50º anniversario dei fatti d'Ungheria del 1956
I verdetti storici non si cambiano


Già da alcuni mesi, con largo anticipo sulla ricorrenza del cinquantenario, i mass-media del regime neofascista hanno scatenato una martellante campagna propagandistica per esaltare i fatti d'Ungheria dell'ottobre-novembre 1956. L'obiettivo è quello di dimostrare che non si trattò di un tentativo controrivoluzionario di spaccare l'allora campo socialista, promosso dall'imperialismo, bensì di un'insurrezione popolare di carattere "democratico" e "libertario", contro il "regime stalinista", che precorse e preparò il "crollo del comunismo" cominciato nel 1989 con la caduta del muro di Berlino.
È singolare che in questa canea reazionaria si trovino in prima fila i traditori e i rinnegati del comunismo, e quei giornali, come il quotidiano portavoce del governo dell'Unione della "sinistra" borghese, "La Repubblica", che di pennivendoli "ex comunisti" ed ex "rivoluzionari" pentiti è ben fornito e che da mesi è il più assiduo e accanito nel pubblicare un giorno sì e l'altro pure articoli, fondi, commenti e "ricostruzioni storiche" di esaltazione della controrivoluzione ungherese del '56. Singolare ma non tanto, se si considera che una "vittoria" è tanto più schiacciante se a riconoscerla e a proclamarla è proprio l'ex "nemico" di ieri passato armi e bagagli nel campo del "vincitore", come è il caso del borghese Giorgio Napolitano e del trotzkista Pietro Ingrao, che si sono stracciati pubblicamente le vesti per abiurare le loro posizioni di allora a favore dell'intervento sovietico.
Per noi marxisti-leninisti, invece, non c'è nessun giudizio storico da rivedere, e sui fatti ungheresi del 1956 vale ancora il verdetto che allora fu pronunciato dal movimento comunista internazionale, compreso il PCI in cui militava l'attuale inquilino del Quirinale: si trattò di un attacco controrivoluzionario al campo socialista, fomentato dall'esterno dall'imperialismo che seppe sfruttare, come ben comprese e chiarì Mao, certe contraddizioni in seno al popolo, appoggiandosi alla borghesia e alle altre classi reazionarie spodestate, nonché ad elementi revisionisti nello stesso Partito comunista ungherese, primo fra tutti il traditore Nagy, per sovvertire il regime socialista in Ungheria e portarla nella sfera occidentale e della Nato.
Del resto, fin da quando Churchill inaugurò la "guerra fredda" accusando l'Unione Sovietica di aver diviso l'Europa con una "cortina di ferro", attacchi dall'esterno e tentativi di sovversione dall'interno si sono succeduti incessantemente negli anni del dopoguerra ai danni dei Paesi socialisti, laddove gli imperialisti individuavano dei punti deboli e occasioni di ingerenza, come a Berlino, nella Repubblica democratica tedesca, in Polonia e nella stessa Ungheria. Quello attuato in questo Paese fu il più violento e sanguinoso, un vero e proprio scatenamento del terrore bianco, con massacri ed eccidi di militanti e dirigenti comunisti, operai, soldati e civili inermi. Mancò poco che il tentativo riuscisse e l'Ungheria passasse nel campo imperialista. Il traditore Nagy, che dalla sua posizione di dirigente del Partito comunista e primo ministro del governo si mise a capeggiare la controrivoluzione, ai primi di novembre aveva già annunciato l'uscita dell'Ungheria dal Patto di Varsavia, primo passo verso il cambiamento di campo. Proprio in quei giorni, con l'attacco anglo-franco-israeliano all'Egitto di Nasser, che aveva nazionalizzato il canale di Suez, l'imperialismo occidentale mostrava tutta la sua arroganza e aggressività sulla scena internazionale, e la spaccatura del campo socialista agendo sui suoi anelli più deboli, come l'Ungheria, faceva chiaramente parte di questa strategia.
L'intervento sovietico, sollecitato a gran voce dal movimento comunista internazionale, riuscì a sventare questo tentativo e a ristabilire il potere socialista in Ungheria e l'equilibrio internazionale; anche se ormai, dopo il XX Congresso del PCUS tenutosi proprio in quello stesso anno, il revisionismo kruscioviano andava affermandosi nell'Urss e in tutti gli altri Paesi dell'Est europeo, e dunque anche nell'Ungheria appena riconquistata al campo socialista.
Fu il revisionismo, cioè il ritorno della borghesia al potere nei Paesi socialisti con un'azione dall'interno stesso del partito e dello Stato proletari, come il colpo di Stato kruscioviano e la "destalinizzazione" in Urss che gli dettero il via, la vera causa, il vero cancro che portò nei decenni successivi alla disgregazione e al crollo dell'ormai ex campo socialista nell'Europa dell'Est.
Mao comprese perfettamente la natura controrivoluzionaria dei moti ungheresi e l'avanzare del revisionismo, che a partire dal XX Congresso del PCUS stava cambiando il volto dei Paesi socialisti, e lo spiegò nel magistrale discorso del 1957 "Sulla giusta soluzione delle contraddizioni in seno al popolo": "I reazionari all'interno di un paese socialista, in connivenza con gli imperialisti - spiegava - approfittano delle contraddizioni in seno al popolo per fomentare discordie e creare disordini allo scopo di far trionfare il loro complotto. Questa lezione tratta dai fatti d'Ungheria merita la nostra attenzione". Egli fece poi tesoro di quella lezione per prevenire la restaurazione del capitalismo in Cina, promuovendo a questo scopo la Grande rivoluzione culturale proletaria e sviluppando con essa la teoria marxista-leninista di Marx, Engels, Lenin e Stalin.
Ma all'epoca dei fatti d'Ungheria i revisionisti ancora si mascheravano e non avevano preso il sopravvento nel movimento comunista internazionale, e perciò appariva chiaro che schierarsi con gli insorti equivaleva a schierarsi con l'imperialismo, la borghesia, la chiesa, i fascisti e tutta la reazione, mentre difendere l'intervento sovietico voleva dire difendere il proletariato internazionale e il socialismo. Lo stesso Togliatti scriveva allora: "È mia opinione che una protesta contro l'Unione sovietica avrebbe dovuto farsi se essa non fosse intervenuta, e con tutta la sua forza questa volta, per sbarrare la strada al terrore bianco e schiacciare il fascismo nell'uovo".
Anche se ora sappiamo che queste posizioni di allora del vertice revisionista del PCI erano posizioni obbligate e dettate solo da opportunismo, tant'è vero che ai fatti d'Ungheria seguì l'VIII Congresso, con la "via italiana al socialismo", che sancì definitivamente la linea revisionista e riformista di quel partito.
Non c'è dunque nessun fatto "nuovo" che possa ribaltare il giudizio sulla scelta di campo che fu fatta allora dai sinceri comunisti e da tutti i fautori del socialismo. Che lo facciano oggi dei borghesi, dei rinnegati e dei pentiti, che allora non ne ebbero il coraggio solo perché i tempi non erano ancora "favorevoli" e sarebbero stati spazzati via dal proletariato, ciò non sposta di una virgola la verità storica già acclarata. Come ha detto il compagno Giovanni Scuderi nel magnifico discorso tenuto a Firenze per il 30º anniversario della scomparsa di Mao: "Dobbiamo tenere fermi i verdetti storici, non facendoci influenzare dalle autocritiche dei rinnegati del comunismo, come quelle di questi giorni di Giorgio Napolitano e di Pietro Ingrao sui 'fatti di Ungheria' del '56".

11 ottobre 2006