Secondo un ex agente segreto Usa
Il Vaticano nascose i criminali di guerra croati
Le responsabilità di Montini, futuro Paolo VI

Dopo la fine della seconda guerra mondiale migliaia di criminali di guerra croati, i famigerati ustascia del boia filonazista Ante Pavelic, furono aiutati dal Vaticano a sfuggire alla giustizia e a rifugiarsi in Sud America, portando con sé un ingente tesoro accumulato depredando le vittime dei loro massacri. Ad organizzare la loro fuga fu l'allora vice segretario di Stato, Giovanni Battista Montini, il futuro papa Paolo VI.
Lo ha rivelato un ex agente segreto americano, William Gowen, deponendo davanti alla Corte federale di San Francisco che deve giudicare sulle istanze di risarcimento avanzate da ebrei, serbi, ucraini, russi e rom sopravvissuti ai massacri compiuti dagli ustascia, in un processo che vede implicati la Banca vaticana, lo Ior e l'ordine dei francescani. Le responsabilità vaticane per la protezione e la fuga di criminali nazisti e ustascia erano risapute, ma questa testimonianza resa davanti a un tribunale competente ne rappresenta una conferma oggettiva e autorevole.
Il movimento nazionalista croato degli ustascia di Ante Pavelic fu usato dai nazisti e dai fascisti per creare un governo fantoccio collaborazionista nella Jugoslavia occupata. I fascisti croati si accanirono particolarmente contro la popolazione serba, sterminando chiunque non fosse croato e cattolico, ma massacrarono anche centinaia di migliaia di ebrei, rom e russi per conto dei nazisti. Si parla di un milione di persone, uomini, donne e bambini, sterminate dai criminali di guerra ustascia tra il 1941 e il 1945, di cui centomila solo nel campo di concentramento di Jasenovac.
I forti legami tra gli ustascia e la chiesa cattolica datano da allora. La chiesa cattolica non solo appoggiò la pulizia etnica contro i serbi di religione ortodossa, ma partecipò in prima persona agli eccidi, in cui furono particolarmente attivi e feroci alcuni prelati e frati francescani. Furono distrutte centinaia di chiese ortodosse e i loro beni incamerati. Famigerato il primate croato Stepinac, imprigionato da Tito per la sua complicità nei massacri degli ustascia, poi beatificato come "martire del comunismo" dal papa nero Wojtyla, che sostenne apertamente Pavelic e le sue bande di assassini definendolo "un croato devoto".
Alla fine della guerra i criminali ustascia trovarono rifugio nella rete delle chiese e dei monasteri cattolici, soprattutto quelli francescani.
Una rete che funziona ancora oggi, come dimostra il caso del criminale di guerra croato Ante Gotovina, ricercato dal tribunale dell'Aia per i crimini nella ex Jugoslavia, sospettato di aver trovato asilo in un monastero francescano in Croazia. Grazie alla protezione della chiesa e all'intervento dei servizi segreti alleati, che già avevano cominciato a nascondere e far fuggire i boia nazisti pensando di servirsene in chiave anticomunista nella "guerra fredda" contro la Jugoslavia e l'Urss già iniziata, i criminali ustascia furono poi fatti fuggire in Austria, e di qui passarono in Italia, sotto la protezione del Vaticano, portando con sé il tesoro rapinato alle loro vittime.
Secondo quanto riportato dal quotidiano La Stampa, per lo storico argentino Uki Goñi, che ha indagato a fondo sui documenti dell'epoca, la rete vaticana di protezione dei criminali di guerra faceva capo a Montini e ai cardinali Eugène Tisserant e Antonio Caggiano (argentino). Responsabili operativi erano il futuro cardinale genovese Siri, il vescovo austriaco Alois Hudal, parroco della chiesa di Santa Maria dell'anima in via della Pace a Roma e guida spirituale della comunità tedesca in Italia, il sacerdote croato Krunoslav Draganovic e il vescovo argentino Augustin Barrère.
L'Argentina del dittatore Perón costituiva la mèta finale della fuga dei criminali croati organizzata dal Vaticano. In una lettera del 31 agosto 1946 del vescovo Hudal a Perón si chiedeva di consentire l'ingresso in Argentina a "5 mila combattenti anticomunisti". In un altro documento, anch'esso reperito da Goñi, il futuro papa Montini esprimeva all'ambasciatore argentino presso la Santa Sede (giugno 1946) l'interesse di Pio XII all'emigrazione "non solo di italiani".
La via di fuga verso il compiacente regime argentino passava quindi per Roma. E in particolare dal monastero croato di San Gerolamo, sito in via Tomacelli 132. Qui il boia Pavelic e i suoi ustascia, in attesa di involarsi per il Sud America, furono accolti e nascosti da Draganovic, che custodiva anche il tesoro trafugato dalla Jugoslavia, poi riciclato dalla Banca vaticana. Ecco che cosa ne diceva allora un rapporto dei servizi segreti americani: "Oggi, agli occhi del Vaticano, Pavelic è un cattolico militante, un uomo che ha sbagliato, ma che ha sbagliato lottando per il cattolicesimo. È per questo motivo che il soggetto gode ora della protezione del Vaticano".
L'agente Usa Gowen aveva avuto appunto il compito di scoprire il covo romano di Pavelic e di arrestarlo, ed era sul punto di farlo quando arrivò dall'alto il contrordine. Poco dopo Pavelic fu fatto scappare in Argentina. Ai giudici di San Francisco Gowen ha dichiarato di aver indagato personalmente su Draganovic, e che questi gli disse che informava monsignor Montini. Secondo l'agente, anzi, Montini venne a sapere dal capo dell'Oss a Roma (la futura Cia), James Angleton, delle sue indagini su Pavelic, e il futuro Paolo VI protestò con le autorità americane per la perquisizione di Gowen nel monastero di San Girolamo, accusandolo di aver violato la sovranità territoriale del Vaticano.
Da qui, si intuisce, l'ordine di mollare tutto che l'agente si sentì arrivare dai suoi superiori.

1 febbraio 2006