Studio di Bankitalia sulle disuguaglianze economiche I 10 più ricchi in Italia hanno un reddito pari a quello di 3 milioni più poveri Eppure dalle dichiarazioni dei redditi i padroni denunciano meno dei loro dipendenti La crisi economica tocca soprattutto i più poveri: in Italia le persone fisiche che si trovano ai primi dieci posti quanto a ricchezza individuale posseggono una quantità di ricchezza più o meno equivalente ai tre milioni di italiani più poveri. Attenzione, non si sta parlando di capitale (o meglio, di patrimonio) accumulato dalle più grandi società, ossia dalle persone giuridiche che normalmente hanno la forma di società per azioni, ma del reddito individuale di tredici persone in carne ed ossa. È quanto emerge da un recente studio pubblicato negli Occasional Papers della Banca d'Italia, che fornisce altri dati utili a comprendere quale sia l'evoluzione della ricchezza e soprattutto del divario economico nel nostro Paese. Il patrimonio delle tredici persone che hanno un patrimonio individuale ai primi dieci posti in Italia è valutabile in circa 50 miliardi di euro, secondo Forbes, e nel dettaglio sono questi gli individui con la maggiore ricchezza. Il primo è Michele Ferrero con un patrimonio di 14,2 miliardi di euro, cui fanno seguito Leonardo Del Vecchio - fondatore di Luxottica - con una fortuna di 8,6 miliardi di euro, gli stilisti Giorgio Armani con un patrimonio di 5,4 miliardi e Miuccia Prada con 5,1 miliardi di euro seguiti da Paolo e Gianfelice Rocca, imprenditori nel campo dell'ingegneria energetica, che hanno un patrimonio di 6 miliardi e 4,5 miliardi. Il neoduce Silvio Berlusconi poi ha un patrimonio personale di 4,4 miliardi, al quale fa seguito Patrizio Bertelli che è il marito di Miuccia Prada, con 2,77 miliardi di euro che si trova davanti a Stefano Pessina di Alliance Unichem con 1,95 miliardi. Al nono posto si trovano alla pari i quattro fratelli Luciano, Gilberto, Luciana e Carlo Benetton che hanno ciascuno un patrimonio di 1,5 miliardi, e infine chiude la classifica l'industriale calzaturiero Mario Moretti Polegato con 1,35 miliardi di euro. Oltre al dato sopra citato, emerge dallo studio come in Italia siano i giovani ad essere sempre più poveri e come la ricchezza sia costituita oggi non dal reddito ma dal patrimonio accumulato in passato. Sono dunque oggi gli anziani a essere i più ricchi, mentre i giovani non riescono ad accumulare reddito. Il livello di diseguaglianza è comunque comparabile a quello di altri paesi a capitalismo avanzato sia in Europa sia negli Stati Uniti. Nel 2010 la ricchezza complessiva delle famiglie era pari a circa 8.638 miliardi di euro più di 7,5 volte il valore del 1965 misurato con i prezzi del 2010, con una crescita media annua del 4,6%, ma con una riduzione rispetto ai valori del 2009 che erano di 8.767 miliardi. Per quanto riguarda il dato procapite la ricchezza è passata dai 21.875 euro del 1965 ai 142.481 del 2010, una crescita notevole che però si è bruscamente arrestata dopo il 2007 quando il valore aveva raggiunto quasi i 150 mila euro a testa. La perdita in appena tre anni è stata di quasi il 5%. Tra il 1965 ed il 2010, inoltre, sempre secondo lo studio della Banca d'Italia, il rapporto tra ricchezza e prodotto interno lordo è più che raddoppiato posizionandosi da 2,7 a 5,6 ed è chiaro quindi che il paese in questi 50 anni abbia incrementato la ricchezza più di quanto abbia incrementato la produzione: è la ricchezza che deriva dal passato insomma a essere sempre più rilevante rispetto a quella che è possibile procurarsi giorno dopo giorno con l'attività lavorativa e d'impresa. Un dato rilevante è quello che mostra il cambiamento della ricchezza tra classi d'età: mentre nel 1987 le famiglie di giovani (fino ai 34 anni) erano sui livelli medi (fatto 100 l'indice il livello era 82,5) a partire dal 2000 queste famiglie vedono peggiorare nettamente la loro condizione (61,7 nel 2008), mentre accade l'inverso per quelle degli anziani (da 65,5 a 100,2). Ma a mutare è stata anche la distribuzione tra le varie classi sociali: tra il 1987 e 2008 la ricchezza familiare netta degli operai passa dal 61,9% al 44% e scendono anche tutte le altre categorie anche se mantenendo un indice abbastanza elevato, ad eccezione di quella dei pensionati. Per distribuzione territoriale invece è evidente il peggioramento delle condizioni del Mezzogiorno (da 80,2 a 69,6) a fronte di un miglioramento in tutte le altre aree geografiche. Insomma, la ricchezza deriva principalmente dai patrimoni che si sono formati nel secolo scorso. I giovani a 35 anni hanno in mano poco o niente: né patrimonio piccolo (come hanno invece molti dei loro genitori) o grande, né reddito nella media, né pensione per il loro futuro. E questi giovani non hanno quasi nessuna possibilità di assicurarsi una di queste tre cose nei prossimi dieci o venti anni. A 50 anni avranno ancora un patrimonio pari a zero non potendo risparmiare, un reddito che, se va bene, è di mera sussistenza (e la cosa riguarda anche i piccoli imprenditori), e scarsissime prospettive di una pensione dignitosa. La crisi del sistema economico capitalista sta ora quindi investendo in pieno anche quella classe piccolo borghese o media su cui fino a pochi anni fa il sistema capitalista faceva leva per il consenso politico e soprattutto sta investendo come un fiume in piena i giovani. Contemporaneamente ai dati dello studio della Banca d'Italia uscivano poi dei dati dal Dipartimento finanze del Ministero dell'economia che confermano lo studio citato, in quanto dalle dichiarazioni dei redditi del 2011 sulle entrate del 2010 risulta che lŽitaliano medio vive con 19.250 euro lŽanno, ma che un reddito su tre è inferiore ai 10 mila euro e quasi il 50 per cento dei contribuenti non supera i 15 mila euro. Eppure i padroni dichiarano 18.170 euro lŽanno, meno dei loro dipendenti che ne dichiarano in media 19.810, il che è ovviamente indice di una ulteriore contraddizione ancor più intollerabile generata dal sistema, il fenomeno della generalizzata evasione fiscale. Pochissimi sono i contribuenti che si possono considerare ricchi: solo lŽ1% degli italiani che paga le tasse ammette di percepire entrate superiori ai 100 mila euro e solo lo 0,07% dichiara redditi dai 300 mila euro in su. Oltre dieci milioni di italiani non versano poi nemmeno un euro di IRPEF perché il loro reddito risulta sotto la soglia esente di 7.500 euro annue, indice contemporaneamente di un impoverimento sociale crescente ma certamente in una certa misura anche spia di evasione fiscale. Questi dati sono il chiaro indice della crisi sociale irreversibile che il sistema capitalista sta facendo vivere alla classe operaia e alle masse lavoratrici e popolari. Le analisi di Marx spiegano assai bene l'apparente contraddizione tra la crescita della ricchezza complessiva tra il 1965 ed il 2010 e l'attuale stato di indigenza in cui scivolano strati sociali sempre più ampi della popolazione italiana: "Con lo sviluppo delle forze produttive del lavoro, l'accumulazione di capitale è molto accelerata, anche se il livello dei salari sia relativamente alto. Si potrebbe dunque concludere - come ha ritenuto A. Smith, ai tempi del quale l'industria moderna si trovava ancora ai suoi albori - che questa accumulazione accelerata di capitale deve far traboccare la bilancia a favore dell'operaio, in quanto crea una domanda crescente del suo lavoro. Per questa stessa ragione molti scrittori contemporanei si sono meravigliati che, sebbene il capitale inglese sia aumentato in questi ultimi venti anni molto più rapidamente della popolazione inglese, i salari non siano più aumentati. Ma parallelamente all'accumulazione progressiva del capitale ha luogo una modificazione crescente nella composizione del capitale. Quella parte del capitale che è formata da capitale fisso, macchine, materie prime, mezzi di produzione d'ogni genere, aumenta più rapidamente di quell'altra parte del capitale che viene investita in salari, cioè per comperare lavoro... Se il rapporto primitivo fra questi due elementi del capitale era uno a uno, col progredire dell'industria esso diventa cinque a uno, ecc. Se di un capitale globale di seicento, si investono trecento parti in strumenti di lavoro, materie prime, e così via, e trecento in salari, basta raddoppiare il capitale globale per creare una domanda di seicento operai invece che di trecento. Ma se di un capitale di seicento, cinquecento parti sono investite in macchine, materie prime, e così via e soltanto cento in salari, questo capitale deve salire da 600 a 3.600 per creare una domanda di seicento operai invece che di trecento. Con lo sviluppo dell'industria la domanda di lavoro non procede dunque di pari passo con l'accumulazione del capitale. Essa aumenta indubbiamente, ma in proporzione continuamente decrescente rispetto all'aumento del capitale" (K. Marx, Salario, prezzo e profitto, cap. 14, cfr Il Bolscevico, n. 11/2012 pag. 16). 6 giugno 2012 |