Bicameralismo e province nel dibattito all'Assemblea Costituente

 
L’attuale bicameralismo perfetto trova nella Costituzione il suo fondamento giuridico nel Titolo I della parte Seconda, precisamente negli articoli che vanno dal 55 all’82 e prevede che entrambe le camere abbiano le stesse, identiche funzioni, con differenze che riguardano solo il sistema elettorale, i numeri dei componenti ed i poteri dei rispettivi presidenti. In modo particolare si esaminerà la posizione delle varie forze politiche presenti nell’Assemblea costituente riguardo al fondamentale articolo 55 che stabilisce l’esistenza di due camere. Nella seconda Sottocommissione della Commissione per la Costituzione non ci fu una posizione condivisa circa la scelta di dividere il potere legislativo tra due camere con medesimi poteri e funzioni, non essendovi stata alcuna convergenza di opinioni tra le forze politiche circa il ruolo da attribuire alla seconda camera nell’ambito del nascente ordinamento democratico borghese. Sicuramente giocò un ruolo importante il fatto che sin dalla sua fondazione il Regno d’Italia ebbe due camere, la Camera dei deputati ed il Senato che erano già presenti nello Statuto albertino del 1848, ed anche il regime fascista le conservò, trasformando la prima in Camera dei fasci e delle corporazioni. Comunisti revisionisti, socialisti ed azionisti optavano per il monocameralismo, nell’assunto che la radice della sovranità è unica, e quindi unica deve esserne la rappresentanza presso le istituzioni. Gli altri partiti si dichiararono favorevoli al mantenimento del sistema bicamerale, i democristiani ed i liberali guardavano ad una seconda camera in cui fossero rappresentati gli interessi delle diverse categorie produttive ed economiche, culturali mentre i repubblicani e gli altri partiti laici teorizzavano una seconda camera rappresentativa delle Regioni. E’ vero però che alla fine tutti i partiti giunsero a una posizione di compromesso, e vennero alla fine create due camere con funzioni assolutamente identiche: alla fine le “sinistre” borghesi accettarono che la rappresentanza presso le istituzioni fosse sdoppiata, in due camere che però avessero le stesse, identiche funzioni, ed anche tutti gli altri partiti, già favorevoli al bicameralismo, accolsero il principio che il Senato non dovesse avere funzioni diverse da quelle della Camera. Il Senato fu quindi configurato come una vera e propria ‘Camera di riflessione’ in quanto i suoi componenti dovevano essere di età maggiore rispetto ai componenti della Camera ed anche i suoi elettori dovessero avere un’età minima maggiore rispetto agli elettori della Camera.
Complessivamente l’argomento, discusso nella seconda Sottocomissione della Commissione per la Costituzione, vide una notevole capacità di compromesso e di mediazione favorita anche dalla presidenza di Umberto Terracini del PCI e dalla presenza di un importante giurista come il democristiano Costantino Mortati che prospettò le varie soluzioni presenti negli Stati esteri dell’epoca, compresa l’URSS che aveva varato con Stalin la sua Costituzione nel 1936. A quest’ultimo proposito, fu proprio un altro giurista democristiano, Egidio Tosato, che il 19 settembre 1947 nell’ambito della discussione in seno all’Assemblea osservò, citando tesi sostenute da Stalin nell’ambito dei lavori preparatori alla Costituzione dell’URSS: “ricordo di aver letto nei discorsi di Stalin una osservazione veramente acuta. Si discusse anche nella Commissione per la Costituzione sovietica del 1936 circa l'opportunità o meno di adottare il sistema bicamerale e di porre o meno le due Camere (Soviet dell’Unione e Soviet delle nazionalità) in situazione di parità fra di loro.
Una corrente sostenne che le due Camere non potevano essere poste in condizioni di parità, ma che doveva essercene una, destinata ad avere la prevalenza. Stalin si oppose a questa tendenza, precisamente perché diceva: se voi ponete queste due Camere in posizione di differente forza, non di parità, non diminuite i conflitti, ma li aumentate; ciò che elimina il conflitto fra le due Camere è la posizione di parità e l’uguale base democratica; se date ad una di esse posizione diversa da quella dell’altra, indubbiamente, solo per questo fatto, avrete conflitti continui. Mi pare che questa sia osservazione molto esatta che cada precisamente nel caso nostro. Comunque, le premesse da cui siamo partiti nel pensare all'Assemblea nazionale, sono precisamente queste: un Parlamento bicamerale con due Camere differenziate ed in posizione di eguaglianza”.
E’ proprio questa la linea che prevalse nell’Assemblea, differente da quella originariamente tenuta dalla stessa DC che voleva una differenziazione di funzioni (e quindi nei fatti una prevalenza della Camera sul Senato in quanto solo la prima dotata di competenza legislativa universale) e tale comunque da far capire alle “sinistre” borghesi, portando loro anche l’autorevolezza delle tesi di Stalin, che avere due camere con eguali funzioni equivaleva quanto a capacità rappresentativa - e quindi in termini di democrazia - ad averne una sola, così che furono inseriti nel testo della Costituzione sia l’articolo 55 (che stabiliva l’esistenza di due camere) sia gli articoli 71, 72 e 73 (che stabiliva l’identità di funzioni nel procedimento legislativo ordinario, identità di funzioni poi ribadita in tutti gli altri articoli della Costituzione relativi sia alla revisione costituzionale sia alle funzioni non legislative).
La preoccupazione dei costituenti di evitare - attraverso la posizione di parità reciproca - conflitti tra le due camere rispondeva a una chiara necessità: mantenere il parlamento in una posizione di prevalenza rispetto al governo che, dopo l’esperienza fascista, bisognava assolutamente evitare che assumesse un peso istituzionale eccessivo, ed è sintomo della diffidenza dei costituenti verso quest’ultimo organo costituzionale il fatto che la Costituzione dedica solo cinque articoli (92-96) alla disciplina delle funzioni governative. Appare chiaro quindi il motivo per cui la P2 prima ed oggi Renzi e Letta intendano azzoppare il Parlamento: restringere ulteriormente gli spazi, già da tempo ristretti, a favore di un governo decisionista e, in prospettiva, presidenzialista.

Le province
Anche le Province nascono, come le due Camere, ben prima dell’entrata in vigore dell’attuale Costituzione, essendo state istituite nell’ordinamento del Regno di Sardegna con il Regio Decreto n. 3702/1859 e poi estese a tutta la penisola due anni più tardi con la proclamazione del Regno d’Italia. Peraltro i piemontesi fondarono l’istituto provinciale su un modello ancora più antico costituito dai Dipartimenti istituiti nei territori dell’Italia centro-settentrionale della Repubblica italiana (1802-1805) dall’allora presidente Napoleone Bonaparte, i cui territori facevano capo alle stesse città che poi sarebbero divenuti capoluoghi e avevano approssimativamente la stessa estensione odierna. Il modello piemontese di Provincia non era democratico, in quanto a capo di essa vi era un Prefetto di nomina regia e non era previsto un Consiglio elettivo, riflettendo in pieno il modello autoritario con cui Bonaparte aveva strutturato prima in Francia e poi nel resto dei territori annessi i Dipartimenti. Questa situazione durò fino alla caduta del fascismo, quindi l’Assemblea costituente si trovò per le mani enti già costituiti ma che mai avevano avuto nella loro storia un carattere democratico.
Tenendo presente che tra il 1999 e il 2001 la riforma del Titolo V della Seconda Parte della Costituzione ha profondamente rivoluzionato il tema delle autonomie locali introducendo anche le Città metropolitane, si può dire comunque che le Province siano state tra tutte le circoscrizioni preesistenti a tale riforma (Comuni, Province e Regioni) le meno riformate. Il testo originario della Costituzione prevedeva e disciplinava le Province agli articoli 114, 128, 129 e 130 mentre oggi (essendo stati abrogati gli ultimi tre articoli menzionati) la disciplina delle funzioni è riservata agli articoli 118 e 119, coordinata con quella degli altri enti locali.
Anche per le Province lavorò la seconda Sottocommissione della Commissione per la Costituzione, che si occupò anche delle Regioni che vennero istituite per la prima volta con la Costituzione del 1948 - a favore dell’istituzione delle quali si schierarono nettamente a favore democristiani e repubblicani, rimasero piuttosto tiepidi comunisti revisionisti e socialisti mentre i liberali erano tendenzialmente contrari, ma tutto sommato era chiaro sin dall’inizio che le Regioni sarebbero state istituite e avrebbero rappresentato, da un punto di vista istituzionale, uno dei maggiori punti di rottura con l’ordinamento dello Statuto albertino. Quindi la discussione circa il mantenimento e le funzioni delle Province fu strettamente intrecciato con quella sulle Regioni, dal momento che era evidente a molti che le prime avrebbero potuto rischiare di diventare un inutile ingombro istituzionale in presenza delle seconde, e tali dubbi furono posti già nella seduta del 27 luglio 1946 dal giurista democristiano Gaspare Ambrosini che tuttavia non si schierò nettamente a favore o contro il mantenimento, ma fornì spunti importanti di riflessione a tutta la Sottocommissione presieduta da Terracini. Nell’ambito di quest’ultima infatti le posizioni furono variegate: il socialista Paolo Rossi manifestò il timore che il mantenimento delle Province avrebbe potuto far sorgere conflittualità tra queste ultime e le Regioni di appartenenza, i comunisti revisionisti Vincenzo La Rocca e lo stesso presidente Umberto Terracini sostennero che l’istituzione delle Regioni rendeva inutili le Province che quindi avrebbero dovuto secondo loro essere abolite, d’altra parte i democristiani Salvatore Mannironi e Giuseppe Fuschini sostennero che la soppressione delle Province avrebbe creato disordine nelle istituzioni, mentre Costantino Mortati le considerò un utile contrappeso ad un eventuale accentramento di poteri da parte delle Regioni. D’altra parte il democristiano Attilio Piccioni si schierò per la soppressione. Così, senza peraltro dure contrapposizioni, passò all’Assemblea plenaria la linea favorevole al mantenimento, ulteriormente rafforzata da quanti, tra i 481 costituenti, indipendentemente dal partito politico di appartenenza provenivano dai capoluoghi provinciali e intendevano confermare l’importanza da un punto di vista amministrativo delle città e dei territori limitrofi, così le Province furono mantenute.
Su un punto però ci fu assoluta unanimità tra tutti i partecipanti alla seconda Sottocommissione: le Province avrebbero acquisito un carattere democratico con l’elezione diretta di un Consiglio che avrebbe sostituito il ruolo non democratico del Prefetto già previsto nello Statuto albertino, quindi le Province, una volta confermate e rinnovate nella loro organizzazione, avrebbero dovuto far operare la rappresentanza popolare per territori più piccoli delle Regioni ma molto più grandi dei Comuni: evidentemente è proprio questo che infastidiva il golpista Licio Gelli e ora irrita i decisionisti Renzi e Letta.

12 febbraio 2014