Mentre in Italia non investe, chiude stabilimenti e colloca 11 mila lavoratori in cassa integrazione
La Fiat compra Chrysler
Condizioni capestro per i lavoratori americani
Con una lettera indirizzata ai 300 mila lavoratori del gruppo automobilistico in tutto il mondo, sussiegosamente appellati “cari colleghi”, il presidente della Fiat, John Elkann, e l'amministratore delegato, Sergio Marchionne, hanno annunciato il 1° gennaio il raggiungimento di un “accordo storico per far nascere un'azienda globale”, con l'acquisto del 100% della Chrysler di cui il gruppo torinese deteneva già il 58,5%.
L'accordo è stato raggiunto da Marchionne dopo una lunga trattativa con il fondo assistenziale e pensionistico Veba, gestito dal sindacato dei lavoratori della Chrysler, Uaw, che deteneva ancora il 41,5% del pacchetto azionario, dopo che la Fiat, grazie al megaprestito miliardario di Obama, era entrata dal 2009 nell'industria di Detroit acquisendone il 20% della proprietà e la direzione effettiva a costo zero; per poi arrivare nel gennaio 2012, attraverso vari passaggi e un esborso complessivo di 2,3 miliardi di dollari, a controllare quasi il 60% del capitale, mentre Veba rimaneva l'unico altro azionista con la restante parte.
In base a questo accordo, che avrà valore dal 20 gennaio, Fiat rileverà l'intera quota di Veba per 4,3 miliardi di dollari (il fondo americano ne chiedeva 5), acquisendo perciò il 100% della proprietà di Chrysler. Ma in realtà di questa somma il Lingotto ne dovrà versare in contanti solo 1,75 miliardi di dollari. Altri 1,9 miliardi arriveranno dalla stessa Chrysler, attraverso un dividendo straordinario che pagherà ai suoi due soli azionisti, di cui 1,1 miliardo andrà alla Fiat che lo girerà a Veba. La restante quota di 700 milioni di dollari sarà pagata da Fiat, o meglio dalla nuova società globale risultante dalla fusione con Chrysler, in quattro anni attraverso premi di produzione e “investimenti sul processo lavorativo”.
Sembra di capire, insomma, che saranno gli stessi lavoratori americani a finanziare parte dell'operazione, attraverso un ulteriore aumento della produttività e dei carichi di lavoro. E questo dopo che già con l'arrivo di Marchionne sotto l'egida di Obama e del Tesoro americano avevano dovuto accettare condizioni durissime per non veder chiudere la fabbrica, tra cui la riduzione del 30% della paga oraria, l'aumento dell'orario di lavoro, la riduzione delle pause, il dimezzamento del salario per i nuovi assunti, la rinuncia agli scioperi fino al 2015, l'introduzione del nuovo modello lavorativo denominato World Class Manufacturing
, con il licenziamento di ben 28 mila lavoratori: lo stesso modello che Marchionne ha poi esportato anche in Italia, con la complicità dei sindacalisti collaborazionisti di CISL e UIL, applicandolo in forma e misura diverse ma con identici intenti a Pomigliano, Mirafiori, Grugliasco, Melfi, per non parlare dello stabilimento di Termini Imerese in Sicilia e della Irisbus in Campania, che sono stati addirittura cancellati.
Spostamento del baricentro oltreoceano
Attraverso la fusione con Chrysler la Fiat diventa il settimo produttore mondiale, dietro Renault-Nissan, Hyundai-Kia, Ford, Volkswagen, General motors e Toyota, e punta ad espandersi sul mercato americano, una delle aree mondiali più in crescita insieme alla Cina, trainata dal successo di vendite della Chrysler, che a novembre ha fatto registrare un balzo del 16% (9% su base annua). Altre aree in cui punta ad espandersi, dando per scontato il perdurare della contrazione del mercato europeo (dove nel 2013 ha registrato le peggiori perdite dal 1990), sono il Messico e l'America latina, dove vanta già una posizione di primato in Brasile. Più a media-lunga scadenza l'assunzione di una dimensione globale risponde all'obiettivo di entrare nel ricchissimo mercato cinese, oggi il più in espansione in assoluto, dove finora era praticamente assente e dove da tempo dominano Volkswagen e Toyota.
Ciò fa capire chiaramente come il baricentro finanziario e industriale di Fiat-Chrysler si stia ormai spostando rapidamente dall'Italia e dall'Europa al di là dell'Atlantico, tanto che il Financial Times
ha rivelato, e lo stesso Marchionne ha fatto capire, che la nuova società sarà quotata a Wall Street (“andremo dove ci sono i soldi”, ha detto il nuovo Valletta), mentre oggi la Fiat è ancora quotata alla Borsa di Milano. Ed è facile immaginare che anche il centro decisionale e la progettazione, oggi stanziati al Lingotto, faranno con tutta probabilità la stessa fine migrando da Torino a Detroit, o verso altre sedi in America e nel resto del mondo, per stare più vicini al cuore finanziario del gruppo.
E quale sarà, in questo quadro di vasti cambiamenti, la sorte degli stabilimenti italiani, dove già oggi si producono solo 350 mila auto contro il milione e mezzo di Fiat vendute in Italia, mentre se ne produceva un milione quando in Fiat è entrato Marchionne e due milioni appena dieci anni fa? E dove su 30.700 lavoratori più di un terzo, ben 11.000, sono tenuti in cassa integrazione permanente o periodica?
A ben vedere non c'è niente da festeggiare per questo accordo, come ha fatto la Borsa facendo fare alle azioni Fiat un balzo del 16%, e come hanno fatto il governo, la stampa di regime e i crumiri Bonanni e Angeletti, che si sono ascritti il merito di aver favorito la “vittoria” di Marchionne firmando i suoi accordi capestro a Pomigliano e negli altri stabilimenti Fiat: “Con quegli accordi abbiamo salvato l'industria dell'auto”; “se ora la Fiat è un gruppo globale il merito è anche dei sindacati italiani”, hanno dichiarato entusiasti i due traditori commentando la fausta notizia. Dopo la beffa del progetto “Fabbrica Italia”, tirato fuori dal cappello per giustificare quegli accordi di stampo mussoliniano dietro la promessa di investimenti per 20 miliardi, poi abbandonato accampando la crisi del mercato, il nuovo Valletta cerca ancora di seminare illusioni di fantasmagoriche prospettive di investimenti e sviluppo che avrebbe in mente per l'Italia: come ha ventilato in un'intervista a Ezio Mauro su La Repubblica
del 10 gennaio, in cui ha favoleggiato di “capannoni-fantasma, mimetizzati in giro per l'Italia”, dove “squadre di uomini nostri stanno preparando i nuovi modelli Alfa Romeo che annunceremo ad aprile”, e promettendo che i lavoratori attualmente a cassa integrazione, “col tempo – se non crolla un'altra volta il mercato – rientreranno tutti”.
I dubbi sull'operazione finanziaria
Ma ammesso che si debba credere anche stavolta alle sue bugie, e facendo pure finta di scordare la chiusura di Termini Imerese, che intanto va avanti buttando sul lastrico migliaia di lavoratori dello stabilimento siciliano e del suo indotto, nonché il quasi certo trasferimento della direzione e della progettazione all'estero, dove prenderà la Fiat i miliardi necessari per un simile piano di rilancio della produzione in Italia? La domanda è lecita, giacché anche i risvolti finanziari dell'operazione Fiat-Chrysler sono tutt'altro che chiari e univoci.
Intanto gli Agnelli, che controllano Fiat tramite la finanziaria di famiglia Exor, come al solito non hanno intenzione di sborsare un euro, tant'è che hanno già annunciato che la Fiat non ricorrerà ad un aumento di capitale (cioè frugandosi in tasca) per coprire l'acquisizione di Chrysler, il che vuol dire che le risorse saranno cercate sul mercato finanziario (banche, fondi di investimento), con altro indebitamento del gruppo che è già il più indebitato tra i produttori europei. Se non addirittura anche attraverso la cessione di altre attività, come è stato fatto con l'Iveco venduta agli olandesi, col rischio del trasferimento all'estero di altri pezzi pregiati, come potrebbe essere per esempio la Ferrari.
Marchionne ha ventilato che i soldi per investire in Italia verrebbero dalla liquidità di Chrysler, che grazie al buon andamento delle vendite negli Stati Uniti vanta oggi 20 miliardi di euro di cassa. Ma è vero anche che è gravata da un debito industriale netto di quasi 10 miliardi, e che deve far fronte ad altri 8 di investimenti già decisi per quest'anno, più l'enorme onere delle pensioni dei dipendenti. Tanto che le agenzie di rating, in particolare Moody's e Fitch, minacciano di declassare la Fiat, il cui debito è considerato dagli analisti internazionali poco più del livello “spazzatura”.
E c'è perfino chi mette in dubbio che sia stata la Fiat ad avvantaggiarsi da questa operazione, come l'ex ad della Fiat Cesare Romiti, il quale ha dichiarato a La Repubblica
: “E' indubbio che Marchionne sia stato un ottimo negoziatore. Ma non saprei dire chi ha salvato chi tra le due società”. E ricordando di aver già desistito nel 1990, d'accordo con la famiglia Agnelli, dal tentativo di acquistare la Chrysler per via dei troppi debiti da cui era gravata, ha così concluso: “Spero ora abbiano fatto bene i conti e che i numeri siano cambiati. Se non fosse così, faccio i miei auguri”.
Dunque, altro che in piani e investimenti mirabolanti c'è da credere per il futuro delle fabbriche della Fiat in Italia, dopo questa operazione di ingegneria finanziaria dai molti lati oscuri. Oggi più che mai l'unica strada certa per salvare i posti di lavoro è la nazionalizzazione senza indennizzo della Fiat da parte dello Stato, e la sua riconversione produttiva in base a un grande piano collettivo per sviluppare i trasporti pubblici e l'innovazione tecnologica orientata a ridurre i consumi e l'inquinamento.
15 gennaio 2014