Con la benedizione di Napolitano e attuando il patto col neoduce Berlusconi
Renzi abolisce il Senato. Golpe piduista
Il Berlusconi democristiano tira dritto sulle “riforme” infischiandosene delle accuse di autoritarismo e delle minacce di farlo cadere in parlamento
“Non cambieremo una virgola. E nemmeno ci prenderemo una pausa di riflessione. Qui la sfida è tra conservazione e cambiamento. Noi stiamo sempre dalla stessa parte”: è con questo tono di sfida, rivolto ai “professoroni” costituzionalisti rei di aver firmato un appello contro la “svolta autoritaria”, al presidente del Senato Grasso che si è permesso di mettere in dubbio che abbia i “numeri” in parlamento, alla minoranza del PD e a tutti coloro che storcono il naso e accusano mal di pancia per i suoi metodi autoritari e sbrigativi, che Matteo Renzi ha riconfermato l'intangibilità della sua “riforma” che abolisce il Senato, alla vigilia del Consiglio dei ministri del 31 marzo che l'ha varata.
Una “riforma” golpista e piduista che il Berlusconi democristiano ha presentato in pompa magna con una conferenza stampa, affiancato dalla ministra delle Riforme Boschi e dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio Delrio che l'hanno redatta, sulla base dell'accordo del Nazareno col delinquente di Arcore e con la speciale benedizione del rinnegato Napolitano, tenuto costantemente informato sui suoi “progressi” e intervenuto nella fase finale, anche per bacchettare l'intervento di Grasso, con una nota del Quirinale per ricordare che egli è personalmente e “da lungo tempo favorevole al superamento del bicameralismo paritario”.
“Chi frena è un 'benaltrista', ovvero uno che si distingue per non cambiare niente. Un conservatore che si frappone all'onda della novità e del cambiamento”, ha detto il “rottamatore” parlando come sempre non ai giornalisti ma direttamente “ai cittadini”, con la sapiente demagogia che ha imparato a menadito dal suo maestro Berlusconi, e che consiste nel fingere di stare dalla parte del “popolo” per aizzarlo contro la “casta dei politici conservatori” e i “professoroni” alla Zagrebelsky e Rodotà che si oppongono al “cambiamento” per mantenere i loro privilegi. “I nomi e i cognomi di chi vuole affossare il cambiamento li dirò alla fine della votazione, ma saranno minoranza al Senato e nel Paese”, ha aggiunto infatti col solito tono tra il minaccioso e lo strafottente.
Il disegno di legge di revisione costituzionale presentato dal governo, contenente anche la soppressione del Cnel e la revisione del Titolo V della Costituzione (che cancella definitivamente anche le Province già abolite di fatto) è un golpe piduista che taglia drasticamente la democrazia e l'elettoralismo borghesi, perché cancella il “bicameralismo paritario” che permetteva un reciproco controllo legislativo tra le due Camere. E ciò viene realizzato attraverso l'abolizione di fatto del Senato, dimezzandone i componenti, abolendone l'eleggibilità e il potere di controllo sull'esecutivo, e riducendone drasticamente il potere legislativo. Mentre viceversa conferisce poteri straordinari al governo che, sommati con gli effetti della legge elettorale Italicum, porteranno all'instaurazione di fatto di un regime di premierato molto simile a quello di mussoliniana memoria.
Due “riforme” su cui Renzi ha giurato di essere “un rullo compressore”, costringendo il parlamento ad approvarle a passo dell'oca entro le elezioni europee del 25 maggio (in via definitiva l'Italicum e almeno in prima lettura l'abolizione del Senato), per scippare a Grillo l'arma propagandistica della riduzione dei “costi della politica”. Che secondo lui verrebbero abbattuti di un miliardo tra abolizione delle Province e dei senatori, anche se molti parlano invece solo di poche centinaia di milioni al massimo.
Senato svuotato e più potere al premier
In sostanza con questa controriforma costituzionale la prima camera elettiva della Repubblica viene ridotta ad un “Senato delle autonomie”, ossia ad un “organo rappresentativo delle istituzioni territoriali”, con un numero di componenti ridotto dagli attuali 315 a 148, non più eletti a suffragio universale ma nominati tra tutti i governatori delle Regioni e i sindaci dei comuni capoluogo, più due consiglieri regionali e due sindaci per ciascuna regione, per un totale di 127 membri, mentre altri 21 saranno nominati dal capo dello Stato, tutti senza percepire compenso.
Il nuovo Senato avrà come funzione principale quella di “raccordo” con le autonomie territoriali, mentre a livello nazionale, a parte le leggi di revisione costituzionale, l'elezione del capo dello Stato, l'elezione dei membri del Csm e della Corte costituzionale, non potrà né dare la fiducia al governo, prerogativa che resta solo alla Camera, né potrà concorrere come adesso in maniera paritaria alla formazione delle leggi, che spettano anch'esse solo alla Camera dei deputati. Il Senato avrà solo poteri limitati di “proporre modifiche” alle leggi approvate da quest'ultima. Solo per alcune di esse riguardanti un certo numero di materie specifiche di interesse generale (come leggi elettorali e ordinamenti nazionali e locali, Roma Capitale, governo del territorio, protezione civile, normative comunitari e accordi internazionali ecc.), le modifiche suggerite dal Senato possono essere respinte dalla Camera solo a maggioranza assoluta, mentre solo le leggi riguardanti materie di bilancio il Senato potrà riesaminarle anche senza doverle richiamare espressamente dalla Camera.
Nella “riforma” è stato inserita anche la corsia preferenziale alla Camera per i provvedimenti del governo, che può chiederne l'iscrizione con priorità all'ordine del giorno e l'approvazione entro 60 giorni dalla richiesta, o anche meno in certi casi, decorso il quale termine il provvedimento è posto in votazione così com'è col meccanismo della “tagliola” parlamentare, vale a dire articolo per articolo e senza accettare emendamenti né rinvii. E anche i termini a disposizione del Senato per riesaminalo sono dimezzati.
E' questa una misura tipica del premierato, sempre fortemente sostenuta da Berlusconi e reclamata anche adesso dal neoduce, insieme al potere del premier di revocare i ministri: due misure di stampo piduista che Renzi ha fatto subito sue, rimandando solo la seconda a tempi più propizi per non destare troppo l'allarme democratico già arrivato ai livelli di guardia. Grazie a questa misura e al meccanismo perverso dell'Italicum “fascistissimum” peggiore del porcellum e della stessa legge Acerbo di mussoliniana memoria, infatti, un singolo partito (cioè di fatto il suo leader) che controlli anche solo il 20% dell'elettorato può arrivare, grazie alle coalizioni già al primo turno e alle soglie di sbarramento del 4,5% per i partiti satelliti, a controllare il 55% dei seggi, cioè la maggioranza assoluta della Camera, avendo perciò la fiducia assicurata per il suo governo e la via libera ai suoi provvedimenti per tutta la legislatura. Che cos'è questo se non un regime di premierato travestito da regime parlamentare?
L'opportunismo della minoranza PD
Glielo ha detto in faccia perfino qualcuno del suo stesso partito nell'ultima Direzione del PD del 26 marzo, come Walter Tocci: “E' ancora possibile discutere – ha detto l'esponente della minoranza interna rivolto a Renzi, Boschi e Delrio – oppure avete già deciso tutto? Guardate che l'Italicum consente a una minoranza sostenuta dal 20% degli elettori di arrivare al governo, con deputati non scelti dagli elettori e un premier che potrebbe ottenere il consenso dei nuovi senatori, non eletti dal popolo, semplicemente concedendo qualcosa agli interessi locali. Si andrebbe a un presidenzialismo selvaggio, ve ne rendete conto?”.
Anche se poi, però, la Direzione ha finito per approvare la controriforma presidenzialista denunciata da Tocci pressoché all'unanimità, e tutto quello che la minoranza del PD è stata finora capace di esprimere è un documento di critiche firmato da 25 senatori e una proposta “alternativa” di abolizione del bicameralismo firmata da un'altra ventina di deputati capeggiati dal dalemiano Vannino Chiti, entrambi i gruppi badando bene a sottolineare che si tratta solo di “contributi alla discussione” e non di iniziative di rottura. E del resto Renzi ha assicurato a Napolitano che da quella parte non teme sorprese e che alla fine il suo partito finirà come sempre per allinearsi in massa e docilmente al suo leader.
Lo preoccupa di più la tenuta del patto con Forza Italia, data in forte calo nei sondaggi ed entrata in fibrillazione man mano che si avvicina la data del 10 aprile in cui i giudici dovranno decidere se assegnare Berlusconi ai servizi sociali oppure ai domiciliari, che lo taglierebbero fuori dalla campagna elettorale. Alcuni gerarchi del neoduce, capeggiati dai capigruppo parlamentari Brunetta e Romani, scalpitano perché secondo loro Renzi non starebbe rispettando i patti, col posticipo dell'approvazione dell'Italicum all'abolizione del Senato e con i senatori non eletti ma nominati tra i presidenti di Regione e i sindaci, dove il PD è in netta maggioranza. Essi premono sul neoduce affinché si sciolga dall'”abbraccio mortale” di Renzi e faccia saltare il tavolo delle “riforme”, come già fece con la Bicamerale di D'Alema, se Renzi e Napolitano non gli garantiranno la piena “agibilità politica”.
Il patto banditesco col neoduce “tiene”
É per questo che appena presentata la “riforma” è cominciato subito un frenetico balletto di incontri per verificare la tenuta del patto banditesco tra Arcore e Palazzo Chigi. Prima Napolitano ha ricevuto il delinquente n. 1 al Quirinale, a caccia di un salvacondotto politico o almeno un suo “intervento di indirizzo” sui giudici di sorveglianza per indurli a concedergli i servizi sociali. Poi Renzi e la Boschi hanno incontrato Verdini e Gianni Letta a Palazzo Chigi, dopodiché, rassicurato dai due fiduciari del neoduce, Renzi è andato da Napolitano a riferirgli che il patto del Nazareno tiene ancora, nonostante che i “falchi” di Forza Italia continuino a lanciare ultimatum e che lo stesso neoduce sia tentato di ascoltarli.
Ma Renzi procede spedito senza curarsi di chi gli lancia ultimatum, tant'è vero che a quello di Brunetta, che vuole l'Italicum approvato entro Pasqua, ha fatto rispondere dalla Boschi che il governo è pronto ad approvare le “riforme” anche da solo. Tutt'al più potrebbe accogliere le pressanti richieste del neoduce a un altro loro vertice sulle “riforme”, per aiutarlo a “dare un segnale” ai giudici. Ma in realtà Renzi è ragionevolmente sicuro che Berlusconi non farà saltare il banco, sia perché non gli conviene in quanto la partita delle “riforme”, tenendolo ancora in gioco e dandogli lustro di “statista”, è l'unico deterrente che gli rimane per cercare di tenere a bada la magistratura; sia perché se anche lo facesse e si andasse alle elezioni anticipate, accadrebbe in un momento di estrema debolezza di Forza Italia, mentre Renzi ha il vento in poppa e magari potrebbe anche far votare un Italicum modificato per essere a lui più favorevole. E per di più il partito del neoduce si accollerebbe anche la responsabilità di aver impedito il processo “riformatore”. Comunque Berlusconi gli ha assicurato che rispetterà il patto, anche se vorrebbe discutere con lui l'articolazione del nuovo Senato.
Napolitano ha controfirmato subito il ddl precisando: “Non ho cambiato nulla”. Ti pareva!
9 aprile 2014