Faida tra democristiani. Letta battuto si dimette
Il Berlusconi democristiano Renzi a Palazzo Chigi
Berlusconi: faremo una “opposizione responsabile”. La Lega secessionista, neofascista e razzista “non dice no a priori”
Solo il socialismo e il potere del proletariato può salvare l'Italia
Il 17 febbraio, dopo aver sloggiato senza tanti complimenti Enrico Letta da Palazzo Chigi, Matteo Renzi ha ricevuto da Napolitano l'incarico di formare il nuovo esecutivo, e ora si appresta a governare con la stessa maggioranza di Letta, ma con il vento in poppa dei “poteri forti” nazionali e internazionali, dei mercati finanziari, della massoneria e dei mass-media di regime, con una possibile astensione della Lega secessionista, neofascista e razzista, e soprattutto con la benevola “opposizione responsabile” di Berlusconi.
É un'operazione politica che lo “smisuratamente ambizioso” leader del PD (la definizione è sua) ha iniziato e concluso a passo di carica nel giro di una decina di giorni, in cui è passato dalle rassicurazioni a Letta sulla durata del suo governo alla sua spietata defenestrazione, dopo una faida senza esclusione di colpi tra democristiani e con la complicità degli ex dirigenti del PCI revisionista, che non hanno dato battaglia in Direzione e gli si sono accodati servilmente pur di mantenere la poltrona e la pagnotta.
Ma a ben guardare il destino di Letta era già segnato da prima: se non già dalla vittoria schiacciante di Renzi alle primarie e la sua elezione alla segreteria del PD, che ora è assodato rappresentava solo un trampolino per Palazzo Chigi, almeno da quando Renzi e Berlusconi si erano accordati alle sue spalle sulla nuova legge elettorale maggioritaria e bipolare, ancor peggiore dell'anticostituzionale porcellum e simile alla legge Acerbo di mussoliniana memoria, e sulle “riforme” del Senato e del Titolo V della Costituzione. Forse la propria condanna a morte Letta l'aveva firmata inconsapevolmente quando, per cercare di opporre una qualche resistenza all'improvviso e minaccioso apparire dello schiacciasassi Renzi-Berlusconi, aveva osato evocare lo spettro innominabile della legge sul conflitto di interessi. Probabilmente le sue resistenze e quelle di Alfano all'accelerazione impressa alla legge elettorale, concepita da Berlusconi e Renzi per cancellare i piccoli partiti e lasciare solo PD e Forza Italia in campo, unite ai malumori e alle richieste di modifiche della minoranza PD, con il rischio di un impaludamento parlamentare del loro accordo, deve aver convinto i due banditi che occorreva sgombrare il campo al più presto dal governo Letta-Alfano e prendere direttamente in mano la partita delle “riforme”. Senza contare lo scontro sotterraneo con Letta sulla partita del rinnovo delle cariche nelle aziende pubbliche, con i grandi manager che si stavano tutti riposizionando su Renzi.
Una congiura di palazzo di vecchio stampo democristiano
Di certo a Renzi l'occasione per scalzare Letta gliel'ha fornita lui stesso, con la sua incapacità e inerzia di fronte a una situazione economica sempre più catastrofica, tanto da attirarsi un vero e proprio ultimatum dal capo degli industriali, Squinzi. Al contrario le quotazioni del Berlusconi democristiano tra i magnati dell'industria e della finanza (non solo Farinetti, Cavalli o Squinzi, ma anche De Benedetti, Della Valle e altri), nonché tra la grande stampa borghese (con in testa Corriere della Sera
e Repubblica
, ma persino Il Giornale
della famiglia Berlusconi) crescevano di giorno in giorno, così come il lavorìo sotterraneo del nuovo “uomo della provvidenza” per scavare il terreno sotto i piedi di Letta e prepararsi a detronizzarlo: e tutto questo mentre a parole ripeteva al premier “stai sereno” e spergiurava che il suo governo sarebbe durato almeno fino alla fine di quest'anno, come da patti stabiliti. E che anzi egli non sarebbe mai andato a Palazzo Chigi senza passare per le urne, tanto meno per fare un altro governo di “larghe intese”: “Chi ce lo fa fare?”, andava dicendo infatti il Pinocchio fiorentino, che intanto però si guardava bene dal rispondere agli appelli di Letta di rafforzare il governo avanzando sue proposte programmatiche e inserendo ministri di sua fiducia.
Fatto sta che dopo un incontro con l'ambasciatore americano John Phillips, che ultimamente non faceva mistero di scommettere su di lui, Renzi ha impresso un'improvvisa accelerazione alla crisi di governo latente decidendo di anticipare la resa dei conti con Letta fissata per la riunione della Direzione PD del 20 febbraio, e con una spettacolare virata ha messo sul tappeto la questione della “staffetta”, cioè la sostituzione in corsa di Letta, senza investitura elettorale e senza passare per un voto di sfiducia in parlamento, per formare un suo governo che duri fino alla fine della legislatura per fare le “riforme”, sia quelle concordate con Berlusconi che altre ancora da annunciare.
Letta ha provato ad opporre resistenza, contando sull'appoggio di Alfano, di Cuperlo e dei bersaniani, e soprattutto di Napolitano, pensando che lo avrebbe blindato anche stavolta, pur di assicurare la “stabilità” e scongiurare le elezioni anticipate. A questo scopo ha cercato anche di contrattaccare, presentando alla stampa un suo programma di legislatura (“Impegno Italia”), sfidando Renzi a sfiduciarlo in parlamento e accusandolo apertamente di volergli riservare lo stesso trattamento che D'Alema riservò a Prodi nel 1998. Ma le resistenze di Alfano e della minoranza PD sono state presto vinte dall'idea allettante che un governo Renzi avrebbe allontanato le elezioni fino al 2018, e con esse il pericolo, per Alfano, di essere fatto fuori dalle alte soglie di sbarramento, e per i cuperliani, dalle liste bloccate compilate dai renziani.
Quanto all'inquilino del Quirinale, ad ammorbidirlo e convincerlo a scaricare Letta, è servita anche la campagna di stampa, partita proprio dal Corriere della Sera
(il quotidiano più antico e storico della grande borghesia italiana che pure aveva sostenuto a spada tratta il nuovo Vittorio Emanuele III sia quando aveva nominato premier Monti sia quando aveva tenuto a battesimo il governo Letta),
sulle “rivelazioni” di un giornalista americano secondo cui Napolitano contattò Monti per offrirgli la presidenza del Consiglio alcuni mesi prima della caduta di Berlusconi: la classica scoperta dell'acqua calda, che tuttavia era sufficientemente imbarazzante per ricattare il capo dello Stato, già nel mirino del M5S con la richiesta di impeachment, e a cui ora minacciavano di unirsi strumentalmente gli uomini del neoduce.
La capitolazione di Letta e degli ex revisionisti
In un incontro al Quirinale, dove è stato ricevuto come se fosse già il premier “in pectore”, Renzi ha avuto quindi semaforo verde da Napolitano, e dopo un ultimo gelido incontro a Palazzo Chigi con Letta, ormai rimasto solo e col cerino in mano, in cui gli ha chiesto un'ultima volta ma invano di dimettersi “spontaneamente”, gli ha dato appuntamento per la resa dei conti finale alla Direzione del PD anticipata al 13 febbraio. E in quella sede gli ha dato il colpo di grazia, mettendo in votazione un documento di benservito su cui sono confluiti opportunisticamente anche i cuperliani-bersaniani e i “giovani turchi”, tanto che è stato approvato con una maggioranza schiacciante di 136 si, 2 astenuti (tra cui Fassina) e solo 16 no dei civatiani, mentre i lettiani erano usciti per non partecipare al voto.
Allo sconfitto Letta non è restato altro che salire al Colle per rassegnare le dimissioni nelle mani del capo dello Stato, senza neanche presentarsi in parlamento. Seguiva un rapidissimo giro di consultazioni-farsa dei partiti al Quirinale, a cui M5S e Lega si rifiutavano di partecipare per protesta, ma che ha consentito al delinquente di Arcore, grazie anche a Renzi e Napolitano, di presentarsi in pompa magna al Colle per dimostrare a tutti che è ancora al centro della scena politica, infischiandosene della condanna definitiva per frode fiscale e dell'espulsione dal Senato in quanto pregiudicato.
Uscendo dal colloquio col capo dello Stato, il neoduce annunciava anzi una “opposizione responsabile” al governo Renzi, il mantenimento “degli accordi intervenuti sulla legge elettorale e le riforme”, e di “valutare di volta in volta” i suoi provvedimenti. Come a dire che è sempre lui a tenere in mano il pallino della partita politica e che Renzi avrà presto bisogno anche del suo consenso per governare: “Auguri di tutto cuore, lo stimo. Con lui si può parlare perché non è comunista”, gli ha mandato a dire sornione il neoduce. Ma nella sua cerchia più ristretta dei vari Ferrara, Confalonieri, Toti, Rossella, Minzolini, Sallusti, Bondi e compagnia cantante, l'entusiasmo per Renzi è a dir poco alle stelle. Anche la Lega, per bocca del suo segretario Salvini, faceva sapere di “non essere pagata per dire dei no a priori” a Renzi, ventilando quasi una possibile astensione al suo governo a certe condizioni.
“Una riforma al mese”
Dopo appena quattro giorni dal siluramento di Letta, il Berlusconi democristiano ha ottenuto l'incarico da Napolitano, ma ha dovuto rallentare un po' la corsa per le resistenze di Alfano, che chiede almeno un ministero in più dei tre che gli toccherebbero e un preciso patto programmatico “alla tedesca”, ma soprattutto garanzie sulla durata del governo, perché teme che approvata la legge elettorale Renzi e Berlusconi vogliano andare subito alle elezioni col nuovo sistema che lo cancellerebbe dal parlamento come partito autonomo. Non gli sono piaciute infatti le voci insistenti di accordi segreti tra Renzi e Verdini, che si sentono tra loro ormai quotidianamente; voci suffragate da un filmato de Il Fatto Quotidiano
, secondo le quali il fiduciario del neoduce starebbe preparando una pattuglia parlamentare ad hoc per sostenere il nuovo governo in parlamento, così da rendere ininfluenti i voti (e quindi il potere contrattuale) del Nuovo centro destra.
Intanto il premier incaricato, alle prese con la scelta dei ministri, annuncia che appena insediato farà “una riforma al mese”, cominciando con la legge elettorale entro febbraio, la “riforma del lavoro” a marzo, quella della pubblica amministrazione ad aprile e quella del fisco entro maggio. Significa che presto i lavoratori e le masse popolari assaggeranno sulla loro pelle le “riforme” che l'ambizioso leader democristiano del PD ha in serbo per loro. “Riforme” su cui finora è stato prudentemente vago, ma che già lasciano trapelare misure liberiste, antioperaie e antipopolari senza precedenti, come l'abolizione definitiva dell'articolo 18 per i nuovi assunti e la licenziabilità dei dipendenti pubblici. Non per nulla il consigliere politico del neoduce, Giovanni Toti, ha dichiarato entusiasta che se le misure di Renzi saranno queste Forza Italia si spellerà le mani dagli applausi.
Nessun credito e nessuna tregua bisogna perciò accordare al governo del nuovo cavallo della classe dominante borghese. Il suo sarà un governo ancor peggiore del governo neofascista e affamatore Letta-Alfano, perché ancor più determinato ad attuare, in combutta col suo modello e ispiratore politico, le controriforme istituzionali e costituzionali che completano la seconda repubblica neofascista secondo il piano della P2. Solo abbattendo il sistema capitalistico e instaurando il socialismo sarà possibile dare il potere al proletariato e cambiare veramente l'Italia.
19 febbraio 2014