Inflazione, capitale, lavoro

Questo articolo è stato pubblicato sul n. 2 del 1954 della rivista teorica mensile dell'Istituto di Filosofia dell'Accademia delle Scienze dell'Urss "Voprosy ekonomiki". I titolini sono nostri.

Quello dell'inflazione è da tempo uno dei problemi più acuti e irrisolvibili del capitalismo contemporaneo. L'inflazione, che in epoca di crisi generale del capitalismo assume un carattere cronico, porta con sé un maggiore inasprimento delle contraddizioni di classe ed anche esercita un'azione distruttiva sull'economia nazionale dei paesi capitalistici.
L'inflazione, prima di tutto, significa svalutazione della carta moneta rispetto all'oro e generale aumento dei prezzi sulle merci dovuto a un intasamento dei canali della circolazione monetaria da parte di una eccessiva massa di carta moneta. Di per sé, tuttavia, queste manifestazioni esteriori dell'inflazione ancora non ne rivelano l'essenza sua propria. Come insegna la teoria marxista-leninista, infatti, le categorie economiche sono espressione di ben determinati rapporti di produzione tra le persone, per cui ridurre l'inflazione soltanto ad una eccessiva emissione di carta moneta che ne comporta la svalutazione significherebbe darne una definizione soltanto formale e di superficie (che è poi, e non da ora, quella invalsa nell'economia politica borghese. E vedremo il perché). Per il momento ci limiteremo a svelare, nei suoi aspetti più generali, il contenuto reale dell'inflazione, - a stabilire, cioè, per quali classi sociali essa si rivela utile e vantaggiosa, e contro quali di esse, invece, l'inflazione è diretta.
Nell'immediato l'emissione di carta moneta produce un sicuro effetto finanziario per lo Stato che ne dà luogo, dato che esso, con questo denaro, può pagarsi eventuali spese militari, risolvere qualche "buco" di bilancio, gratificare funzionari e lacché, ecc. ecc. Attraverso il meccanismo della emissione e svalutazione della carta moneta si hanno il prelievo di una parte dei redditi della popolazione e la sua rimessa a disposizione dello Stato.

L'essenza di classe dell'inflazione
Questa redistribuzione del reddito nazionale tra popolazione e Stato borghese, tuttavia, ancora non ci rivela, per intero e in ogni aspetto, l'essenza di classe dell'inflazione. Se infatti, a seguito di una emissione di carta moneta, si avesse una riduzione proporzionale dei redditi di tutti gli strati della popolazione, anche in questo caso l'inflazione servirebbe gli interessi delle classi sfruttatrici.
Esiste poi una merce specifica - la forza-lavoro - il cui prezzo non cresce mai in proporzione diretta con la crescita dei prezzi delle altre merci, ma aumenta in misura assai più lenta e graduale. In condizioni di inflazione, inoltre, - e quale sua inevitabile conseguenza, - si ha una vera e propria caduta verticale del salario reale, con connessa crescita dell'immiserimento assoluto e relativo del proletariato.
Il peso dell'inflazione, che ricade principalmente sulle spalle della classe operaia, si riflette poi pesantemente anche sulla piccola borghesia di città e delle campagne. Solitamente, in periodi di inflazione, la crescita dei prezzi sui prodotti del lavoro dei piccoli produttori di merci segue di qualche tempo quella suoi prodotti della grande industria capitalistica. E la ragione è che, parimenti ai cerchi provocati da un sasso gettato in acqua, l'ondata di aumento dei prezzi provocata dall'inflazione si allarga dal centro alla periferia soltanto un poco alla volta e con tempi diversi tra loro. Un ruolo importante, poi, lo svolge anche il fatto che i piccoli produttori, a causa della loro sfavorevole condizione sul mercato, hanno una minore possibilità e capacità di reagire all'inflazione con un aumento dei prezzi sulle merci. Essi, di solito, vendono le proprie merci non direttamente ai consumatori, ma a degli intermediari o capitalisti del commercio i quali, valendosi della propria posizione di incettatori monopolistici di quei prodotti, possono esercitare sui prezzi una pressione tale che ostacoli od impedisca ad artigiani e contadini di aumentare i prezzi sui loro prodotti in misura adeguata alla svalutazione generale del denaro.
L'inflazione, in tal modo, rafforza sul mercato le posizioni concorrenziali della grande borghesia, e indebolisce invece quelle della piccola. I costi di produzione dei capitalisti non aumentano in misura conforme alla crescita dei prezzi sulle merci da essi prodotte, dato che in tali costi rientra anche il salario operaio che, come s'è visto, in tempi di inflazione cade verticalmente proprio nella sua espressione reale. Al contrario, i costi dei piccoli produttori di merci crescono più rapidamente che i prezzi dei loro prodotti, dato che l'aumento dei prezzi sui mezzi e gli strumenti di produzione da essi acquistati presso la grande industria capitalistica supera di gran lunga un eventuale aumento dei prezzi sui loro propri prodotti.
Tuttavia, occorre anche dire che sarebbe senz'altro un errore vedere nell'inflazione soltanto il risultato di una cosciente politica delle classi dominanti. Essa infatti rappresenta un fenomeno oggettivo generato dalle leggi stesse del capitalismo e del suo modo di produzione, alla cui base stanno il disordine e il caos propri dell'economia e delle finanze capitalistiche. La sua determinazione oggettiva, però, non ne esclude affatto il cosciente impiego da parte delle classi sfruttatrici nel proprio interesse e la loro coerente attuazione di una politica monetaria inflazionistica.
Nella storia del capitalismo essa era già ricorsa più d'una volta, ma fino all'epoca della crisi generale del sistema capitalistico ebbe soltanto un carattere episodico e locale, - si produceva, cioè, soltanto in presenza di circostanze eccezionali (per esempio, nel corso di grandi guerre) e interessando, di solito, un solo singolo paese. Nell'epoca odierna, al contrario, l'inflazione ha invece assunto un carattere cronico e di proporzioni mondiali (entro, naturalmente, il mondo capitalistico). Per essere più precisi, a partire dalla prima guerra mondiale, ed ancora a tutt'oggi, il mondo capitalistico ha conosciuto un solo breve periodo con valute relativamente stabili, e che è detto per l'appunto "periodo di relativa e precaria stabilizzazione del capitalismo" (1924-1928), che rispetto all'intera epoca della sua crisi generale - che perdura ormai da sei decenni, - fu davvero un episodio di breve durata. Mentre prima dell'epoca della crisi generale del capitalismo le crisi economiche, benché influissero certamente sulla circolazione monetaria, non portarono mai ad un crollo delle valute e all'inflazione, la crisi degli anni 1929-1933 invece - che si distinse anche per la sua insolita durata, profondità ed asprezza, - provocò il crollo delle valute capitalistiche ed aprì la strada all'inflazione.
Nell'epoca dell'imperialismo l'inflazione, quale suo prodotto "genetico" e permanente, è soggetta alle esigenze della legge economica fondamentale del capitalismo contemporaneo.
Come era da attendersi, l'estrema attualità ed acutezza del problema non potevano non attrarre l'interesse dell'economia politica borghese, la quale però, sotto il velo delle più diverse definizioni pseudoscientifiche, si prova a dissimularne la reale natura economica e l'essenza di classe, e a giustificare l'inflazione con false argomentazioni circa una sua presunta "azione stimolante" sul "progresso economico", purché - "s'intende" - non "sfrenata" o "a briglia sciolta", ma opportunamente "regolata" dalla politica finanziaria degli Stati borghesi. Vediamone ora alcune di queste "teorie".
Anzitutto, un aspetto tipico o comunque comune a molte di esse è la loro riduzione della sostanza dell'inflazione ad una delle forme in cui essa si manifesta, vale a dire all'aumento dei prezzi sulle merci. Confondendo cioè la forma con la sostanza, una gran parte degli economisti borghesi identifica l'inflazione con l'aumento dei prezzi, e questo al fine di dissimularne l'essenza di classe e la natura di strumento volto ad accrescere lo sfruttamento delle masse lavoratrici ed a conseguire il massimo profitto per i monopoli capitalistici. Quale esempio caratteristico di una tale confusione di concetti può ben servire il testo americano "Denaro, credito e finanze", pubblicato alla vigilia della seconda guerra mondiale, nel quale i suoi autori dichiarano, senza ambagi o inutili circonlocuzioni, che ogni aumento dei prezzi, e per quali che ne siano le ragioni, costituisce di per sé inflazione. "In ogni libro - essi scrivono - i termini `inflazione' e `deflazione' saranno utilizzati soltanto per indicare la direzione in cui si muove il livello dei prezzi. Essi cioè non spiegheranno affatto le cause di questo movimento. Ogni periodo in cui il livello dei prezzi aumenta - sia pure essa una variazione secolare, ciclica o irregolare, - è un periodo di inflazione. Al contrario, ogni periodo durante il quale il livello dei prezzi cade è un periodo di deflazione".
Con una simile "definizione" dell'inflazione, come è facile capire, vengono confusi dei fenomeni del tutto diversi tra loro. Infatti, che cosa può esserci in comune tra un aumento dei prezzi dettato da un ribasso del valore dell'oro, un aumento dei prezzi dovuto a una ripresa ciclica dell'industria capitalistica, e un aumento dei prezzi a seguito di una eccessiva emissione di carta moneta? Ebbene, nient'altro che un aumento dei prezzi. A suo tempo Engels, rivolgendosi al Dühring che pure confondeva fenomeni diversi riducendoli ad un solo concetto, osservò ironicamente che riassumere una spazzola da calzolaio sotto il concetto di "mammifero" è certamente possibile, ma non per questo vi compaiono le ghiandole da latte. Inoltre, questa intenzionale confusione di concetti non è semplicemente dovuta ad una particolare inettitudine degli economisti borghesi a pensare in modo logico. Anzi, questo loro esplicito nonsenso - come ora vedremo - ha un suo preciso e mirato senso di classe. Infatti, identificando con l'inflazione ogni generale aumento dei prezzi sulle merci essi, in primo luogo, "staccano" l'inflazione dalla circolazione della carta-moneta, poiché allargano il concetto anche alla crescita dei prezzi in condizioni di valuta-oro, mentre, in secondo luogo, spiegano le variazioni cicliche della produzione capitalistica con l'avvicendarsi di "inflazione" che genera aumento dei prezzi in periodo di ripresa, da un lato, e "deflazione" che porta alla caduta dei prezzi e alla crisi, dall'altro. Tutto questo, se ne desume, allo scopo di negare la inevitabilità delle crisi economiche nel capitalismo e per "motivare" la tesi di una loro possibile liquidazione entro i limiti dello stesso capitalismo mediante "regolazione" della circolazione monetaria e dei prezzi. Che è come dire, in altre parole, che si negano le contraddizioni interne del modo di produzione capitalistico e, in primo luogo, quella sua principale tra il carattere sociale della produzione e la forma privata capitalistica di appropriazione dei suoi risultati, che genera inevitabilmente le crisi economiche.

Le "definizioni" borghesi di inflazione
In altri economisti borghesi, invece, l'identificazione tra inflazione e aumento dei prezzi come tale si presenta nella forma di una domanda eccessiva. Così per esempio dichiara, nel suo libro "Teoria generale dell'occupazione, interesse e moneta", il noto economista borghese John Maynard Keynes: "Quando un'ulteriore crescita della domanda effettiva non porta più ad una crescita della produzione, ma si esaurisce per intero in un aumento dell'unità di spesa rigorosamente proporzionale alla crescita della domanda effettiva, allora si perviene ad una situazione che è del tutto opportuno definire di autentica inflazione". In questa "definizione" apparentemente compiuta, tuttavia, dall'inflazione si è come "evirato" ciò che vi è di più essenziale o che, per meglio dire, ne costituisce il tratto specifico, - l'intasamento, cioè, dei canali della circolazione monetaria da parte di una eccessiva massa di indici di valore svalutati (denaro), nonché la sua essenza di classe quale strumento per arricchire la borghesia mediante il depredamento della classe operaia e delle masse lavoratrici in genere.
Un'altra "definizione" ancora, ma per molti versi affine a quella keynesiana, si ha nella più recente opera dell'economista svedese Bent Hansen, il quale afferma: "Di solito, quando si parla dell'inflazione, le si associa un aumento dei prezzi e/o del reddito; è chiaro che, essendo la domanda eccessiva una delle cause della crescita dei prezzi, si può anche affermare che l'inflazione indica (tra le altre cose) senz'altro una situazione in cui sui mercati si ha presente un'`ampia' domanda eccessiva su molte singole merci". Che è come voler porre, aggiungiamo noi, un segno di uguaglianza tra domanda eccessiva, aumento dei prezzi e inflazione, senza poi dire nulla della sostanza economica e di classe del fenomeno nel suo insieme. Per fare ciò, in genere, gli economisti borghesi circoscrivono l'inflazione a due suoi diversi tipi che essi definiscono come "aperto" e "contenuto". Esaltando il ruolo dello Stato borghese nella vita economica ed attribuendogli una certa capacità di "domare", "frenare" o "controllare" il fenomeno inflazionistico, essi - per esempio - considerano quello sviluppatosi durante la seconda guerra mondiale come di un tipo del tutto particolare, - di un tipo, come essi dicono, "contenuto". Ma a parte il fatto che una simile divisione dell'inflazione in "aperta" e "contenuta" non ne spiega proprio nulla della sostanza sua propria, essa inoltre prende ancora le mosse da quella sua medesima identificazione con l'aumento dei prezzi che s'è vista più sopra. Prima di tutto gli economisti borghesi esagerano oltre misura l'importanza del "controllo" statale sui prezzi, tacendo invece il fatto che durante la seconda guerra mondiale una progressiva crescita dei prezzi, nonostante un tale "controllo", si ebbe comunque. E poi anche se questo, e fino a un certo punto, dovesse davvero contenerne la crescita (ma proprio soltanto fino a un certo punto) ciò non muterebbe affatto la sostanza dell'inflazione come tale, - che vi sia o meno un simile "controllo".
Le "definizioni" borghesi, come s'è detto, hanno carattere soltanto formale: esse cioè mettono in evidenza le sole forme esteriori dell'inflazione, tacendo invece la reale essenza di classe del fenomeno nel suo insieme. Un esempio caratteristico ne può essere quella data dall'economista borghese americano A. Lerner, il quale, a differenza della maggior parte dei suoi colleghi, non identifica e nemmeno circoscrive l'aumento dei prezzi all'inflazione, osservando che una crescita dei prezzi è possibile anche senza inflazione, così come questa può aver luogo anche in assenza di una crescita dei prezzi. A riprova di questa tesi egli fa riferimento alla famigerata "inflazione contenuta". Questo termine il Lerner lo considera impreciso, sottolineando che una inflazione non si liquida nemmeno quando la domanda eccessiva non può manifestarsi in un aumento dei prezzi a seguito del controllo su di essi. Proponendo quindi di sostituire il termine "inflazione" con quello di "soppressione", egli scrive: "Soltanto l'aumento dei prezzi si riesce a contenere, mentre l'inflazione che ne è alla base resta forte quanto prima. La soppressione è soltanto un particolare tipo di inflazione... L'inflazione è domanda eccessiva. La soppressione è una inflazione durante la quale la domanda eccessiva non è in grado di lievitare i prezzi".
Ma che cos'è la "domanda eccessiva"? Questo concetto il Lerner lo interpreta, diciamo, in un senso "psicologico-soggettivo", asserendo che la domanda eccessiva ha luogo non tanto quando la domanda supera l'offerta, ma solo se, in presenza di un tale superamento, la gente si sente ingannata nelle proprie aspettative e nei suoi interessi. "L'essenza dell'inflazione - egli scrive - consiste in una eccedenza di domanda: nell'attesa o nel proposito, cioè, di acquistare più di quanto si abbia a disposizione per l'acquisto, - il che porta con sé disillusione e crollo dei piani".
Questa "concezione", come si può vedere, è altrettanto inconsistente e viziata delle altre più sopra riferite.
Anzitutto, in condizioni di azione della legge di concorrenza e anarchia della produzione, che è propria del capitalismo, il movimento dei prezzi ha carattere spontaneo e affatto prevedibile. In secondo luogo, dando dell'inflazione una interpretazione di tipo "psicologico" e riducendola a "disillusione e crollo dei piani", il Lerner - come, del resto, tutti gli altri suoi colleghi borghesi prima di lui, - non fa che procedere a un ennesimo tentativo di oscurarne l'essenza di classe.
Si deve infine osservare che non di rado gli economisti borghesi utilizzano il concetto di "inflazione" in un senso onnicomprensivo che ne smarrisce il nesso con una particolare e determinata situazione della circolazione monetaria. Essi cioè estendono concetti quali "inflazione" e "deflazione" anche ad altri fenomeni o aspetti più ristretti e particolari della vita economica, parlando per esempio di "inflazione dei redditi", "della domanda", "delle merci", "dei capitali", ecc., facendone così dei semplici sinonimi od equivalenti di "eccedenze" e "carenza".
Un più recente aspetto - e forse anche più indicativo per valutare appieno, nella sua immediata essenza di classe, l'oggetto in questione, - è che tra le "teorie" borghesi oggi invalse nel mondo capitalistico una larga diffusione ha avuto la cosiddetta "teoria della spirale inflattiva dei salari e dei prezzi", il cui fondo sta nell'asserire che l'aumento dei salari sarebbe una delle cause della crescita inflattiva dei prezzi. L'"argomentazione" dei sostenitori di tale concezione si riduce, in sostanza, a quanto segue: se l'aumento della massa monetaria provoca una crescita dei prezzi sulle merci e gli operai ottengono un aumento dei salari, questo aumento, a sua volta, non può che essere fattore di una ulteriore scalata dei prezzi, dato che esso comporta una crescita dei costi di produzione (il che, inevitabilmente, provoca un aumento dei prezzi). Tra i molti economisti borghesi che predicano la "teoria della spirale inflattiva" si può senz'altro citare l'americano Hart, il quale suddivide l'inflazione in due suoi tipi differenti. Egli dichiara: "L'inflazione di domanda eccessiva si determina per uno squilibrio tra la domanda e il valore (su base non inflazionata) dell'offerta effettiva. Esiste poi anche una inflazione dei costi crescenti, determinata questa da una elevata pressione del salario e dei prezzi sui materiali". Di rincalzo a ciò, un altro economista reazionario, il Chandler, proponendo la stessa "teoria" del primo, scrive: "Il raddoppio dell'incidenza finanziaria del salario è stata un fattore importante dell'inflazione... L'inflazione sarebbe certo inferiore se l'incidenza dei salari non aumentasse così fortemente".
Tutte queste asserzioni si basano sulla teoria volgare dei costi di produzione, da tempo immemore non solo criticata, ma anche scientificamente demolita da Marx stesso. Come questi aveva allora dimostrato, infatti, i prezzi delle merci sono sempre determinati non dai costi di produzione, ma dal valore o, per meglio dire, dalla quantità di lavoro astratto socialmente necessario oggettivizzato nelle merci. Voler determinare i prezzi con i costi di produzione significherebbe quindi volerli assurdamente determinare in ragione dei prezzi medesimi: porsi cioè in un circolo vizioso e senza fine come quel famoso "gatto che si mangia la coda". Una variazione del salario non provoca affatto una corrispondente variazione dei prezzi sulle merci. La lotta degli operai per degli aumenti salariali in condizioni di inflazione è appunto determinata dalla crescita dei prezzi sulle merci dovuta all'inflazione stessa e che riduce il loro livello di vita. Non genera affatto un aumento dei prezzi, come invece dichiarano gli economisti borghesi. E il senso di classe di una simile "teoria" è così evidente da non richiedere altre parole se non per riaffermare, più in generale, che nessun "congelamento" o riduzione del salario nominale potrà mai esercitare una azione stabilizzante sui prezzi delle merci e né, tantomeno, ostacolare in qualche modo una ulteriore crescita del processo inflazionistico.
All'alba del modo di produzione capitalistico l'economia politica borghese si dichiarava in favore di uno stabile e saldo sistema monetario, esprimendo così i bisogni e le necessità di un capitalismo che procedeva lungo una linea di sviluppo ascendente. I classici della economia politica borghese vedevano la base della circolazione monetaria nella valuta metallica. Nello scritto "L'alto prezzo dei lingotti è prova di svalutazione delle banconote", da lui redatto nel 1809, Ricardo, rilevando la "grandissima preoccupazione" con cui egli "osserva la progrediente svalutazione della cartamoneta", definì l'eccessiva emissione di cartamoneta e la sua conseguente svalutazione come un "male" che occorre rimuovere il più presto possibile mediante la sostituzione della cartamoneta con denaro pregiato.
Sicché, in tempi ormai remoti, la scienza economica borghese vedeva nell'inflazione un indubbio male da evitarsi con ogni mezzo possibile. Tutt'altro quadro, invece, ci si presenta nelle condizioni dell'odierno capitalismo, quando, esprimendo gli interessi dei monopoli, gli economisti borghesi contemporanei intervengono in qualità di apologeti di una politica monetaria inflazionistica. L'apologia dell'inflazione essi la mascherano con riferimenti agli interessi dell'economia nazionale, affermando che una politica monetaria inflazionistica può stimolare la crescita della produzione e consentire il conseguimento della "piena occupazione".

La "teoria" di Keynes
Prima della seconda guerra mondiale, in qualità di difensore di una politica monetaria inflazionistica, intervenne John Maynard Keynes, il quale inserì sottilmente la propria apologia dell'inflazione nella sua teoria della "piena occupazione". Predicando che la disoccupazione - che in realtà è un prodotto genetico e inevitabile del modo di produzione capitalistico, - può essere liquidata entro i limiti del capitalismo, il Keynes dà un sostegno particolare alla politica creditizio-monetaria in quanto strumento, secondo lui, che può garantire una "piena occupazione". Egli non vede le radici della disoccupazione nel modo di produzione capitalistico, ma soltanto in una insufficiente domanda di merci dovuta, come egli ritiene, ad una elevata norma di interesse che limita il volume degli investimenti. A sua volta, una delle principali cause dell'alto livello di interesse è, a suo dire, la limitata quantità di denaro presente nelle condizioni della valuta aurea. Per cui, partendo da questa premessa, egli giustifica l'abolizione dello standart aureo, liberando così una quantità di denaro in circolazione dalle "catene d'oro" in cui si trova, aprendo ampie possibilità per una supplementare emissione di denaro e, con ciò stesso, consentendo una riduzione della norma di interesse, una crescita degli investimenti e un aumento dell'occupazione.
Caratterizzando poi le proprietà essenziali del denaro che, secondo il Keynes, ostacolano il conseguimento della piena occupazione, egli indica i seguenti tre tratti caratteristici del denaro: 1) la inelasticità della sua produzione, cioè il fatto che, a differenza delle merci, "il denaro non si può produrre a piacimento"; 2) la inelasticità della sua sostituzione, cioè il fatto che ad un aumento del valore di scambio del denaro non sorge la tendenza ad una sua sostituzione con qualcos'altro, allorché ad un aumento del prezzo su una qualsiasi merce essa può essere sostituita con un'altra merce; 3) la massima liquidità del denaro, cioè il fatto che il denaro rappresenta la più sicura forma di ricchezza e può sempre essere trasformato in questi o quei valori materiali, per cui la conservazione della ricchezza nella forma di denaro presenta i più grandi vantaggi per i suoi detentori. Tutto questo preso insieme genera, quindi, una elevata norma di interesse che è uno dei principali freni alla crescita degli investimenti e dell'occupazione. Ma dov'è la via di uscita? "L'unica uscita... - dichiara il Keynes, - può risiedere (anche se tuttora la tendenza alla liquidità rimane immutata) in un aumento della quantità del denaro...".
Ma come aumentare la quantità del denaro? Per fare questo, secondo il Keynes, è necessario superare la "inelasticità" propria al denaro metallico e creare un sistema monetario "elastico" con cui la quantità di denaro potrebbe crescere con maggiore facilità. E un tale sistema egli ritiene quello delle banconote non convertibili emesse dalla banca centrale sotto il controllo del governo.
Va da sé che tutt'intera questa "teoria", sotto il riguardo scientifico, è assolutamente inconsistente e rappresenta praticamente una apologia della politica inflazionistica dello Stato borghese.
Ma vediamoci chiaro. Determinando la norma di interesse con la quantità del denaro (in rapporto con la cosiddetta "preferenza di liquidità"), il Keynes confonde il denaro con il capitale di prestito. La quantità del denaro, malgrado le sue affermazioni, non determina affatto il livello assunto dall'interesse, il quale dipende invece dalla domanda e dall'offerta dei capitali di prestito erogati. Che il capitale di prestito intervenga pure nella forma di denaro, ma esso non può affatto identificarsi con il denaro stesso. Una medesima unità monetaria può più volte passare di mano in mano non soltanto nel corso della circolazione delle merci, ma anche a conclusione di transazioni creditizie. Per cui, in presenza di un'unica somma di denaro liquido, la somma dei capitali dati a prestito - come Marx ha indicato, - può sia aumentare che diminuire. E dato che è così, la quantità di denaro non può affatto determinare la norma dell'interesse.
Quale dimostrazione empirica della autonomia delle norme di interesse dalla quantità di denaro che è in circolazione può servire il movimento della norma di interesse nelle diverse fasi del ciclo industriale. Durante una depressione la norma di interesse, come è noto, cade al suo livello minimo, data la presenza di una gran massa di capitali liberi circolanti e che non trovano una loro applicazione; inoltre, la quantità di denaro in circolazione durante la depressione è inferiore rispetto a un periodo di espansione industriale, poiché il volume della circolazione delle merci è esiguo e il livello dei prezzi delle merci è basso. Con il passaggio dalla depressione alla ripresa e a uno sviluppo dell'industria la circolazione delle merci si accresce, i prezzi delle merci aumentano e la quantità di denaro in circolazione si accresce anch'essa; inoltre, la norma di interesse non soltanto non cade, ma, al contrario, aumenta.
Radicalmente inconsistenti, poi, sono anche i ragionamenti del Keynes riguardo alla cosiddetta "inelasticità" del denaro. Probabilmente, se in qualità di materiale monetario si utilizzasse l'oro la quantità del denaro non potrebbe essere aumentata "a piacimento"; ma anche la quantità di ogni altra merce, pure, non si può aumentare semplicemente a proprio arbitrio, dato che per fare questo si richiede una tale condizione oggettiva quale è la crescita della produzione. Tuttavia, una crescita della produzione può aver luogo anche nell'industria dell'oro, che offre la possibilità di accrescere la quantità di denaro pregiato. In tal modo l'affermazione del Keynes circa l'elasticità "nulla" del denaro, nel senso dell'entità della sua produzione, non è che una palese falsificazione dei fatti. Certo, si può anche dire che la circolazione puramente metallica è in realtà inadeguatamente elastica, dato che in sua presenza la produzione di metallo monetario dovrebbe aumentare nella stessa misura che la produzione complessiva di tutte le merci; il che però sarebbe legato a una enorme crescita delle spese improduttive della circolazione. Tuttavia, una inadeguata elasticità puramente metallica si può superare mediante una parziale sostituzione del denaro pregiato con strumenti creditizi propri della circolazione; e inoltre, una simile sostituzione ancora non significherebbe il perseguimento di una politica monetaria inflazionistica. Se in presenza di un libero scambio delle banconote in oro le banche di emissione emettono denaro creditizio, mentre le banche commerciali praticano largamente i bancogiro con l'aiuto della circolazione di assegni, i bisogni della circolazione possono essere attesi da una sufficiente quantità di mezzi di circolazione in assenza di inflazione.
Dichiarandosi in favore di un sistema monetario "elastico", il Keynes ha poi presente una "elasticità" di un genere particolare: il discorso riguarda infatti il sistema delle banconote o del denaro cartaceo non convertibile, la cui quantità potrebbe aumentare oltre il limite delle normali necessità della circolazione del denaro, esercitando così una azione inflazionistica. Per dirla con il Keynes, trasformare la banca centrale di emissione - che si trova sotto il controllo dello Stato, - in una "fabbrica di materia prima verde" significa dare la possibilità al governo di ricorrere alla emissione inflattiva di denaro cartaceo per coprire le spese statali improduttive - in primo luogo quelle militari, - e per concedere vantaggiose ordinazioni ai monopoli capitalistici.
In una serie di passi di un suo libro il Keynes si dichiara senza mezzi termini a favore dei "vantaggi" di una politica monetaria inflazionistica, indicando, tra essi, la riduzione del salario reale degli operai e avanzando la tesi della "resistenza" opposta dal salario monetario ai mutamenti. A suo dire, gli operai rivolgono una attenzione eccessiva proprio al loro salario monetario ed esercitano una caparbia opposizione ai tentativi dei capitalisti di ridurlo. Per cui, a un diretto ribasso del salario monetario il Keynes preferisce una emissione inflattiva di denaro che porti a un aumento dei prezzi sulle merci e a una caduta del salario reale stante il precedente livello del salario monetario. Dolendosi poi del fatto che attuare una generale riduzione del salario monetario "riuscirebbe possibile, probabilmente, soltanto a seguito di una onerosa e disperata lotta", egli aggiunge qui cinicamente: "D'altra parte, un mutamento nella quantità del denaro è già fin d'ora in potere della maggior parte dei governi... Tenendo conto della natura umana e delle nostre constatazioni, solamente un cieco potrebbe preferire una politica dei salari flessibile a una politica monetaria flessibile...". Per dirla altrimenti, il Keynes dà un "buon consiglio" ai capitalisti: visto che una riduzione frontale del salario monetario comporta grandi difficoltà dovete doppiare il problema accrescendo i vostri profitti con l'aiuto di una "flessibile" politica monetaria inflazionistica. La sua tesi, poi, che "il livello generale del salario monetario deve sostenersi in modo massimamente stabile almeno in applicazione a brevi periodi" rappresenta una diretta giustificazione del "congelamento" del salario nominale e della massima riduzione del salario reale dei lavoratori.
Uno dei tratti caratteristici della "teoria" keynesiana è poi la demarcazione tra inflazione "assoluta" o "autentica" e "seminflazione". Secondo il Keynes una inflazione autentica e assoluta si ha soltanto con una crescita della domanda effettiva in condizioni di "piena occupazione", mentre prima del conseguimento di una situazione di "piena occupazione" la crescita della massa monetario-cartacea e l'aumento dei prezzi da essa suscitato possono considerarsi soltanto in qualità di "seminflazione". Una simile demarcazione viene argomentata col fatto che in presenza di mezzi di produzione inutilizzati e di una forza-lavoro eccessiva la crescita della massa del denaro solo in parte si esprime in un aumento dei prezzi sulle merci, essendo il suo principale effetto la crescita dell'occupazione. La differenza tra "seminflazione" e "inflazione autentica", secondo il Keynes, consiste nel fatto che la seconda si manifesta interamente in un aumento dei prezzi, allorché la prima porta non tanto a una crescita dei prezzi, quanto invece a un aumento della produzione.
Alla luce di quanto esposto risulta quindi comprensibile il perché la "teoria" del Keynes si sia rivelata come un espediente tanto opportuno per la borghesia monopolistica ed abbia così trovato larga diffusione nella moderna economia politica volgare. Per l'epoca della crisi generale del capitalismo è caratteristica una inflazione cronica; e il Keynes giustifica una politica monetaria inflazionistica che rechi una ricca messe di profitti agli affaristi del capitale monopolistico. Nell'epoca della crisi generale del capitalismo la borghesia, e con furia particolare, conduce un violento attacco al livello di vita della classe operaia con svariati metodi, e tra i quali l'inflazione; e il Keynes le offre il fondamento "teorico" a tale offensiva. Nelle condizioni dell'odierna inflazione i capitalisti, col concorso dello Stato borghese, utilizzano largamente una politica di "congelamento" dei salari per un ancor maggiore sfruttamento del proletariato; e il Keynes presenta il congelamento dei salari come un provvedimento a suo dire "benefico". Nell'epoca della crisi generale del capitalismo la classe operaia soffre per una disoccupazione e una inflazione croniche, e il Keynes cerca di convincerci che in condizioni di disoccupazione una autentica inflazione è impossibile. Beh, il noto detto che "il desiderio è padre del pensiero", applicato al Keynes, significa che il desiderio di giustificare la rapina inflazionistica delle masse popolari da parte dei monopoli capitalistici è l'autentica causa intrinseca del suo pensiero "teorico". E ci si è soffermati in modo particolare sulla critica della "teoria" dell'inflazione del Keynes perché essa è tipica e caratteristica di tutt'un intero indirizzo dell'economia politica borghese contemporanea.
La politica "inflazionistica" degli Stati borghesi
Come si è detto più sopra, l'apologia dell'inflazione è il tratto più caratteristico delle "teorie" monetarie borghesi contemporanee. Tuttavia, per le masse lavoratrici la gravità dell'inflazione è tale che perfino gli economisti borghesi, sovente, non rischiano di affermare che l'inflazione rappresenta un "bene" per il popolo. E d'altra parte, essa porta a un tale acuirsi delle contraddizioni di classe da poter minacciare l'esistenza stessa del capitalismo. Ecco perché molti economisti borghesi, negli ultimi tempi, hanno preso a indossare la toga di "lottatori" contro una inflazione che essi definiscono come "smisurata". In una raccolta di articoli e saggi pubblicata di recente negli Usa col titolo "Mobilitazione economica e stabilizzazione" il Chandler, l'Harris e altri autori intervengono in favore di una "frenata" dell'inflazione, motivando questo, in particolare, col fatto che, a misura che si intensifica la lotta di classe del proletariato, l'inflazione diventa sempre più minacciosa e che essa può portare "a rivolte di massa e perfino alla rivoluzione". Si deve poi aver presente che, a un determinato grado di sviluppo del processo inflazionistico, il dissesto dell'economia capitalistica dovuto all'inflazione diviene tanto marcato da minare le condizioni stesse dell'accumulazione del capitale. Ma quali sono i principali metodi di "lotta" contro l'inflazione proposti dagli economisti borghesi?
Da un lato, e com'era da presumere, sotto forma di politica "antinflazionistica" molti economisti borghesi caldeggiano un "congelamento" dei salari. Appoggiandosi sulla "teoria della spirale inflattiva", essi affermano infatti che il mantenimento del salario nominale a un livello invariato deve senz'altro esercitare un influsso stabilizzante sui prezzi delle merci e impedire così un ulteriore sviluppo del processo inflazionistico.
Dall'altro lato, sotto il vessillo di una "frenata" dell'inflazione o della "lotta" contro di essa gli economisti borghesi predicano un rafforzamento dell'onere fiscale che, anche già senza di questo, ricade pesantemente sulle masse popolari. Essi, inoltre, affermano che le imposte, come tali, svolgono un ruolo decisamente antinflazionistico, come nella seguente dichiarazione: "L'eccessiva domanda di denaro può essere ridotta mediante la tassazione, che riduce le possibilità di consumo". Inoltre, essi affermano, se si vuole trovare metodi di lotta più efficaci contro l'inflazione mediante la tassazione d'imposta, occorre dare la preferenza proprio alle imposte sugli strati di popolazione meno abbienti, e questo perché - a loro avviso, - nei gruppi di contribuenti con reddito minore la "tendenza al consumo" è più elevata che in quelli ricchi, i quali spendono per i propri consumi una minor quota del loro reddito, mentre una sua gran parte la "risparmiano".
Ma se a scopo delle imposte deve realmente servire il prelievo di una parte della forza d'acquisto eccessiva, evidentemente questa occorre sottrarla a chi ne ha in eccesso, cioè ai capitalisti, e non certo ai lavoratori che arrivano appena appena alla fine del mese. E poi, dato che il ruolo delle imposte deve risiedere, quale strumento "antinflazionistico", in una riduzione della domanda di denaro eccessiva, ci si chiede: perché soltanto la domanda dei consumi? Non deve altresì essere ridotta la rilevante domanda inflattiva presente sui mezzi di produzione o, come la definiscono solitamente gli economisti borghesi, la domanda di investimenti?! Ma laddove parla la voce dell'interesse di classe, tace quella della ragione.
Per concludere, da tutto quanto s'è detto più sopra ne segue che gli economisti borghesi non soltanto pervertono l'essenza dell'inflazione quale prodotto derivato e permanente del sistema economico capitalistico, ma si propongono anche essi stessi quali apologeti della politica inflazionistica perseguita dagli Stati borghesi nell'interesse del capitale monopolistico. E tutto questo, a rigor di conti, soltanto per un misero salario da lacché, e per di più inflazionato! Uno scambio davvero ineguale, non c'è che dire!