Delegazione di tessili in visita in Italia partecipano ad assemblee in Veneto
Le operaie di Dacca rivendicano i risarcimenti da Benetton
Furono 1.138 le vittime della più grave strage del tessile
Inadempienti le multinazionali italiane
È giunta in visita in Italia - nell’ambito della campagna internazionale denominata Clean Clothes, ovvero Abiti Puliti - una delegazione di operaie tessili, guidate dalla combattiva sindacalista Shila Begum, sopravvissute al crollo dell’edificio Rana Plaza di Dacca, in Bangladesh, che ospitava 5 fabbriche tessili e che il 24 aprile 2013 ha provocato la morte di 1.138 lavoratori e il ferimento di altri duemila, quasi tutte donne. Anche Il Bolscevico
(numeri 18 e 21 del 2013) si occupò di questa tragedia provocata dal capitalismo in due articoli.
L’edificio di otto piani, appesantito dagli impianti industriali delle fabbriche che lavoravano per numerose multinazionali europee e americane, era già stato dichiarato inadatto a ospitare le industrie da locali ispettori del lavoro, ma nonostante tutto, complici i silenzi delle autorità locali ed il profitto ricercato avidamente dalle multinazionali, le lavorazioni sono andate avanti fino alla tragedia che ha stroncato la vita a tante lavoratrici, una delegazione sindacale delle quali è venuta in Italia a protestare.
Infatti, oltre ad altre ventiquattro multinazionali soprattutto americane, inglesi, francesi e tedesche, anche le ditte italiane Benetton di Treviso, Manifattura Corona di Padova e Yes Zee di Bergamo si servivano di imprenditori locali titolari dei laboratori del Rana Plaza, soprattutto la prima delle tre è di gran lunga la maggiore per la quantità di merce commissionata. Scopo del viaggio della delegazione operaia è quello di raccogliere fondi da destinare al risarcimento dei danni sia per le famiglie delle operaie cadute sia per quelle sopravvissute, molti delle quali nella tragedia del crollo hanno riportato gravi ferite e sono rimaste invalide.
Non mendicano le lavoratrici, bensì chiedono di essere risarcite direttamente dalle multinazionali committenti che, con la complicità di imprenditori locali senza scrupoli, di autorità corrotte e di legislazioni che non prevedono alcuna tutela per gli operai, realizzano profitti stratosferici facendo rientrare in Italia prodotti di abbigliamento quasi totalmente confezionati nei Paesi poveri e realizzando nel nostro Paese solo l’ultimissima fase della lavorazione, consentendo così al prodotto finito di fregiarsi del marchio “made in Italy” come se fosse interamente realizzato in Italia, con un prezzo ovviamente adeguato al marchio.
Tra queste multinazionali ci sono anche le tre italiane, soprattutto Benetton, le quali però finora si sono - come la maggioranza delle multinazionali di altri Paesi - totalmente lavate le mani per ciò che riguarda i risarcimenti, limitandosi a firmare un accordo che prevede controlli rigorosi nelle fabbriche del Bangladesh.
Gli organizzatori della campagna Clean Clothes calcolano in 40 milioni di dollari l’importo necessario a risarcire sia le famiglie delle vittime sia quelle dei feriti, e finora solo 9 delle 27 multinazionali hanno parzialmente risarcito. La Benetton dovrebbe dare circa 5 milioni di dollari, ed è stata invitata a prendere una chiara posizione a tal proposito il 3 aprile a Treviso - città sede della Benetton - presso la Casa dei Beni Comuni dove la delegazione operaia ha tenuto una manifestazione.
Molto vaghe e generiche sono state le promesse del gruppo Benetton che, lungi dall’impegnarsi a pagare la cifra richiesta o qualsiasi altra cifra di denaro, si è limitata in un comunicato stampa ad assumere l’impegno “per il sostegno alle vittime e alle loro famiglie sul programma messo a punto con BRAC, una delle più importanti Ong del mondo, destinando risorse perché coloro i quali avevano tragicamente perso braccia, gambe e mani potessero essere curati e tornare, se possibile, a una vita normale”: insomma, per Benetton è solo una questione di volontaria beneficenza, come se questa azienda non fosse direttamente responsabile di questa e di tante altre tragedie che accadono nei Paesi poveri a causa della divisione del lavoro e della concorrenza spietata che costringe centinaia di milioni di operai a lavorare in condizioni disumane. Del resto tutto questo fa parte integrante della legge della ricerca del profitto capitalistico che nei confronti degli operai secondo le parole di Federico Engels “non s’arresta fino a che rimane un muscolo, un nervo, una goccia di sangue da sfruttare”
(F. Engels, “La posizione della classe operaia”)
9 aprile 2014