Accusati di omicidio preterintenzionale, arresto illegale e altri reati
Saranno processati 8 poliziotti e carabinieri che pestarono in caserma Uva
Finalmente dopo sei anni i responsabili saranno chiamati a rispondere
“Questa non è giustizia: ai giudici interessa solo il caso Ruby”. Con questa dichiarazione, rilanciata sul sito web dedicato al fratello assassinato, Lucia Uva ha contestato l’incredibile quanto vergognoso comportamento della giustizia borghese del regime neofascista e delle sue omissioni, depistaggi e falsità sull’agghiacciante caso di Giuseppe Uva. Si tratta della nota vicenda che coinvolse il 43enne di Varese che, nella notte tra il 14 e il 15 giugno 2008, venne fermato da una gazzella dei carabinieri assieme all’amico Alberto Biggiogero che, secondo il racconto che fornirà agli inquirenti, assistette a questa scena: “Giuseppe venne scaraventato per terra e poi, in un secondo tempo, dentro l’auto e preso a pugni; io fui scaraventato dentro una volante della Polizia, siamo stati portati nella caserma di Via Saffi a Varese (…) un carabiniere in particolar modo lo massacrò di botte in caserma insieme ai suoi colleghi che mi dicevano: “dopo arriva anche il tuo turno”. Al che, quando finalmente mi trovai da solo, chiamai il 118 implorandolo di venire in soccorso, perché un mio amico veniva massacrato, mi dissero che in caserma non potevano intervenire, arrivò un soggetto con dei tratti asiatici, sembrava quasi cinese, con una borsa forse da medico e da lì il mio amico Beppe smise di gridare: questo mi fece sentire veramente sollevato come non mai, perché pensai: hanno smesso di pestarlo”. E invece in quei momenti si stava consumando l’inizio della fine di Giuseppe. Infatti, i carabinieri “rassicurano” i medici affermando che Uva e Biggiogero stavano in stato di fermo perché ubriachi. Ma alle 5 del mattino da via Saffi partì la richiesta di un trattamento sanitario obbligatorio per Uva, che, trasportato al pronto soccorso, venne poi trasferito al reparto psichiatrico dell'ospedale di Circolo, mentre il suo amico veniva rilasciato dai carabinieri operanti. Sono le 8.30. Poco dopo due medici - gli unici indagati, fino a qualche mese fa, dell'intera storia – somministrarono a Giuseppe sedativi e psicofarmaci che ne provocarono il decesso, perché sarebbero stati incompatibili con l'alcol bevuto durante la notte.
Subito vi furono fortissimi dubbi sulla sorte di Giuseppe Uva tanto che la sorella Lucia denuncia traumi, lesioni ed ecchimosi presenti sul corpo del fratello: “Su tutto il fianco era blu, quei segni erano lividi. Poi vedo il pannolone. E mi chiedo: perché aveva il pannolone? (…) i pantaloni erano pieni di sangue sul cavallo. Gli slip non c’erano. Gli ho tolto il pannolone e ho visto il sangue. Gli sposto il pene e vedo che aveva tutti i testicoli viola e una striscia di sangue che gli usciva dall’ano. Da quel momento - aggiunge Lucia - ho giurato che avrei fatto tutto il possibile per arrivare alla verità sulla sua morte, un simile scempio non può restare impunito”.
Nel settembre del 2009 nel fascicolo aperto dal pubblico ministero Agostino Abate ci sono solo i medici e nessun riferimento ai carabinieri protagonisti del fermo di quella sera del giugno del 2008. Un atteggiamento, quello del magistrato inquirente che non convince fin dal primo momento, atteso il clima di aperto dissidio con le parti civili, i loro avvocati e i periti nominati dal tribunale. Questo incredibile ostracismo porta ad un vero e proprio insabbiamento delle indagini; questo atteggiamento si ferma quando esplodono le polemiche, alimentate dalla famiglia Uva e, in particolare, dalle sorelle Lucia e Carmela che criticano aspramente la condotta del pm Abate chiedendo che gli venga tolta l’inchiesta per provvedere ad nuova assegnazione ad un altro magistrato.
Le rimostranze della famiglia trovano accoglimento, dopo ben sei anni dal delitto, presso il giudice per le indagini preliminari di Varese, Giuseppe Battarino, che respinge l’opinabile richiesta di archiviazione presentata dai pm Agostino Abate e Sara Arduini, decidendo di accogliere l'istanza della famiglia di richiesta di nuove indagini, soprattutto sui fatti accaduti in caserma, e un nuovo processo. Il gip ha, inoltre, stabilito l'imputazione coatta di tutti gli imputati per omicidio preterintenzionale (più altri reati minori), che rischiano pene fino ai 18 anni di carcere. Già il tribunale monocratico di Varese assolvendo il medico del pronto soccorso, Carlo Fraticelli, indagato per omicidio colposo, aveva demolito l'impianto accusatorio della Procura, chiedendo che si cercasse la verità non sul comportamento dei medici del pronto soccorso, ma nelle tre ore precedenti trascorse dalla vittima nella caserma dei carabinieri. Una pista mai battuta dal pm Abate, che non ha sentito l'unico testimone portato in caserma insieme con Uva, Alberto Biggiogero, l'amico di Giuseppe Uva.
Biggiogero è stato interrogato solo poche settimane fa da Abate, a cinque anni dalla tragedia, lo scorso 26 novembre 2013, e solo dopo che il ministero della Giustizia aveva presentato richiesta di azione disciplinare. Poi anche la Procura generale della Cassazione aveva stigmatizzato il comportamento del pm Abate, che aveva chiesto l'archiviazione degli otto fra agenti di polizia e carabinieri indagati per lesioni personali, iscritti in un nuovo fascicolo. Nella sentenza con cui aveva assolto il medico, il tribunale di Varese in composizione monocratica aveva chiesto di indagare sulla caserma “perché tuttora sconosciuti rimangono gli accadimenti all'interno della stazione dei carabinieri” e ignoti sono “i fatti nella stazione dei carabinieri al cui esito Uva, che mai aveva avuto problemi psichiatrici, verrà ritenuto necessitare di un trattamento sanitario obbligatorio”.
E mentre è partita una provocatoria campagna di “raccolta fondi” a favore dei poliziotti coinvolti promossa dal sindacato fascista Cosip, per sostenere i colleghi nelle spese processuali e fare fronte “al tornado mediatico che ha condizionato la vicenda” (sic!), ben otto tra poliziotti e carabinieri che hanno contributo al depistaggio, all’insabbiamento e, soprattutto, al pestaggio di Giuseppe Uva dovranno rispondere alla sbarra dopo sei anni dei reati loro ascritti, tra cui quello grave di omicidio preterintenzionale.
Noi marxisti-leninisti chiediamo la verità sulla morte di Uva. La magistratura deve fare piena luce su quanto successe quella notte senza guardare in faccia a nessuno e senza assoluzioni "precostituite" dei soggetti coinvolti. L'immunità a priori di poliziotti e carabinieri non può e non deve avere alcun valore nel quadro di un'inchiesta rigorosa che accerti fino in fondo eventuali responsabilità dirette o indirette nella morte di Giuseppe.
16 aprile 2014