Come le sue varianti, "Reddito minimo d'inserimento", "Reddito sociale minimo" e "Salario sociale"
Il "reddito di cittadinanza" ha una matrice liberale e riformista
Presuppone la rinuncia alla piena occupazione e ai diritti sociali e previdenziali universalistici. Si accompagna al progressivo disimpegno dello Stato nel sociale. Considera positive le privatizzazioni
Il disegno di legge approvato il 27 gennaio scorso dal consiglio regionale della Campania, con i voti del "centro-sinistra", di Rifondazione e quelli determinanti di AN, sul "reddito di cittadinanza" (un'elemosina di Stato di 350 euro mensili da erogare in via sperimentale a nuclei familiari che non superino un reddito di 5 mila euro annui) ha riportato all'attenzione e riacceso il dibattito su questo tema, specie in vista delle prossime scadenze elettorali, tanto da far dire a molti dello schieramento del "centro-sinistra" ma anche al PRC, che il provvedimento voluto dal governatore campano, il rinnegato Antonio Bassolino, potrebbe diventare un modello da estendere a livello nazionale.
La discussione sulla introduzione di una qualche forma di "salario minimo garantito" è vecchia di decenni in Italia. Vi hanno preso parte partiti, specie della "sinistra" parlamentare, e sindacati, specie la Cgil, ma anche il grande padronato. Anzi i primi ad avanzare la necessità di uno strumento di questo tipo furono nel 1984 la fondazione Agnelli, l'ex presidente della Montedison, Schimberni, e un gruppo di ricercatori dell'Isfol.
Ma è dalla fine degli anni '80 in poi che l'argomento diventa oggetto di convegni di studio e di proposte di legge. Si vedano i seminari tenuti nell'88 e nell'89 dall'Ires-Cgil. Nello stesso periodo il PSI di Craxi tiene un suo seminario e successivamente presenta un disegno di legge, primo firmatario Agostino Marianetti, sul "reddito minimo di cittadinanza". Dal canto suo l'allora ministro del Lavoro, il craxiano Rino Formica, presenta (29 aprile '89) una proposta di "assegno sociale" solo per i giovani disoccupati del Sud.

Le proposte di legge
Anche la FGCI e il PCI revisionisti (oggi diventati Sinistra giovanile e DS) si impegnano sullo stesso terreno. La prima, già nell'87, rivendica nel suo congresso di Bologna l'inserimento di un "reddito minimo garantito". Nell'89 lo riproporrà come emendamento alle tesi del 18° congresso del PCI. Il partito allora guidato dal trotzkista Occhetto, oggi braccio destro del presidenzialista e neofascista Di Pietro, non solo approverà detto emendamento ma ne farà un disegno di legge, primo firmatario guarda caso, Antonio Bassolino, lanciato in pompa magna con una manifestazione pubblica a Napoli nell'ottobre 1989. Nel marzo dello stesso anno Democrazia proletaria (confluita poi in Rifondazione comunista) aveva presentato la sua proposta di legge sul "salario di cittadinanza", primo firmatario Giovanni Russo Spena.
è con l'avvento dei governi di "centro-sinistra" (Prodi, D'Alema e Amato) nel quadro della più generale controriforma neoliberista e familista sull'assistenza del ministro Livia Turco, che il "reddito minimo garantito" diventa legge dello Stato (Dlgs n.237/98). Prende il nome di "reddito minimo d'inserimento" (Rmi) stabilito in 500.000 lire e verrà sperimentato in 39 comuni con risultati deludenti. Il secondo governo Berlusconi, appena insediato farà mancare la copertura finanziaria al Rmi e lo abolirà di fatto.
Le ultime proposte di legge sul tema sono state in ordine di tempo: quella del PRC (1 febbraio 2000) primo firmatario, l'imbroglione trotzkista luxemburghiano Fausto Bertinotti, per il "salario sociale". E quella potremmo dire fotocopia dell'ottobre 2002 per il "reddito minimo sociale" presentata da Cesare Salvi (DS), Paolo Cento (Verdi) e dal "Comitato promotore nazionale per il Reddito Sociale Minimo" a cui aderiscono i Cobas e i centri sociali. Ambedue le proposte rivendicano per i disoccupati e i precari un assegno mensile di un milione di vecchie lire circa, più un pacchetto di assistenza e servizi gratuiti.
A queste si è aggiunta, proprio in questi giorni, la proposta di legge d'iniziativa popolare dei DS di sapore chiaramente elettoralistico, promossa da Piero Fassino e Luciano Violante, che porta il titolo; "Indennità d'inserimento al lavoro". Su di essa saranno raccolte 50 mila firme per istituire un bonus di 700 euro mensili per i giovani del Sud in cerca di occupazione, per un periodo massimo di 24 mesi. Per averne diritto si deve essere iscritti ai centri per l'impiego e partecipare ad un percorso di inserimento lavorativo.

Il "reddito minimo" in Europa
In quasi tutti i paesi dell'Unione europea, salvo la Grecia e la Spagna, esiste da tempo una qualche forma di "reddito minimo garantito".
FRANCIA. In Francia è in vigore dall'88 una normativa sul "reddito minimo d'inserimento", preso a modello dai DS italiani. A beneficio di tutti coloro che, disoccupati, abbiano superato i 25 anni e siano residenti da almeno tre anni. In contropartita viene chiesta la disponibilità a frequentare corsi di formazione professionale e a svolgere un qualsiasi lavoro offerto. è inoltre previsto un rimborso delle spese sanitarie e di maternità nonché sussidi per la casa.
OLANDA. In Olanda, altro paese a cui guardano con ammirazione i riformisti di casa nostra, il "reddito minimo" è stato istituito sin dal 1963. Prevede un sussidio per i residenti oltre i 18 anni, che dispongano meno del minimo sociale e siano disponibili a lavorare. In aggiunta, un bonus per le spese sanitarie e per le vacanze.
DANIMARCA. Dopo la scuola dell'obbligo (16 anni) c'è il diritto ad avere un assegno mensile in base all'età e alla situazione familiare. Ciò alle seguenti condizioni: partecipazione a corsi professionali; perdita del lavoro. Il sussidio di disoccupazione copre periodi di tempo piuttosto lunghi.
GERMANIA. Qui è in vigore una doppia indennità per i soggetti a basso reddito: un'integrazione di diverso valore a seconda delle dimensione della famiglia, per coloro che lavorando almeno 16 ore la settimana, partecipano a corsi di formazione professionale; e un sostegno economico per situazioni particolarmente difficili.
GRAN BRETAGNA. è previsto un sussidio per i residenti di almeno 18 anni che lavorano almeno 16 ore settimanali, con un reddito familiare inferiore al tetto fissato per legge, disponibili ad accettare un eventuale impiego. L'indennità di disoccupazione viene erogata per 312 giorni a coloro che avevano un impiego da lavoro dipendente e lo hanno perso.
PORTOGALLO. L'indennità giornaliera di disoccupazione ammonta al 65 % della retribuzione media giornaliera percepita nei 13 mesi precedenti alla perdita del posto del lavoro; mentre l'indennità sociale di disoccupazione può variare dal 70% al 100% del minimo retributivo dei lavoratori.
SVEZIA. è previsto un sussidio per coloro che in cerca di occupazione non abbiano compiuto 20 anni. L'indennità di disoccupazione classica viene pagata per 12 mesi e corrisponde all'80% del reddito percepito al momento della perdita del lavoro.

Il modello neoliberale
Le prime forme di "salario minimo garantito", che risalgono agli albori del capitalismo, hanno una chiara natura di sussidio di povertà per la sopravvivenza e la riproduzione. In Inghilterra, nel 1975 i giudici di Speenhamland stabilirono che andava garantito un "minimo vitale" per i disoccupati e per i salariati più poveri per metterli in condizione di comprare almeno il pane per tutta la famiglia. Ma questa decisione fu accompagnata dalla soppressione delle "protezioni sociali" di cui avevano goduto fino allora i contadini.
Questo, nella sostanza, è il modello che hanno seguito i neoliberisti: assistenza sanitaria e previdenziale, servizi sociali e scuola affidati ai privati in base alle regole del mercato, da usufruire a domanda individuale, per chi può pagare. Per gli esclusi e gli emarginati, sussidi di carità, specie negli Stati Uniti. Nel 1972 l'allora presidente Usa, Richard Nixon (repubblicano come Bush), presentò un progetto di legge che però fu bocciato di stretta misura. Lo stesso anno il candidato democratico alla Casa Bianca, George MacGover, inserì nel suo programma il "reddito minimo garantito" per attenuare, sosteneva, la miseria più evidente e di massa dovuta alla mancanza di un sistema previdenziale obbligatorio su scala nazionale. Il sussidio ne avrebbe dovuto fare le veci.
Persino economisti ferocemente liberisti come Milton Friedman, che contribuirono non poco all'affermazione del reaganismo, si sono cimentati con una proposta di "reddito minimo garantito" nella forma dell'imposta negativa fissata su una certa cifra da elargire da parte dello Stato ai poveri al momento della dichiarazione dei redditi. In pratica, funzionerebbe così: chi non possiede redditi o ne percepisce una quota al di sotto del "minimo vitale" è esentato dal pagare le tasse e allo stesso tempo percepisce un sussidio statale fino al tetto stabilito.

Il modello socialdemocratico
In Europa, soprattutto nei paesi con una tradizione socialdemocratica e un sistema di welfare legato al lavoro e alla contribuzione previdenziale, di "reddito minimo garantito" scisso dal diritto al salario e al lavoro si è incominciato a parlarne a metà degli anni '80 allorché la Ces (Confederazione dei sindacati europei) lo incluse nel suo programma rivendicativo. Lo schema di ragionamento fu, più o meno, il seguente: lo "Stato sociale" realizzato a costo di dure e prolungate lotte dei lavoratori era entrato, per i suoi costi finanziari sul bilancio pubblico, in un crisi irreversibile e quindi andava riformato, ossia ridimensionato e privatizzato; lo sviluppo tecnologico della produzione aveva aggravato il problema della disoccupazione e dell'inoccupazione rendendolo strutturale e irrisolvibile; la difficoltà per i giovani ad entrare nel mondo del lavoro e l'aumento della precarizzazione e di periodi di disoccupazione tra un lavoro e l'altro (si tratta della flessibilità del "mercato del lavoro" anche sancita per via legislativa); il tutto avrebbe fatalmente aumentato l'indigenza e la povertà sotto il minimo della sopravvivenza.
Cosicché fu preso in considerazione l'assunzione di un "reddito minimo garantito" pari al "minimo vitale" che è stato anche definito, per renderlo più "nobile", "reddito di cittadinanza". Composto da un mix di misure di sostegno per l'indigenza pura e semplice; l'indennità di inoccupazione e disoccupazione; il reddito per la formazione professionale come viatico a un inserimento lavorativo anche precario, come nel caso dei "lavori socialmente utili" o "lavori di utilità sociale" inventati appositamente.
Si tratta, sostengono i teorici del "minimo garantito" sulla base di quanto afferma l'economista liberale Dahrendorf, di contribuire alla riqualificazione della forza-lavoro e a rendere positivo il saldo della bilancia occupazionale in regime di rivoluzione tecnologica; si tratta di far rientrare nel gioco quella fetta di popolazione disoccupata (attorno al 10%) nella quale mettono radici fenomeni di degrado, di emarginazione, di criminalità che rappresentano un considerevole costo economico e un fattore di deterioramento della qualità della vita individuale e sociale.

La svolta neoliberista del PCI e della Cgil
In Italia è stato seguito lo stesso percorso. Fino a quasi tutti gli anni '80 l'allora PCI e l'insieme dei sindacati confederali rifiutavano il "salario minimo garantito" come sussidio di povertà. Gli istituti che tendevano a garantire il salario erano: Indennità ordinaria di disoccupazione; indennità speciale di disoccupazione; cassa integrazione guadagni; prepensionamento; pensione di invalidità, pensione di vecchiaia, pensione di anzianità, pensione sociale, assegno per il nucleo familiare. Dopo, con la nascita del PDS-DS e l'omologazione della Cgil agli altri sindacati borghesi, Cisl e Uil, sono venute le proposte di legge di cui si è parlato sopra; cui hanno fatto seguito una serie di controriforme di tipo privatistico sulla sanità, la previdenza, il "mercato del lavoro", l'istruzione, i servizi sociali e servizi pubblici che hanno attinenza e fanno parte dell'argomento in questione.
In questa impostazione, in sostanza, c'è l'assunzione di dosi sempre più massicce di liberismo economico e la rassegnazione sul disimpegno dello Stato dal sociale, c'è la rinuncia alla lotta per un lavoro stabile, a tempo pieno, salario intero per tutti i disoccupati e i lavoratori e per i diritti sociali fondamentali (sanità, previdenza, istruzione) da erogare in modo universalistico, con strutture pubbliche e in modo gratuito.
Tra le proposte, quella più demagogica e ingannatoria, è senza dubbio quella del partito trotzkista di Bertinotti. Già nella denominazione ("Istituzione della retribuzione sociale") e nella parola d'ordine generale che gli fa da sfondo ("Redistribuire la ricchezza per cambiare la vita"). Così come nella cifra richiesta. Ma la logica è la stessa. Tra l'altro Bertinotti dovrebbe spiegare come si concilia la richiesta del "salario sociale" e l'accettazione da parte del suo partito, quando faceva parte del governo Prodi, del "pacchetto Treu" sulla flessibilità del lavoro e la "riforma" Bindi sulla sanità.
Il fatto è che da parte dei riformisti sia di destra che di "sinistra" c'è un'accettazione del capitalismo e del suo modo di produzione che produce sfruttamento e oppressione, ingiustizia sociale e indigenza. Costoro, con le loro proposte e la loro azione si limitano solo ad attenuare le contradddizioni e le conseguenze sul piano sociale; affinché esse non esplodano in maniera diromepente e vengano incanalate nel solco del pacifismo e del parlamentarismo imbelli.

10 marzo 2004