Le principali tappe della demolizione del Sistema Sanitario Nazionale
Nella sanità il processo di privatizzazione inizia su scala nazionale nei primi anni Novanta con le norme di modifica della legge 833 del 1978 che istituiva il Sistema Sanitario Nazionale (Ssn) pubblico.
Quest'ultimo doveva basarsi sul principio della copertura sanitaria universale indipendentemente dal reddito, superando il precedente sistema basato sulle mutue, caratterizzato viceversa dalla differenziazione delle prestazioni sanitarie per categorie economiche e sociali, un sistema quello mutualistico profondamente ingiusto e corporativo oltre che inefficace dal punto di vista sanitario ed inefficiente dal punto di vista economico. Altro principio cardine della legge 833 era che la "salute" è un concetto complesso non riconducibile alla semplice assenza di malattia. Per cui non era sufficiente il modello di copertura assicurativa mutualistico con al centro la diagnosi e la terapia, ma era necessario assicurare a tutti anche la prevenzione e la riabilitazione. Quindi una sanità fatta di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione mentre prima era prevista soltanto la cura, con al centro l'ospedale.
All'inizio degli anni '80 venivano così istituite le Unità sanitarie locali (Usl) che comprendevano oltre agli ospedali i servizi territoriali di prevenzione. Ma i principi ispiratori della 833 rimanevano ugualmente sospesi in presenza di forti interessi sia delle industrie farmaceutiche che delle industrie fornitrici di apparecchiature diagnostiche, che continuavano a orientare la politica sociosanitaria e la ricerca biomedica per i loro profitti e non certamente per il miglioramento della salute della popolazione e in particolare dei lavoratori. Tra l'altro a questi settori del capitale fanno riferimento sia la burocrazia sanitaria statale che la corporazione medica, fermo restando la difesa dei propri interessi parassitari.
Il momento preventivo comunque non è mai realmente decollato né nei luoghi di lavoro (pensiamo per esempio alle "morti bianche" al Petrolchimico di Marghera), né per la popolazione, considerata l'insufficienza di approfonditi studi epidemiologici. Mentre il personale dei servizi di prevenzione veniva impiegato in attività improprie o inutili come il rilascio e rinnovo dei libretti di idoneità sanitaria per alimentaristi o per le attività di polizia mortuaria (punture conservative e certificati necroscopici). Infine una grossa fetta di assistenza sanitaria continuava a venire effettuata nelle strutture sanitarie private convenzionate (ospedali e case di cura, poliambulatori, laboratori diagnostici, ecc).
La 833 fu solo un piccolo passo che non risolveva e non poteva risolvere la crescente incapacità della scienza medicina di soddisfare il bisogno di salute della popolazione, rinchiusa come era dentro un sistema economico capitalista governato da governi borghesi, che inevitabilmente continuava a considerare i lavoratori una merce, e la merce forza-lavoro fonte di ogni profitto. Ma era senz'altro un passo avanti nel diritto alla salute, contro la mercificazione della salute e la selezione di classe nell'accesso ai servizi sanitari, conquistato con dure lotte operaie e popolari negli anni '60 e '70.
Il processo di progressivo smantellamento del Ssn decolla nel '92-'93 con il ministro del PLI De Lorenzo e il D.lgs. 502 1992 che trasforma le unità sanitarie (Usl) in aziende (Ausl) condotte da manager nominati dall'Assessorato regionale alla Sanità, con l'obiettivo del contenimento della spesa e del pareggio di bilancio.
Sono questi manager, gli Amministratori straordinari prima e i Direttori generali delle Ausl dopo, a nominare i Dirigenti di struttura, complessa e semplice (ex primari), che nella gestione delle strutture e servizi sono vincolati al rispetto del bilancio aziendale e ne rispondono al Direttore generale, col quale intrattengono un rapporto fiduciario che, se perso, comporta la retrocessione nella scala gerarchica. Contemporaneamente vengono moltiplicati i livelli gerarchici in tutto il personale dipendente (medico, infermieristico, tecnico e amministrativo) con la conseguente differenziazione economica.
Con il D.Lgs. 229 del '99 (ministro della sanità Rosy Bindi - "centro-sinistra") vengono istituiti i "fondi integrativi" (aziendali, associazioni, sindacali) per i rimborsi delle cure sanitarie. La stessa norma in coerenza con una logica aziendale e di mercato prevede, per difendersi dalle altre aziende sanitarie concorrenti, il rapporto di dipendenza esclusivo con la Ausl per i medici dirigenti di strutture complesse e semplici (ex primari), pena la perdita della direzione di struttura, fermo restando la possibilità per essi di continuare a svolgere l'attività privata intramoenia.
Con l'aziendalizzazione quindi si verifica un vero e proprio capovolgimento dei principi ispiratori della legge 833 del '78. Viene creato un mercato delle prestazioni sanitarie a cui il cittadino/paziente, divenuto cliente, si rivolge in base al proprio reddito. Ritornano al centro le prestazione di diagnosi e cura differenziate in base al fatto se si è "paganti" o meno (camere differenziate negli ospedali, visite specialistiche differenziate), mentre tende a scomparire il momento preventivo e riabilitativo. Le strutture private ottengono l'accreditamento che ufficialmente le parifica con le strutture pubbliche.
Col governo del neoduce Berlusconi si punta dritto alla negazione del diritto alla salute in quanto tale, trasformando in merce la prevenzione, la cura e la riabilitazione, affossando il Servizio sanitario nazionale e spalancano le porte alla sanità privata.
In particolare citiamo: il decreto del 22 novembre 2001 che definisce i "livelli essenziali di assistenza" (Lea), e impone il pagamento di tutte le altre prestazioni; il nuovo piano sanitario nazionale 2002-2004 approvato alla fine di marzo di quest'anno e votato a devolution, deregulation, privatizzazioni e tagli a tutto spiano; la finanziaria 2003 con un taglio di almeno 5 miliardi di euro (10 mila miliardi di lire) al Fondo sanitario nazionale; la revisione del Prontuario farmaceutico con lo spostamento di molti farmaci essenziali nella fascia a pagamento.
Come si può notare il ministro della salute Sirchia in questi due anni di legislatura, attraverso atti successivi, ha approfondito e reso ancora più chiaro il quadro generale della sanità della seconda Repubblica capitalista, neofascista, presidenzialista e federalista. Il lungo elenco di provvedimenti antipopolari che continua di seguito ne rivela il percorso: ha trasformato gli Istituti Clinici di Ricerca in Fondazioni, dove già può investire il capitale privato, nella prospettiva di trasformarle in Spa.; ha separato gli ospedali dai servizi territoriali delle Ausl nella prospettiva di permettere l'ingresso di capitali privati; ha liberalizzato il rapporto di lavoro dei responsabili di strutture complesse e semplici (ex primari) e dei professori universitari permettendogli di lavorare contemporaneamente nelle strutture pubbliche e private che, congiuntamente all'attività privata intramoenia, determinano l'allungamento delle liste di attesa nelle strutture pubbliche sia per le visite specialistiche che per gli interventi, con conseguente dirottamento dei pazienti/clienti nelle strutture private; ha tagliato con una scure il fondo sanitario nazionale e i finanziamenti agli enti locali per strangolare nei debiti la sanità "pubblica"; è infine uscito del tutto allo scoperto proponendo la restaurazione in via sperimentale delle mutue integrative e/o sostitutive con le quali intende demolire dalle fondamenta quel che resta del sistema sanitario nazionale.

FEDERALISMO E PRIVATIZZAZIONE: DUE FACCE DELLA STESSA MEDAGLIA
Questo processo va detto è stato ulteriormente accelerato dal federalismo fiscale prima e dalla devolution poi, vediamone quindi gli effetti moltiplicatori sulla strada della privatizzazione.
Il federalismo fiscale in Sanità inizia con la legge 502 del '92 che prevedeva una duplice modalità di finanziamento del servizio sanitario da parte delle Regioni: i contributi sanitari (dei lavoratori, dei liberi professionisti e delle aziende) e la partecipazione della Regione al Fondo sanitario nazionale (Fsn). La percentuale di incidenza tra le due fonti di finanziamento, contributi sanitari e partecipazione al Fsn, era direttamente correlato con lo sviluppo economico diseguale delle Regioni del Paese (la Calabria riceveva il 35% di contributi sanitari e il 65% di partecipazione al Fsn, viceversa la Lombardia rispettivamente il 73% e il 27%).
Il federalismo fiscale introdotto dal governo di "centro-sinistra" con il D.lgs 56 del 2000 non ha fatto altro che sostituire rispettivamente i contributi sanitari con l'Irap (Imposta regionale sulle attività produttive), l'addizionale Irpef, l'accisa sulla benzina (8 lire per ogni litro venduto) mentre la partecipazione al Fsn è stata sostituita con parte del gettito nazionale dell'Iva, ma con l'aggravante che a partire da quest'anno e fino al 2013 il gettito proveniente dall'Iva scenderà ogni anno di 5 punti fino ad annullarsi, con la conseguenza che ogni Regione sarà costretta sempre più a finanziarsi il proprio sistema sanitario con tributi e balzelli regionali.
Considerato l'ineguale sviluppo economico delle Regioni, il federalismo ha determinato introiti di tributi destinati alla Sanità quantitativamente diversificati tra Regione e Regione, con maggiore penalizzazione di quelle meridionali. Il risultato è stato una frammentazione del sistema sanitario in ventuno diversi sistemi, fortemente diversificati per qualità e prestazioni con un progressivo abbassamento dei "livelli essenziali di assistenza (Lea)" per i lavoratori e le masse popolari dell'intero paese. Gli effetti non hanno tardato ad arrivare e nelle norme che le Regioni predispongono per la riorganizzazione delle schede ospedaliere (sdo) emerge il taglio dei posti letto e la chiusura di diversi ospedali pubblici cosiddetti periferici, senza tenere conto dei bisogni della popolazione e delle caratteristiche del territorio. A questi tagli si somma l'imposizione di ticket sui farmaci, sulla diagnostica e sulla specialistica, mentre viene favorita la sanità privata e il suo indotto, a cui vengono assegnati nuovi posti letto e servizi specialistici. Questo dopo aver già operato l'allargamento territoriale delle Ausl, la chiusura di poliambulatori, l'accorpamento dei servizi di guardia medica, il taglio o la privatizzazione dei servizi di emergenza 118 e la drastica riduzione dei distretti socio-sanitari.
Infine su tutto ciò è piombata la furia demolitrice dell'infame governo del neoduce Berlusconi e la devolution che sta spaccando letteralmente l'unità del Paese e dei lavoratori.
Gli stessi lavoratori della sanità infatti subiranno, a meno che il processo non venga fortemente contrastato, una differenziazione regionale di paghe e diritti, e in prospettiva, a rischio il mantenimento del contratto collettivo nazionale di lavoro. Mentre continuano a peggiorare le condizioni di lavoro (blocco delle assunzioni e tagli del personale, aumento degli straordinari e dei ritmi, allungamento e flessibilizzazione degli orari, precarizzazione dei nuovi assunti) e perdita del potere di acquisto degli stipendi. Ed è appunto sugli stipendi, e in particolare sul "salario accessorio", che si approfondisce la gerarchizzazione e la divisione tra i lavoratori attraverso il sistema dei "premi" e della "pagella". Un sistema in mano alla gerarchia dirigenziale di struttura che dovrebbero misurare con criteri "oggettivi" (assenze, malattie, ritardi, tempi di svolgimento delle diverse mansioni, partecipazione a corsi di formazione) il livello di adesione del singolo lavoratore alla logica aziendale e la sua disponibilità al raggiungimento degli obiettivi fissati dall'azienda. Posizioni queste, condivise e fatte proprie dai sindacati del comparto, in particolare da Cisl e Uil che detengono la maggioranza degli iscritti, e con la stessa Cgil su posizioni concertative come ha dimostrato la firma congiunta dell'accordo del 4 febbraio 2002.
Per di più a fare da sponda ai propositi del ministro Sirchia c'è la proposta della Cisl di inserire nella piattaforma per il rinnovo del contratto la richiesta di estendere la libera professione a tutti gli operatori della sanità. è chiaro che pochi saranno gli infermieri che materialmente potranno avvalersi della libera professione, specie quelli che svolgono un duro lavoro nei reparti, ma tale proposta serve a dividere i lavoratori e a giustificare una richiesta irrisoria di aumenti salariali, certamente al di sotto dell'inflazione reale, mentre passa il disegno politico complessivo.