragico vortice della guerra, gli imperialisti americani proposero se stessi come i salvatori del sistema capitalistico dal comunismo. Gli Stati Uniti tornarono ad agitare lo spettro della "minaccia comunista" per nascondere la loro volontà d'egemonia mondiale e serrare le file della reazione per poi scatenarle contro il socialismo, contro lo sviluppo potente del movimento operaio e delle forze democratiche e progressive del mondo intero.
Truman lanciò nel 1946 la sua dottrina di "contenimento del comunismo" che costituì la base ideologica della "guerra fredda". Una dottrina incentrata sulla forza militare. La supremazia, in questo campo, era assicurata dall'arma atomica di cui gli USA erano gli unici detentori.
Il bombardamento atomico su Hiroshima e Nagasaki nell'agosto 1945, non fu certo imposto da necessità militari in una guerra già vinta. Fu, invece, la brutale quanto criminale ostentazione della superiorità bellica americana tesa a spaventare e soggiogare il mondo. Quel bombardamento fu, di fatto, il primo, tragico atto della "guerra fredda".
Nel giugno 1947 gli USA annunciarono il "piano Marshall". Formalmente questo piano venne presentato come uno strumento d'aiuto per promuovere la ricostruzione economica dell'intera Europa dalle distruzioni della guerra e fu proposto a tutti i paesi europei dell'ovest e dell'est e alla stessa URSS. In realtà, sfruttando la debolezza del capitalismo europeo, gli Stati Uniti si preparavano ad assumere un ruolo di predominio nel campo capitalistico, ad unire sotto la propria guida gli Stati capitalistici d'Europa e a riportare nell'alveo del capitalismo i paesi europei dell'est che, con decisione, si stavano incamminando sulla strada dello sviluppo socialista.
Non a caso gli Stati Uniti subordinavano la concessione di aiuti alla creazione di un "comitato direttivo per l'Europa", uno strumento attraverso cui gli americani si arrogavano il diritto d'ingerenza nella vita economica e politica dei singoli Stati aderenti al piano. Ciò fu quanto emerse, e che l'URSS smascherò, nella conferenza di Parigi tra i ministri degli esteri di Francia, Gran Bretagna e Unione Sovietica svoltasi dal 27 giugno al 2 luglio 1947 proprio per discutere del "piano Marshall". In quell'occasione l'URSS propose la creazione di un "comitato di collaborazione" che preparasse un piano di aiuti basato sulle richieste dei singoli Stati Europei da discutere su un piano di parità e reciprocità con il governo americano. Proposta che venne respinta dalla Francia e dall'Inghilterra che agivano esclusivamente sulla base delle imposizioni dettate da Washington.
Il "piano Marshall" fu varato nell'aprile del 1948, dopo l'approvazione che ne diede il Congresso americano. Per i paesi europei occidentali che vi aderirono significò la compromissione della loro reale autonomia economica e politica. In particolare gli Stati Uniti, condizionarono lo sviluppo economico e politico dell'Europa occidentale subordinandolo al loro piano strategico aggressivo contro l'URSS ed i paesi di democrazia popolare. Nei paesi che aderirono al piano fu privilegiato lo sviluppo dell'industria bellica, fu impedito il commercio con l'URSS e i paesi dell'est di tutta una serie di merci che il governo americano definì di "interesse strategico", fino a giungere alla creazione di un vero e proprio blocco militare aggressivo.
Il 4 aprile 1949 veniva infatti firmato a Washington il "Patto Atlantico". Nasceva così la NATO, la stretta alleanza militare aggressiva tra gli Stati Uniti, il Canada, e gli Stati capitalistici d'Europa diretta principalmente contro l'URSS e il campo socialista. L'Unione Sovietica denunciò subito la NATO come l'espressione di un blocco militare aggressivo guidato dagli USA e diretto ad instaurare il predominio mondiale anglo-americano; un blocco militare aggressivo contrario allo statuto dell'ONU e nato in aperta violazione dei trattati precedentemente conclusi tra Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Unione Sovietica.
Espressione diretta del bellicismo americano fu anche la smisurata crescita del riarmo negli Stati Uniti. Truman tra il 1945 e il 1950 destinò alle spese militari più risorse di quante ne avevano complessivamente utilizzate le amministrazioni succedutesi in un secolo e mezzo di storia americana prima dello scoppio della seconda guerra mondiale. Risorse utilizzate, tra l'altro, per costruire a ridosso dei confini sovietici, ma non solo, basi militari dotate di armamento atomico.
Il monopolio degli Stati Uniti sull'arma atomica fu spezzato dall'URSS nel settembre 1949. L'URSS fu costretta a dotarsi dell'armamento atomico a garanzia della propria sicurezza. Ma, fino al 1953, anno della morte di Stalin, l'Unione Sovietica non smise mai di tentare ogni possibile accordo con gli USA, e nell'intero consesso internazionale, non solo per l'interdizione, ma anche per la cessazione totale della produzione di armi atomiche.
In un'intervista alla "Pravda" rilasciata il 6 ottobre 1951, Stalin si espresse in questi termini riguardo all'arma atomica: "Le personalità americane non possono ignorare che l'Unione Sovietica è non soltanto contraria all'impiego dell'arma atomica, ma altresì favorevole alla sua interdizione e alla cessazione della sua produzione. Come è noto, l'Unione Sovietica ha più volte chiesto l'interdizione dell'arma atomica, ma ha incontrato ogni volta il rifiuto delle potenze del blocco atlantico. Ciò significa che nel caso di un attacco degli Stati Uniti contro il nostro paese i circoli governativi statunitensi impiegheranno la bomba atomica. È proprio questa circostanza che ha costretto l'Unione Sovietica ad avere l'arma atomica, al fine di affrontare gli aggressori pienamente preparata.
Certo, gli aggressori vogliono che l'Unione Sovietica sia disarmata in caso di un loro attacco contro di essa. L'Unione Sovietica però non è d'accordo su questo punto, e pensa che l'aggressore bisogna affrontarlo pienamente preparati.
Ne consegue che, se gli Stati Uniti non hanno intenzione di attaccare l'Unione Sovietica, l'allarme delle personalità americane deve essere considerato infondato e falso, poiché l'Unione Sovietica non intende attaccare né gli Stati Uniti né alcun altro paese.
Le personalità americane sono scontente perché il segreto della bomba atomica è posseduto non solo dagli Stati Uniti, ma anche da altri paesi, innanzitutto dall'Unione Sovietica. Esse vorrebbero che gli Stati Uniti avessero il monopolio della produzione della bomba atomica, vorrebbero che gli Stati Uniti avessero l'illimitata possibilità di intimidire e ricattare gli altri paesi. Ma quale fondamento e quale diritto essi hanno per pensare così? L'interesse del mantenimento della pace richiede, forse, un tale monopolio? Non sarebbe più esatto dire che le cose stanno proprio all'opposto e che proprio l'interesse del mantenimento della pace richiede anzitutto l'eliminazione di un tale monopolio e, poi, anche l'incondizionato divieto dell'arma atomica? Io penso che i fautori della bomba atomica possano accettare l'interdizione dell'arma atomica solo se vedono che non ne sono più i monopolisti...
L'Unione Sovietica è per l'interdizione dell'arma atomica e per la cessazione della produzione di tale arma. L'Unione Sovietica è per l'istituzione di un controllo internazionale, affinché la decisione di vietare l'arma atomica, di cessarne la produzione e di utilizzare le bombe atomiche già prodotte unicamente per scopi civili, sia attuata rigorosamente e coscienziosamente. L'Unione Sovietica è proprio per questo genere di controllo.
Le personalità americane parlano anch'esse di 'controllo', ma il loro 'controllo' presuppone non la cessazione della produzione dell'arma atomica, bensì la continuazione di una tale produzione in misura proporzionata alla quantità delle materie prime a disposizione dei singoli paesi. Pertanto il 'controllo' americano presuppone non già l'interdizione dell'arma atomica, ma la legalizzazione e la legittimazione di essa. Il base ad esso il diritto dei provocatori di guerra ad annientare mediante l'arma atomica decine e centinaia di migliaia di pacifici cittadini verrebbe legalizzato. Non è difficile comprendere che questo non è un controllo, ma una beffa di controllo, è un inganno alle pacifiche aspirazioni dei popoli. È chiaro che un simile controllo non può soddisfare i popoli amanti della pace i quali esigono l'interdizione dell'arma atomica e la cessazione della sua produzione"
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Il tradimento di Tito

Accanto alla pressione ideologica, accanto all'espansione del controllo economico, accanto alle nuove scelte strategiche militari che costituivano i tre aspetti intrinsecamente legati sui cui si sviluppava la "guerra fredda", l'aggressione dell'imperialismo contro l'URSS e il campo socialista si servì anche del revisionismo moderno, di quegli elementi, cioè, opportunisti e ostili segretamente al marxismo-leninismo che iniziarono la loro azione disgregatrice dall'interno dello stesso movimento comunista internazionale.
Il primo a smascherarsi, quale strumento dell'imperialismo, fu il rinnegato revisionista Tito che spinse la Jugoslavia a rompere con il campo socialista, tradendo così gli ideali della gloriosa lotta partigiana jugoslava contro il nazi-fascismo e le aspirazioni al socialismo della classe operaia e del popolo jugoslavi che ben presto furono sottomessi dal feroce regime poliziesco instaurato nel paese da Tito e dalla sua cricca opportunista.
Il Partito Comunista Jugoslavo - PCJ - era stato tra gli aderenti al Cominform, costituitosi nel 1947. Erano passati quattro anni da quando nel giugno 1943 si era sciolto il Comintern per decisione unanime di tutti i partiti comunisti ad esso aderenti. La III Internazionale, l'Internazionale Comunista, era nata dopo la fine della prima guerra mondiale con lo scopo essenziale di favorire i collegamenti tra i neocostituiti e ancora deboli partiti comunisti, di consolidare i legami allora inesistenti tra le classi operaie dei diversi paesi e di contribuire alla formazione dei dirigenti espressi e riconosciuti dal movimento operaio internazionale. Questa funzione fu portata a termine positivamente. Nel corso degli anni di attività dell'Internazionale Comunista, infatti, si è consolidato il legame del movimento operaio internazionale, la sua capacità di elaborazione teorica, la crescita e l'influenza dei singoli partiti comunisti nei rispettivi paesi. Ciò, esaurì di fatto la funzione del Comintern che fu sciolto, come detto, nel giugno 1943 facendo anche piazza pulita di tutte le calunnie e le falsità secondo le quali l'Internazionale Comunista non era nient'altro che uno strumento d'ingerenza dell'URSS nella vita politica di altri Stati sovrani.
Negli anni immediatamente successivi allo scioglimento del Comintern i partiti comunisti dei diversi paesi aumentarono ulteriormente la loro influenza in molti paesi dell'Europa e dell'Asia. Assunsero un ruolo dirigente nei paesi dell'Europa dell'est dando vita alla costruzione degli Stati di democrazia popolare, ma si rafforzarono anche negli Stati che avevano subito il pesante fardello del dominio fascista e dell'occupazione nazista tedesca. Accanto a questi aspetti positivi ne emersero, tuttavia, altri negativi che evidenziarono carenze, dovute in parte alla mancanza di informazioni sulle attività nei singoli paesi ed anche all'assenza di un efficace coordinamento nella risposta all'attacco aggressivo che andava sviluppandosi a livello internazionale con la "guerra fredda".
Mentre le forze borghesi e socialdemocratiche si compattavano e mettevano in piedi le loro strutture di collegamento - si pensi alla ricostituzione, ad esempio, dell'Internazionale socialista - i comunisti dei diversi paesi evitavano perfino d'incontrarsi per non rinfocolare le ipocrite e menzognere asserzioni propagandistiche di queste forze circa il presunto assoggettamento ai voleri dell'URSS.
Proprio per ovviare a questi aspetti negativi e a queste carenze fu decisa la creazione del Cominform, l'Ufficio d'Informazione composto dai rappresentanti di nove partiti comunisti dell'Europa e, segnatamente, i partiti comunisti di Bulgaria, Cecoslovacchia, Francia, Italia, Jugoslavia, Polonia, Romania, Ungheria e Unione Sovietica. La prima Conferenza del Cominform si tenne in Polonia nel settembre del 1947. Non solo, dunque, il PCJ fu tra gli aderenti al Cominform, ma la capitale jugoslava, Belgrado, divenne la sede della sua attività e della redazione del suo organo d'informazione, il periodico "Per una pace stabile, per una democrazia popolare". Era questo il segno della considerazione e del rispetto di cui godevano gli jugoslavi all'interno del movimento operaio internazionale. Ciò non fece che accrescere lo sconcerto per le posizioni e le azioni assunte ed intraprese dai dirigenti revisionisti jugoslavi. Posizioni ed azioni che evidenziarono un distacco marcato dalla teoria marxista-leninista, dalla pratica e concreta costruzione del socialismo nell'economia e nella società jugoslave e che si espressero attraverso una serie crescente di attacchi sibillini e striscianti soprattutto contro Stalin e l'Unione Sovietica e la riproposizione dietro un'altisonante fraseologia di sinistra di vecchie concezioni nazionalistiche-borghesi e trotzkiste. Azioni che manifestarono un antisovietismo del tutto simile, nelle forme e nei contenuti a quello espresso dai peggiori reazionari.
Quali furono nel concreto queste azioni? Innanzi tutto il crescere di un'attività ostile e denigratoria sia nei confronti dei consiglieri militari sovietici, sia degli specialisti sovietici presenti in Jugoslavia. Contro di loro iniziò una vera e propria campagna offensiva e diffamatoria. Contemporaneamente fu posta alla loro attività una serie di limitazioni fino ad arrivare alla sorveglianza da parte degli organi della "sicurezza statale" jugoslava, sorveglianza a cui fu sottoposto perfino il rappresentante del PC(b) dell'URSS nel Cominform, Judin. Tutto questo provocò una situazione chiaramente insostenibile ed invivibile per il personale civile e militare sovietico che, è bene ricordare, si trovava in Jugoslavia in base a precise richieste avanzate dal governo di quel paese e non certo imposte ad esso da Mosca.
Il 18 e 19 marzo del 1948 l'Unione Sovietica decise di porre termine a tale situazione richiamando in patria il proprio personale militare e civile che si trovava in Jugoslavia, motivando questa decisione alle autorità jugoslave, appunto con l'ostilità e la denigrazione di cui erano oggetto. Peraltro il governo sovietico non rese di pubblico dominio questa decisione, manifestando, con questo suo comportamento, la volontà e l'auspicio di risolvere positivamente i problemi che stavano evidenziandosi nel rapporto fra i due partiti e i due paesi.
Tito cercò di giustificare gli atteggiamenti contro i consiglieri militari sovietici come manifestazioni causate dalla diversità esistente nel trattamento economico dei militari sovietici rispetto a quelli jugoslavi, e dalla difficoltà a reperire i fondi necessari al pagamento di questi loro stipendi. Argomentazione questa, del tutto pretestuosa e respinta dal governo di Mosca. "È possibile - afferma il CC del PC(b) dell'URSS nella sua lettera del 4 maggio 1948 diretta a Tito, Kardelj e al CC del PCJ - che le spese per i generali sovietici in Jugoslavia siano gravi per il bilancio jugoslavo ma in questo caso il governo jugoslavo avrebbe dovuto rivolgersi tempestivamente al governo sovietico e proporre che esso si assumesse parte delle spese. Certamente il governo sovietico avrebbe acconsentito. Invece gli jugoslavi hanno seguito un'altra via: in luogo della soluzione amichevole di questa questione essi hanno cominciato a svergognare i nostri consiglieri militari, a definirli fannulloni, a screditare l'Armata Sovietica. Il governo jugoslavo si è rivolto al governo sovietico solo dopo che attorno ai consiglieri militari sovietici si era formata una atmosfera di inimicizia. È comprensibile che il governo sovietico non potesse essere d'accordo con una simile situazione".151
Oltre alle questioni relative ai consiglieri militari e agli specialisti civili in Jugoslavia, altre e più gravi questioni dimostravano i reali propositi di Tito e della maggioranza dei dirigenti jugoslavi. Questioni che i bolscevichi sovietici esternarono in maniera diretta e franca al PCJ in uno scambio epistolare svoltosi tra il marzo e il maggio del 1948. Tali questioni riguardavano, tra l'altro, il trattamento riservato all'ambasciatore sovietico in Jugoslavia, le critiche jugoslave circa lo "snaturamento" del PC(b), lo "sciovinismo" dell'URSS, il tentativo di "controllo" sovietico sui partiti fratelli attraverso il Cominform.
Si legge nella già citata lettera del 4 maggio 1948 del CC del PC(b) al CC del PCJ: "Riguardo l'ambasciatore sovietico in Jugoslavia e lo Stato sovietico. Nella loro lettera del 13 aprile 1948, i compagni Tito e Kardelj scrivono: 'Noi riteniamo che egli (l'ambasciatore sovietico) non abbia, quale ambasciatore, il diritto di domandare a chicchessia relazioni sul lavoro del nostro Partito. Non è questo il suo lavoro'. Noi riteniamo che questa affermazione dei compagni Tito e Kardelj sia fondamentalmente errata, antisovietica. Come si vede, essi identificano l'ambasciatore sovietico, comunista responsabile, che rappresenta in Jugoslavia il governo comunista dell'URSS presso il governo comunista jugoslavo, con un qualunque ambasciatore borghese, con un qualunque impiegato dello Stato borghese, il cui compito è di minare le fondamenta dello Stato jugoslavo...
A titolo di informazione dei compagni Tito e Kardelj bisogna dir loro che, contrariamente allo schema jugoslavo, noi non consideriamo l'ambasciatore jugoslavo a Mosca quale semplice impiegato, non lo identifichiamo con gli inviati borghesi e non gli neghiamo 'il diritto di chiedere a chicchessia relazioni sul lavoro del nostro Partito'. Diventando ambasciatore, egli non ha cessato di essere comunista. E noi ci comportiamo nei suoi confronti come verso un compagno e un lavoratore comunista. Egli ha conoscenti e amici tra gli uomini sovietici. 'Raccoglie' egli dati sul lavoro del nostro Partito? Verosimilmente sì. E li 'raccolga' pure. Noi non abbiamo motivi per nascondere ai compagni le deficienze del nostro lavoro. Noi stessi le individuiamo per poterle liquidare.
Noi riteniamo che un simile atteggiamento da parte dei compagni jugoslavi nei confronti dell'ambasciatore sovietico non può venir considerato casuale. Esso deriva dalla posizione generale del governo jugoslavo, posizione per cui spesso i dirigenti jugoslavi non fanno differenza fra la politica estera dell'URSS e la politica estera degli anglo-americani, identificando la politica estera sovietica con la politica estera degli inglesi e americani, e ritengono che la Jugoslavia debba fare, nei confronti dell'Unione Sovietica, quella stessa politica che essa fa nei confronti degli Stati imperialisti, la Gran Bretagna e gli USA. È, in questo senso, stranamente caratteristico il discorso tenuto dal compagno Tito a Lubiana, alla fine del maggio 1945, nel quale dichiarava: 'Si è detto che questa guerra è una guerra giusta e noi l'abbiamo ritenuta tale. Ma noi domandiamo anche una giusta fine, noi chiediamo che ciascuno sia padrone nel suo; noi non vogliamo pagare i conti altrui, noi non vogliamo essere moneta di pagamento; noi non vogliamo che ci si immischi in una qualche politica di sfere di interessi'. Ciò veniva detto in relazione al problema di Trieste. Come è noto, dopo una serie di concessioni territoriali a favore della Jugoslavia strappate dall'Unione Sovietica agli anglo-americani, questi, insieme con i francesi, hanno respinto la proposta dell'URSS di consegnare Trieste alla Jugoslavia e si sono impossessati della città con le loro truppe che si trovavano in Italia. Dopo che tutti gli altri mezzi erano stati esauriti, all'Unione Sovietica, per far consegnare Trieste alla Jugoslavia, non rimaneva nient'altro che iniziare una guerra con gli anglo-americani per Trieste e per conquistarla con la forza. Ai compagni jugoslavi doveva essere noto che l'URSS, dopo una guerra così dura, non poteva entrare in una nuova guerra. Ciò nonostante questo caso ha provocato il malcontento dei compagni jugoslavi, cosa che si è riflessa anche nel discorso del compagno Tito.
La dichiarazione del compagno Tito a Lubiana, che la Jugoslavia 'non vuole pagare i conti altrui' e non vuole diventare moneta di pagamento, di non volere che la Jugoslavia 'venga immischiata in una politica di sfere di interessi', era diretta non solo contro gli Stati imperialisti ma anche contro l'URSS. In questo caso l'atteggiamento del compagno Tito verso l'URSS, nel fatto determinato, non si è differenziato per niente dal suo atteggiamento verso gli Stati imperialisti, perché non ha riconosciuto qui la differenza fra l'URSS e gli Stati imperialisti. Noi vediamo in questa posizione antisovietica del compagno Tito, che non ha incontrato resistenza da parte dell'Ufficio politico del CC del PCJ, la base della propaganda calunniosa dei dirigenti del PCJ (che si fa in un cerchio ristretto di quadri jugoslavi di Partito) sulla 'degenerazione' dell'URSS in Stato imperialista che 'cerca di conquistare economicamente la Jugoslavia', la base della campagna calunniosa dei dirigenti del PCJ sulla 'degenerazione' del PC(b) dell'URSS, che cerca di 'conquistare, tramite l'Ufficio di Informazione, gli altri partiti' e che 'il socialismo nell'URSS ha cessato di essere rivoluzionario'.
Il governo sovietico è stato costretto, a suo tempo, ad attirare l'attenzione del governo jugoslavo sull'intollerabilità di una simile dichiarazione del compagno Tito... Proprio da questa posizione antisovietica del compagno Tito nei confronti dello Stato sovietico proviene l'atteggiamento dei dirigenti jugoslavi nei confronti dell'ambasciatore sovietico, atteggiamento che identifica l'ambasciatore sovietico in Jugoslavia con gli inviati borghesi. I dirigenti jugoslavi pensano evidentemente di rimanere anche in seguito su queste posizioni antisovietiche. Ma i compagni jugoslavi devono sapere che rimanere su queste posizioni significa seguire la via della negazione dei rapporti amichevoli con l'Unione Sovietica, la via del tradimento del fronte unico socialista dell'Unione Sovietica e delle Repubbliche democratiche popolari. Essi devono pure prendere in considerazione il fatto che, rimanendo su queste posizioni, si privano del diritto di richiedere aiuto materiale o di altra specie all'Unione Sovietica, poiché l'Unione Sovietica deve porgere aiuto solo agli amici".152
Oltre a ciò il Partito bolscevico esternò al CC del PCJ la propria preoccupazione per la situazione politico-organizzativa in cui si trovava il PCJ e nella quale veniva lasciato dalla sua dirigenza. Situazione drammaticamente espressa dalla mancanza di pubblicizzazione nel paese dell'attività del PCJ, dall'esistenza di un CC che nella sua maggioranza era cooptato e non eletto, dalla mancanza di una vita democratica all'interno del partito e dalla totale assenza della pratica concreta della critica e dell'autocritica, dall'inammissibile controllo esercitato sul partito dal ministero della sicurezza statale, nonché dall'affievolimento della politica della lotta di classe.
Infine, il PC(b) si dichiarò assai preoccupato per la presenza e la permanenza nell'apparato del ministero degli Affari esteri jugoslavo del signor Velebit e di altri personaggi sospettati di essere spie inglesi. A questo proposito nella lettera inviata dal CC bolscevico al CC del PCJ del 4 maggio 1948 si afferma: "Su Velebit e le altre spie nell'apparato del ministero degli Affari esteri di Jugoslavia. Inesatta è la dichiarazione dei compagni Tito e Kardelj che i compagni Kardelj e Djilas, in occasione del loro incontro con il compagno Molotov, si siano limitati, nei loro dubbi circa Velebit, solo all'osservazione che non è loro 'tutto chiaro su Velebit'. In effetti, nella loro conversazione con il compagno Molotov si è detto che si sospetta Velebit di essere una spia inglese. È molto strano che i compagni Tito e Kardelj identifichino l'espulsione di Velebit dall'apparato del ministero degli Affari esteri con la sua rovina. Perché non si può eliminare Velebit dall'apparato del ministero degli Affari esteri senza rovinarlo? Strana è pure la dichiarazione dei compagni Tito e Kardelj sui motivi per i quali Velebit viene mantenuto nelle funzioni di primo aiutante del ministro degli Affari esteri: sembra che Velebit non sia stato tolto dalle funzioni di primo aiutante del ministro degli Affari esteri perché si trova sotto inchiesta.
Non sarebbe forse più giusto togliere a Velebit la menzionata funzione proprio perché si trova sotto inchiesta? Donde questa delicatezza nei confronti di una spia inglese che nutre, inoltre, inconciliabile inimicizia per l'Unione Sovietica? Ma Velebit non è la sola spia nell'apparato del ministero degli Affari esteri. I rappresentanti sovietici hanno parlato più volte ai dirigenti jugoslavi dell'inviato jugoslavo a Londra, Leontic', come di una spia inglese. Non è chiaro il motivo per il quale questa patentata spia inglese sia rimasta finora nell'apparato del ministero degli Affari esteri di Jugoslavia.
Al governo sovietico è noto che lo spionaggio inglese, oltre che da Leontic', è servito da altri tre collaboratori dell'Ambasciata jugoslava a Londra, i cui cognomi non sono ancora identificati. Il governo sovietico si assume piena responsabilità di questa dichiarazione. È parimenti incomprensibile perché l'inviato degli USA a Belgrado si comporti in Jugoslavia come in casa sua e perché i suoi 'informatori', il cui numero va aumentando, circolino in libertà. Incomprensibile è anche che gli amici e i parenti del carnefice dei popoli jugoslavi, Nedic', si siano sistemati, così facilmente e comodamente, nell'apparato dello Stato e del Partito della Jugoslavia.
È chiaro che il governo sovietico, se il governo jugoslavo sarà testardo nel non dimostrare il desiderio di ripulire l'apparato del ministero degli Affari esteri dalle spie, sarà costretto ad astenersi dal corrispondere apertamente col governo jugoslavo tramite il ministero degli Affari esteri di Jugoslavia".153
La questioni poste dal PC(b) dell'URSS così come le sue critiche erano, come si vede, precise e documentate. Ma l'atteggiamento assunto da Tito di fronte ad esse fu non sincero e arrogante. Egli non lesinò roboanti affermazioni circa la fedeltà al marxismo-leninismo, la fiducia e i sentimenti di profonda amicizia con l'URSS e il PC(b), ma, nel concreto, anziché affrontare le questioni, le negò. Non solo. All'interno del PCJ attuò uno stretto giro di vite repressivo, sbarazzandosi di tutti gli oppositori. Il 19 aprile del 1948 il CC del PCJ espulse Hebrang e Zujovic dagli organi dirigenti del partito. Alcuni giorni dopo, i due, furono arrestati. La stessa sorte subiranno, nei mesi successivi, migliaia di sinceri comunisti jugoslavi.
Questo clima portò a un ulteriore aggravamento dei rapporti tra il PC(b) dell'URSS e il PCJ. Fu a questo punto che il PC(b) informò della situazione creatasi i Comitati Centrali dei partiti comunisti aderenti al Cominform, proponendo che la questione fosse discussa dall'Ufficio di Informazione. Tito e Kardelj per conto del CC del PCJ rifiutarono la proposta. Il 17 maggio 1948 scrissero a Stalin e Molotov: "Noi non rifuggiamo dall'essere criticati in questioni di principio ma in questa questione ci sentiamo messi in una tale condizione di inferiorità che ci è impossibile accettare in questo momento di risolvere questa questione innanzi al Cominform".154
Il 28 giugno 1948 il Cominform decretò l'espulsione del PCJ dalle sue file. Nella Risoluzione in otto punti approvata all'unanimità si affermava: "L'Ufficio Informazioni, composto dai rappresentanti del Partito operaio (comunista) bulgaro, del Partito operaio rumeno, del Partito dei lavoratori ungherese, del Partito comunista (bolscevico), del Partito comunista francese, del Partito comunista della Cecoslovacchia, del Partito comunista italiano, del Partito operaio polacco; dopo aver discusso la situazione esistente nel Partito comunista della Jugoslavia ed aver constatato che i rappresentanti del Partito comunista della Jugoslavia si sono rifiutati di prendere parte alla sessione dell'Ufficio Informazioni, ha votato all'unanimità la seguente risoluzione:
1. L'Ufficio Informazioni constata che la direzione del Partito comunista della Jugoslavia conduce negli ultimi tempi, nelle questioni fondamentali della politica estera e interna, una linea sbagliata che si traduce nella deviazione dal marxismo-leninismo. In relazione a ciò l'Ufficio Informazioni approva l'atteggiamento del CC del PC(b), il quale ha preso l'iniziativa di smascherare la politica sbagliata del CC del PC della Jugoslavia e, innanzitutto, la politica sbagliata dei compagni Tito, Kardelj, Djilas e Rankovic'.
2. L'Ufficio Informazioni constata che i dirigenti del PCJ conducono una politica ostile nei confronti dell'Unione Sovietica e del PC(b). In Jugoslavia viene tollerata una indegna politica di diffamazione degli specialisti militari sovietici e di discredito dell'Armata Sovietica. Per i cittadini sovietici specialisti in Jugoslavia era stato creato un regime speciale, in base al quale essi erano stati posti sotto il controllo degli organi della Sicurezza di Stato della Jugoslavia e pedinati. Sono stati oggetto di pedinamento e di controllo da parte della Sicurezza di Stato Jugoslava anche il rappresentante del PC(b) nell'Ufficio Informazioni, compagno Judin, e vari altri rappresentanti ufficiali dell'URSS in Jugoslavia.
Tutti questi fatti e altri analoghi dimostrano che i dirigenti del PCJ hanno assunto un atteggiamento indegno di comunisti e su questa base i dirigenti jugoslavi hanno cominciato a immedesimare la politica estera dell'URSS con la politica delle potenze imperialiste, comportandosi nei confronti dell'URSS alla stessa maniera come verso gli Stati borghesi.
Proprio in seguito a queste posizioni antisovietiche, adottate dal Comitato centrale del PCJ, si è diffusa una propaganda calunniosa, presa a prestito dall'arsenale del trotzkismo controrivoluzionario, sulla 'degenerazione' del PC(b), sulla 'degenerazione' dell'URSS eccetera. L'Ufficio Informazioni condanna queste concezioni antisovietiche dei dirigenti del PCJ poiché sono inconciliabili con il marxismo-leninismo e si addicono unicamente a dei nazionalisti.
3. Nella loro politica interna i dirigenti del PCJ abbandonano le posizioni della classe operaia e rompono i ponti con la teoria marxista delle classi e della lotta di classe. Essi negano il fatto che nel loro paese crescono gli elementi capitalisti e che in conseguenza di ciò si inasprisce la lotta di classe nelle campagne jugoslave. Questa negazione scaturisce dal punto di vista opportunistico secondo il quale - contrariamente all'insegnamento del marxismo-leninismo - nel periodo di transizione dal capitalismo al socialismo la lotta di classe non si inasprisce, bensì si estingue, come affermarono gli opportunisti tipo Bukharin i quali predicavano la teoria del pacifico inserimento del capitalismo nel socialismo.
I dirigenti jugoslavi conducono una politica sbagliata nelle campagne, ignorando la differenziazione di classe nelle campagne e considerando i cittadini individuali come un qualcosa di unitario, nonostante l'insegnamento marxista-leninista sulle classi e la lotta di classe, nonostante il noto insegnamento di Lenin che la piccola proprietà privata produce il capitalismo e la borghesia in continuazione, giorno per giorno, ora per ora, spontaneamente e in dimensioni di massa.
Purtroppo la situazione politica nelle campagne jugoslave non dà alcun diritto di essere compiaciuti e tranquilli. Nelle condizioni della Jugoslavia, dove predomina la proprietà contadina, non esiste la nazionalizzazione della terra, esistono la proprietà privata della terra e il sistema di compravendita della terra, dove notevoli possedimenti terrieri sono concentrati nelle mani dei kulaki, si applica il lavoro salariato eccetera, il Partito non può essere educato nello spirito dell'attenuazione della lotta di classe e della conciliazione delle contraddizioni di classe senza rimanere, con ciò stesso, disarmato di fronte alle difficoltà della edificazione socialista.
I dirigenti del PCJ deviano dalla strada marxista-leninista e imboccano la strada di un partito populista di kulaki nella questione del ruolo dirigente della classe operaia; infatti essi affermano che i contadini 'sono la più solida base dello Stato jugoslavo'. Lenin insegna che il proletariato, quale unica classe rivoluzionaria fino in fondo nella società contemporanea, 'deve essere la guida egemone nella lotta di tutto il popolo per la completa trasformazione democratica, nella lotta di tutti i lavoratori e degli sfruttati contro gli oppressori e gli sfruttatori'. I dirigenti jugoslavi violano questo principio del marxismo-leninismo. Per quanto riguarda i contadini, la loro maggioranza, e cioè i contadini poveri e medi, possono allearsi o sono già alleati, alla classe operaia ma in questa alleanza la direzione rimane a quest'ultima. La concezione dei dirigenti jugoslavi viola questi presupposti del marxismo-leninismo. Come si vede, questa concezione esprime punti di vista che si addicono a dei nazionalisti piccolo-borghesi e non a dei marxisti-leninisti.
4. L'Ufficio di Informazione ritiene che la direzione del PCJ attua una revisione dell'insegnamento marxista-leninista sul Partito. Secondo la teoria del marxismo-leninismo il Partito è la forza fondamentale che dirige e indirizza le forze del paese, la forza che ha un proprio speciale programma e non si diluisce nella massa dei senza-partito. Il Partito è la più alta forma organizzativa e l'arma più importante della classe operaia. In Jugoslavia, invece, non viene considerata forza dirigente fondamentale del paese il Partito comunista, bensì il Fronte popolare. I dirigenti jugoslavi sminuiscono il ruolo del Partito comunista, diluiscono di fatto il Partito nel Fronte popolare apartitico che comprende elementi di classi eterogenee (operai, piccoli contadini, lavoratori in proprio, contadini ricchi, commercianti, proprietari di piccole fabbriche, intellettuali borghesi), nonché svariati gruppi politici, ivi compresi alcuni gruppi borghesi...
È un fatto che sulla scena politica jugoslava si presenta solo il Fronte popolare, mentre il Partito e le sue organizzazioni non si mostrano apertamente e non si presentano in proprio... di fronte al popolo; e ciò non soltanto sminuisce il ruolo del Partito nella vita politica del paese ma mina il Partito stesso quale forza politica autonoma chiamata a conquistarsi la fiducia sempre più larga delle masse popolari e ad abbracciare, con la sua influenza, strati sempre più vasti del popolo lavoratore attraverso un'aperta attività politica, un'aperta propaganda delle sue posizioni e del suo programma.
L'Ufficio Informazioni ritiene che tale politica del CC del PCJ minaccia l'esistenza stessa del PCJ e, alla fin fine, nasconde in sé il pericolo di snaturare la Repubblica popolare jugoslava.
5. L'Ufficio Informazioni è del parere che il regime burocratico creato in seno al Partito dai dirigenti jugoslavi è dannoso per la vita e lo sviluppo del PCJ. Nel Partito manca la democrazia interna di partito, mancano la critica e l'autocritica. Il CC del PCJ, nonostante le vuote assicurazioni dei compagni Tito e Kardelj, è composto in maggioranza non da membri eletti ma cooptati. Il Partito comunista si trova, di fatto, in una situazione semilegale. Le riunioni di Partito non si tengono oppure si tengono in segreto e questo indebolisce l'influenza del Partito sulle masse. Tale tipo di organizzazione del PCJ non può essere definito altrimenti che settario-burocratico. Esso conduce alla liquidazione del Partito quale organismo autonomo attivo. Nel Partito si coltivano metodi militari di direzione, simili ai metodi che instaurò a suo tempo Trotzki. È completamente inammissibile che nel PCJ vengano calpestati i più elementari diritti dei membri del Partito e che, anche alla più lieve critica delle deficienze esistenti nel Partito, si reagisca con feroci rappresaglie.
L'Ufficio Informazioni considera vergognosi episodi quali l'espulsione dal Partito e l'arresto dei membri del CC del PCJ, compagni Zujovic' e Hebrang, per essersi permessi di criticare le concezioni antisovietiche dei dirigenti del PCJ e per essersi dichiarati a favore dell'amicizia della Jugoslavia con l'URSS...
6. L'Ufficio Informazioni è dell'opinione che la critica mossa al CC del PCJ dal parte del CC del PC(b) sovietico e dai Comitati centrali degli altri Partiti comunisti, nonché il fraterno aiuto offerto da essi al Partito comunista della Jugoslavia, offrano ai suoi dirigenti tutte le condizioni necessarie per una rapida eliminazione degli errori commessi. Purtroppo i dirigenti del PCJ, affetti da smisurata ambizione, da superbia e da presunzione, invece di accettare onestamente questa critica e di avviarsi sulla strada della correzione degli errori con spirito bolscevico, hanno reagito alla critica con animosità, hanno assunto nei suoi confronti un atteggiamento ostile, hanno imboccato la via antipartito della negazione in blocco dei propri errori, trasgredendo l'insegnamento marxista-leninista sul modo di comportarsi di un partito politico verso i propri errori e con ciò hanno aggravato i loro errori contro il Partito.
Impotenti di fronte alla critica del PC(b) sovietico e dei Comitati centrali degli altri Partiti fratelli, i dirigenti jugoslavi hanno imboccato la strada dell'inganno diretto del proprio Partito e del popolo, hanno tenuto nascosta al Partito comunista della Jugoslavia la critica mossa alla politica sbagliata del Comitato centrale, tenendo inoltre nascosti al Partito e al popolo i reali motivi della resa dei conti con i compagni Zujovic' e Hebrang.
Negli ultimi tempi, in seguito alla critica degli errori dei dirigenti jugoslavi fatta dal CC del PC(b) sovietico e dai Partiti fratelli, i dirigenti jugoslavi hanno tentato di decretare una serie di nuovi provvedimenti legislativi di sinistra.
In gran fretta i dirigenti jugoslavi hanno varato nuovi provvedimenti legislativi per la normalizzazione della piccola industria e del piccolo commercio, per la cui attuazione non è stato fatto alcun preparativo e che, data la fretta, possono unicamente aggravare la situazione del settore degli approvvigionamenti della popolazione jugoslava.
Con la stessa fretta essi hanno imposto ai contadini una nuova legge sulla tassa sul grano; anche a questa legge è mancata la preparazione e perciò essa potrà unicamente disorganizzare l'approvvigionamento della popolazione urbana in fatto di cereali. Infine i dirigenti jugoslavi, in modo completamente inatteso e con rumorose dichiarazioni verbali, hanno recentemente proclamato il loro amore e la loro fedeltà all'URSS sebbene sia ben noto che, fino ad oggi, nella prassi, è stata condotta una politica ostile nei confronti dell'URSS. E non basta.
I dirigenti del PCJ vanno annunciando negli ultimi tempi, con grande sicurezza di sé, una politica di liquidazione degli elementi capitalistici in Jugoslavia. Nella lettera inviata al CC del PC(b) sovietico, il 13 aprile di quest'anno, Tito e Kardelj scrivono che 'il Plenum del CC ha approvato misure, proposte dal Politburo del CC, che si prefiggono di liquidare residui capitalistici nel paese'. In armonia con tale concezione Kardelj ha dichiarato, nel suo discorso all'Assemblea nazionale della RPFJ del 25 aprile: 'Nel nostro paese i giorni sono contati per tutti i residui del sistema di sfruttamento dell'uomo sull'uomo'.
Siffatto orientamento dei dirigenti del PCJ sulla liquidazione degli elementi capitalistici nelle attuali condizioni della Jugoslavia e quindi sulla liquidazione dei contadini ricchi (kulaki) quale classe, non può essere altrimenti definito che come avventuristico, antimarxista. Infatti tale problema non può essere risolto dal momento che nel paese predomina la proprietà individuale contadina, la quale inevitabilmente produce il capitalismo; non può essere risolto fino a quando non saranno state create le condizioni per la collettivizzazione in massa dell'agricoltura e fino a quando la maggioranza dei contadini lavoratori non si convincerà dei benefici del sistema collettivizzato dell'economia.
L'esperienza del PC(b) sovietico testimonia che soltanto sulla base della collettivizzazione in massa dell'agricoltura è possibile la liquidazione dell'ultima e più numerosa classe sfruttatrice, la classe dei kulaki e che la liquidazione dei kulaki come classe è parte inscindibile e organica della collettivizzazione dell'agricoltura.
Per poter attuare con successo la liquidazione dei kulaki come classe, e quindi anche la liquidazione degli elementi capitalistici nelle campagne, il Partito ha il dovere di compiere in precedenza un lungo lavoro preparatorio per la limitazione degli elementi capitalistici nelle campagne, per il rafforzamento dell'alleanza della classe operaia e dei contadini sotto la guida della classe operaia, per sviluppare l'industria socialista e metterla in grado di organizzare la produzione delle macchine necessarie alla conduzione di un'agricoltura collettivizzata. La fretta, in queste cose, può provocare soltanto danni irreparabili. Solo sulla base di tali provvedimenti, accuratamente preparati e conseguentemente attuati, è possibile il passaggio dalla fase della limitazione degli elementi capitalistici nelle campagne alla fase della loro liquidazione. Qualsiasi tentativo dei dirigenti jugoslavi di risolvere tale questione in fretta e con decreti stilati in ufficio significa o l'avventura a priori condannata al fallimento oppure un vuoto pavoneggiarsi in fumose dichiarazioni demagogiche.
L'Ufficio Informazioni è del parere che, con tale tattica sbagliata e demagogica, i dirigenti jugoslavi intendono dimostrare non soltanto di non stare sul terreno della lotta di classe ma di andare oltre le richieste che si possono fare al Partito comunista jugoslavo nel settore della limitazione degli elementi capitalistici dal punto di vista delle possibilità reali. L'Ufficio Informazioni è del parere che siffatti decreti e siffatte dichiarazioni di sinistra dei dirigenti jugoslavi sono a tal punto demagogici, e nel momento attuale irrealizzabili, da potere unicamente compromettere la bandiera dell'edificazione socialista della Jugoslavia. Perciò l'Ufficio Informazioni valuta tale tattica avventuristica come una manovra indegna e un gioco politico inammissibile. Come si vede, le citate misure e dichiarazioni demagogiche di sinistra dei dirigenti jugoslavi tendono a mascherare il loro rifiuto di ammettere i propri errori e di ripararli onorevolmente.
7. Considerata la situazione venuta a crearsi nel PCJ e nel tentativo di fornire ai dirigenti del PCJ la possibilità di uscire da questa situazione, il CC del PC(b) sovietico e gli altri Comitati centrali dei Partiti fratelli avevano proposto che alla sessione dell'Ufficio Informazioni venisse esaminata la situazione del PCJ sulla base degli stessi normali principi di partito applicati per l'esame dei lavori degli altri Partiti comunisti nella prima riunione dell'Ufficio Informazioni. Invece, alle ripetute proposte dei Partiti comunisti fratelli di discutere la situazione del PCJ nell'Ufficio Informazioni, i dirigenti jugoslavi hanno opposto un rifiuto. Nello sforzo di sfuggire alla giusta critica dei Partiti fratelli dell'Ufficio Informazioni, i dirigenti jugoslavi hanno inventato la tesi secondo la quale sarebbero venuti a trovarsi in 'una posizione di ineguaglianza'. Va detto che in questa tesi non c'è una sola briciola di verità. È a tutti noto che i Partiti comunisti, mettendo in piedi l'Ufficio Informazioni, sono partiti dal principio inoppugnabile che ciascun Partito ha diritto di criticare gli altri Partiti...
8. Tenuto presente quanto è stato fin qui esposto, l'Ufficio Informazioni concorda con la valutazione della situazione nel PCJ, con la critica degli errori del CC del PCJ e con l'analisi politica di questi errori come sono esposti nelle lettere inviate dal CC del PC(b) sovietico al CC del PCJ, dal marzo al maggio 1948.
L'Ufficio Informazioni è giunto alla unanime conclusione che i dirigenti del PCJ, con i loro punti di vista antipartito e antisovietici inconciliabili con il marxismo-leninismo, con tutto il loro modo di agire e con il loro rifiuto di partecipare alla sessione dell'Ufficio Informazioni, si sono opposti ai Partiti comunisti che fanno parte dell'Ufficio Informazioni, hanno imboccato la via del tradimento della solidarietà internazionale del popolo lavoratore e la via del passaggio sulle posizioni del nazionalismo.
L'Ufficio Informazioni condanna questa politica antipartito e l'atteggiamento del CC del PCJ. L'Ufficio Informazioni constata che, in seguito a quanto esposto, il CC del PCJ si è autoespulso e ha espulso il Partito comunista della Jugoslavia dalla famiglia dei Partiti comunisti fratelli, dal fronte unitario comunista e, pertanto, dalle fila dell'Ufficio Informazioni.
L'Ufficio Informazioni è del parere che, alla base di tutti questi errori dei dirigenti del PCJ, sta l'innegabile fatto che nella direzione del PCJ hanno prevalso apertamente, negli ultimi cinque o sei mesi, gli elementi nazionalisti che vi si trovavano già prima mascherati, che la direzione del PCJ ha rotto i ponti con le tradizioni internazionaliste del PCJ e ha imboccato la via del nazionalismo...
I dirigenti jugoslavi, orientandosi con difficoltà nella situazione internazionale e spaventati dalle minacce ricattatorie degli imperialisti, pensano di poter conquistare le loro simpatie con una serie di concessioni agli Stati imperialisti, pensano di potersi accordare con loro sull'indipendenza della Jugoslavia e di potere gradualmente indurre i popoli jugoslavi a orientarsi verso quei paesi, cioè verso il capitalismo. In proposito essi partono proditoriamente dalla nota tesi borghese-nazionalista secondo cui 'gli Stati capitalisti rappresentano un pericolo minore, per l'indipendenza della Jugoslavia, rispetto al pericolo dell'URSS'. I dirigenti jugoslavi probabilmente non capiscono o fanno finta di non capire, che una simile concezione nazionalista può portare unicamente alla degenerazione della Jugoslavia in una semplice repubblica borghese, alla perdita dell'indipendenza della Jugoslavia, alla trasformazione della Jugoslavia in colonia dei paesi imperialisti".155
L'eroica lotta della classe operaia e del popolo jugoslavi fu resa vana dal tradimento della cricca revisionista di Tito che cambiò la natura del potere politico del paese. Il PCJ finì sotto il controllo totale dei revisionisti e Tito, nel 1952, ne mutò anche il nome creando la Lega dei comunisti jugoslavi. 200 mila militanti saranno espulsi dal PCJ. Di essi circa 30 mila saranno arrestati e rinchiusi nelle galere e nei campi di concentramento del regime revisionista poliziesco titino. Questo mentre i rinnegati preparavano la grande amnistia liberando e riammettendo nel paese decine di migliaia di traditori, di collaborazionisti del periodo di guerra e di controrivoluzionari.
La degenerazione revisionista in Jugoslavia bloccò praticamente sul nascere la costruzione del sistema socialista, restaurando nel paese il dominio capitalistico. Nelle campagne la riforma agraria iniziatasi nel primo dopoguerra aveva cominciato a sviluppare il movimento cooperativo agricolo, primo passo per il superamento dell'economia individuale e della proprietà privata e la creazione di un sistema basato sulla collettivizzazione in agricoltura. Questo processo fu interrotto da Tito che attaccò sul piano pratico e teorico la collettivizzazione agricola, iniziò a sciogliere le cooperative fino a farle sparire del tutto, ridando vigore all'espansione del capitalismo nelle campagne. La proprietà privata e l'economia individuale furono incoraggiate e tutelate da una serie di leggi che garantirono la compravendita della terra, il libero affitto di essa, la possibilità per i proprietari di assumere mano d'opera. Fu inoltre garantito e incoraggiato il libero commercio privato dei prodotti agricoli e di conseguenza abrogato il sistema di acquisto pianificato.
Uguale sostegno fu dato al capitale privato nell'industria jugoslava. Attraverso tutta una serie di leggi e regolamenti varati nel corso degli anni, vennero legalizzati l'industria privata, la libera assunzione di mano d'opera e l'acquisto da parte dei privati di beni appartenenti allo Stato. Accanto allo sviluppo dell'industria capitalistica privata, si sviluppò negli anni anche un'industria capitalistica di Stato direttamente controllata dalla cricca revisionista di Tito e dal suo apparato burocratico di potere. Quest'industria capitalistica di Stato era formata dalle imprese cosiddette di "autogestione operaia" i cui profitti erano destinati essenzialmente a mantenere in vita il regime revisionista poliziesco di Tito, il suo apparato repressivo e di controllo, la sua politica di collaborazione e subordinazione economico-politica all'imperialismo americano.
Quello dell'"autogestione operaia" fu il più grande inganno tentato da Tito e dalla sua ideologia revisionista-borghese. Spacciato come il modello più alto di organizzazione politico-economica socialista, esso fu in realtà la negazione totale del socialismo, un attacco frontale e diretto contro tutti i principi del marxismo-leninismo scaturiti dal suo sviluppo teorico e dall'esperienza concreta di edificazione della società socialista.
L'industria di "autogestione operaia", così come l'industria privata, operava in un contesto dominato dall'incondizionato sviluppo della libera concorrenza e dalla soppressione di ogni tentativo di pianificazione economica; i rapporti tra le imprese erano basati sulla competizione per l'affermazione sul mercato di libera concorrenza e non certamente sullo sviluppo di una cooperazione tesa a raggiungere gli obiettivi indicati da un piano di Stato; scopo principale della produzione era la realizzazione di profitto e non il soddisfacimento di bisogni dei lavoratori e della società. Nulla vi era di socialista nel sistema politico-economico della Jugoslavia messo in piedi dal regime revisionista di Tito. Era, invece, un sistema capitalistico dalla testa ai piedi. Tito, inoltre, abolì anche il monopolio statale del commercio estero, spalancando così le porte della Jugoslavia al capitale monopolistico dell'imperialismo.
Rifiutando il confronto aperto e leale con il Cominform, Tito e Kardelj avevano scritto: "noi dimostreremo in atto che le accuse rivolteci sono ingiuste. Edificheremo, cioè, tenacemente il socialismo e resteremo fedeli all'Unione Sovietica, resteremo fedeli all'insegnamento di Marx, di Engels, di Lenin e di Stalin. Il futuro mostrerà, come ha già dimostrato il passato, che metteremo in atto quanto Vi promettiamo".156
Ebbene, il "futuro" ha mostrato chiaramente il completo tradimento della cricca revisionista di Tito. Ha mostrato inequivocabilmente l'instaurazione in Jugoslavia di un feroce regime poliziesco espressione del dominio della borghesia. Ha mostrato inoppugnabilmente l'asservimento della Jugoslavia agli interessi dell'imperialismo. Un asservimento comprato a suon di dollari. Dopo la rottura con il campo socialista, Tito si è rivolto agli Stati capitalisti per ottenere l'appoggio necessario a mantenere in sella il suo regime. Ha "normalizzato" i rapporti con gli Stati confinanti, Italia e Austria, dando un colpo di spugna alle sue pretese territoriali. Ha chiesto e ottenuto crediti e merci di vario genere e la formazione di specialisti militari e civili jugoslavi. Ha chiesto e ottenuto armi per potenziare un esercito forte di 300 mila uomini che ha sottratto immense risorse economiche che avrebbero potuto essere utilizzate per ben altri scopi e, soprattutto, per migliorare il tenore di vita dei popoli jugoslavi. Tutto questo in un rapporto sempre più stretto e privilegiato con Gran Bretagna e Stati Uniti.
Nel decennio 1949-1959 il regime di Tito ottenne aiuti e prestiti pari a due miliardi e quattrocento milioni di dollari che seppe ben ripagare. Nello stesso periodo, infatti, appoggiò gli imperialisti anglo-americani e i fascisti greci a soffocare la rivoluzione greca, impedendo ai partigiani ellenici il transito in territorio jugoslavo e concedendolo invece ai fascisti; difese l'aggressione imperialista alla Corea e votò all'ONU l'embargo contro Cina e Corea; calunniò la lotta del popolo vietnamita e i governi di Unione Sovietica e Cina che questa lotta appoggiavano; attuò una serie crescente di provocazioni, anche armate, contro l'Albania socialista; sostenne Nagy e la sua cricca nel tentativo controrivoluzionario attuato in Ungheria nel 1956 e si potrebbe continuare a lungo nell'elenco.


Togliatti capofila dei moderni revisionisti

Tito fu il primo dei revisionisti moderni a uscire allo scoperto per attaccare frontalmente il marxismo-leninismo, riuscendo a strappare la Jugoslavia al socialismo. Ma non era certo l'unico revisionista che si annidava nelle file del movimento operaio internazionale. Tra i capofila del revisionismo moderno che, per anni, come un camaleonte era riuscito a ben mimetizzarsi coprendosi dietro la III Internazionale e dietro Stalin, vi era anche Togliatti.
Rientrato in Italia dopo lo scioglimento dell'Internazionale Comunista, Togliatti riprese a lavorare con decisione per consolidare quella linea riformista borghese imposta al partito non solo dalla sua direzione revisionista, ma anche da quanti il partito comunista italiano lo avevano fatto nascere e diretto prima di lui, Bordiga prima e Gramsci poi in testa.
Peculiarità negativa del PCI fu, infatti, di essere stato fin dalla sua nascita un partito revisionista borghese e non, invece, un partito proletario rivoluzionario; con una guida politica ideologicamente, organizzativamente e programmaticamente idealista, antimarxista e controrivoluzionaria. Togliatti in particolare fu l'alfiere e il principale teorico delle cosiddette "vie nazionali" al socialismo. Da grande opportunista qual era, Togliatti, rivendicando ad ogni paese un proprio, "autonomo", cammino di trasformazione sociale, elaborò, pianificò e applicò coscientemente la sua strategia della "via italiana al socialismo", vero e proprio tradimento storico, tesa all'accettazione e al consolidamento del capitalismo e del suo ordinamento politico e istituzionale. Attraverso questa strategia elaborata in poco più di un decennio i revisionisti togliattiani gettarono la maschera, manifestando la loro contrarietà alla rottura completa con il sistema capitalistico e alla lotta per la costruzione del socialismo in Italia. Ciò significava innanzi tutto non porre al centro della propria strategia politica la questione centrale della conquista del potere da parte della classe operaia, l'abbattimento del capitalismo sull'esempio dell'Ottobre e l'instaurazione della dittatura del proletariato.
La "democrazia progressiva" divenne la parola d'ordine del revisionismo in Italia. Una strategia politica tutta incentrata sull'attuazione di un processo di riforme graduali da realizzarsi attraverso l'unità delle principali "correnti di pensiero" e forze organizzate della società italiana, quelle: "comunista", socialista, cattolica e liberale.
Accanto alla "via nuova" per realizzare il socialismo, il togliattismo ovviamente teorizzò anche un "nuovo" modello di partito: il partito di massa. Un partito quindi aperto a tutti, interclassista, sostanzialmente deideologizzato, la cui unica discriminante era costituita dall'antifascismo. Il partito "nuovo", il partito di massa divenne lo strumento d'attuazione di questa strategia politica diretta in modo sempre più marcato ed esclusivo al solo campo elettorale, parlamentare e istituzionale.
Nei quasi due anni di partecipazione del PCI ai governi di unità democratica-nazionale - dal 21 giugno 1945 formazione del ministero Parri al 31 maggio 1947 crisi del 3° ministero De Gasperi - il PCI non agì mai con determinazione e forza in direzione dell'attuazione di uno stretto legame tra lotta di massa e azione di governo favorendo, al contrario, l'allentamento della capacità di incidere del movimento operaio e popolare sulle scelte e sul controllo del governo. Mentre sottovalutava la forza del movimento operaio, il PCI non valorizzava appieno neanche il movimento partigiano, accettando supinamente l'allontanamento dei partigiani dalle forze armate e dai principali settori di direzione dello Stato e della società, così come il subitaneo scioglimento dei Comitati di Liberazione Nazionale. Il PCI accettò supinamente finanche la sua esclusione dal governo, reagendo ad essa attraverso sterili articoli sulla stampa, ma guardandosi bene dal mobilitare le masse, organizzare ed attuare una decisa lotta operaia e popolare nel paese.
L'incapacità, quando la non volontà, a far sviluppare appieno potenzialità e crescita del movimento popolare, a ricercare nell'azione politica il corretto equilibrio nel rapporto tra lotta di massa e azione parlamentare e di governo provocarono sin dal primo dopoguerra, in Italia, l'indebolimento del movimento operaio e popolare che si era temprato nel fuoco della gloriosa lotta di liberazione nazionale contro i nazifascisti, ma anche un indebolimento dello stesso partito revisionista e il suo declino anche sul piano elettorale. Proprio quest'aspetto dell'indebolimento del movimento di massa, rappresentò uno degli argomenti principali di critica alle posizioni sostenute da Togliatti e Thorez - segretario del Partito comunista francese - nel corso della prima Conferenza dell'Ufficio d'Informazione dei Partiti comunisti. Altre critiche contro gli errori evidenziati nell'azione e nella strategia dei partiti comunisti italiano e francese, furono quelle della mancata realizzazione di una giusta combinazione fra lotta parlamentare e lotta extraparlamentare, di una sostanziale quanto errata equiparazione della situazione dei paesi dell'Europa occidentale e orientale, fino alla più importante che indicava l'idea di una "via pacifica e parlamentare" per la conquista del socialismo. Questa era una teoria assai pericolosa e totalmente estranea al marxismo-leninismo.
Nella sua parte conclusiva il rapporto di Zdanov alla prima Conferenza del Cominform, affermava: "Alcuni compagni avevano creduto che lo scioglimento del Comintern significasse la liquidazione di tutti i collegamenti e di ogni contatto tra i partiti comunisti fratelli. Frattanto l'esperienza ha dimostrato che un simile isolamento dei partiti comunisti non è giusto, è nocivo e sostanzialmente innaturale. Il movimento comunista si sviluppa nella cornice nazionale, ma nello stesso tempo vi sono compiti e interessi comuni ai partiti comunisti dei diversi paesi... I comunisti, anche di quei paesi che hanno rapporti di alleanza si sentono impacciati a stabilire tra di loro rapporti di amicizia. Non c'è dubbio che una simile situazione, se si prolungasse sarebbe gravida di conseguenze molto nocive per lo sviluppo del lavoro dei partiti fratelli. Questa esigenza di consultarsi e di coordinare volontariamente l'azione dei diversi partiti è maturata soprattutto adesso, che il protrarsi di questo isolamento potrebbe condurre a un indebolimento della comprensione reciproca e talvolta anche a seri errori...
Il pericolo principale per la classe operaia consiste attualmente nella sottovalutazione delle proprie forze e nella sopravvalutazione delle forze dell'avversario. Come nel passato la politica di Monaco ha incoraggiato l'aggressione hitleriana, anche oggi le concessioni alla nuova politica degli Stati Uniti d'America e del campo imperialista, possono rendere i suoi ispiratori ancora più insolenti e aggressivi. Perciò, i partiti comunisti devono mettersi alla testa della resistenza ai piani imperialisti d'espansione e d'aggressione in tutti i campi: governativo, politico, economico, ideologico. Essi devono serrare le file, unire i loro sforzi sulla base di una piattaforma anti-imperialista e democratica comune e raccogliere attorno a sé tutte le forze democratiche e patriottiche del popolo.
Ai partiti comunisti fratelli della Francia, dell'Italia, dell'Inghilterra e di altri paesi spetta un compito particolare. Essi devono prendere nelle loro mani la bandiera della difesa dell'indipendenza nazionale e della sovranità dei rispettivi paesi. Se i partiti comunisti resteranno saldi sulle loro posizioni, se non si lasceranno intimidire e ricattare, se staranno coraggiosamente a guardia di una pace solida e della democrazia popolare, a guardia della sovranità nazionale, della libertà e dell'indipendenza dei loro paesi, se nella loro lotta contro i tentativi di asservimento economico e politico dei loro paesi sapranno mettersi alla testa di tutte le forze, pronte a difendere la causa dell'onore e dell'indipendenza nazionale, nessun piano di asservimento dell'Europa potrà essere realizzato". 157
Con il loro consueto atteggiamento falso e opportunistico Togliatti e la sua cricca revisionista finsero di accettare le critiche mentre proseguivano ostinatamente con la loro politica fallimentare e di aperto tradimento.