Via libera da parte del Senato nero con il voto di fiducia di stampo mussoliniano e piduista imposto dal governo Renzi
Il precariato è legge dello Stato borghese di Napolitano e Renzi
I padroni non hanno l'obbligo di assumere se sforano il 20% di contratti a termine
Completato il ciclo iniziato da Prodi con il “Pacchetto Treu”
Il 7 maggio il Senato ha approvato con il voto di fiducia il decreto Poletti che liberalizza i contratti a termine e l'apprendistato. Decreto che proveniva dalla Camera, dove era stato approvato il 24 aprile in prima lettura, anche lì col voto di fiducia, e dove è tornato per la definitiva conversione in legge, che si prevede scontata e ancora col voto di fiducia, in quanto altrimenti scadrebbe il 19 maggio. Perciò si può dire che con un atto di tipo sostanzialmente mussoliniano, imposto con ben tre voti di fiducia dal governo e avallato servilmente da un parlamento nero zeppo di nominati, da oggi il precariato è legge dello Stato borghese di Napolitano e Renzi, uno Stato cioè in cui il precariato è ufficialmente la forma di lavoro “normale”, e non una “eccezione” come veniva ipocritamente definito finora.
Questa infame legge iperliberista, che porta il nome dell'ex dirigente PCI ed ex presidente delle Coop Giuliano Poletti, rappresenta infatti il completamento di una lunga fase di destrutturazione del “mercato del lavoro” iniziata nel 1997 dall'allora governo di “centro-sinistra” Prodi con il “pacchetto Treu” (approvato anche col voto del PRC trotzkista), che introdusse le prime forme legalizzate di precariato. Una politica insidiosamente antioperaia e di destra, mascherata dietro il pretesto di favorire l'occupazione giovanile, che aprì una breccia che fu allargata a dismisura e non a caso dal 2° governo neofascista di Berlusconi, con la legge Biagi del 2003 che fece letteralmente dilagare il precariato e proliferare le forme di lavoro atipiche. Creando con ciò una enorme piaga sociale che la “riforma” Fornero del governo Monti non farà poi che confermare, mettendo solo qualche paletto ipocrita per imbellettarla, come appunto il limite di un anno per i contratti a termine senza causale, l'intervallo di 10 giorni tra un rinnovo e l'altro “per scoraggiare gli abusi”, la stabilizzazione del 30% degli apprendisti al termine della formazione prima di assumerne altri; paletti che ora vengono abbattuti del tutto o quasi da questa legge che liberalizza ufficialmente e pressoché integralmente il lavoro a tempo determinato e l'apprendistato.
E' significativo – e ciò deve far riflettere seriamente i lavoratori e gli elettori di sinistra – che ad iniziare e completare questo ciclo infame che ha demolito decenni di diritti e di conquiste sindacali costati tante lotte e sacrifici, siano stati due ministri del Lavoro della “sinistra” borghese, il socialista cattolico Treu e il revisionista rinnegato Poletti, e sotto l'egida di governi a maggioranza PDS allora e PD oggi, ma entrambi guidati da due democristiani doc come il privatizzatore liberista Prodi e il Berlusconi democristiano Renzi. E sempre con la scusa ipocrita di superare le “rigidità” del mercato del lavoro e far trovare più facilmente lavoro ai giovani, quando invece la disoccupazione, specie giovanile, è sempre aumentata nonostante e insieme al dilagare del precariato. Ancora una volta la pratica conferma che una politica di destra si impone più facilmente se al governo siede la “sinistra” borghese.
Contratti a termine “acausali” legalizzati
Questa legge regala ai padroni la possibilità di assumere a tempo determinato dei lavoratori per un periodo di ben 36 mesi senza dover specificare le cause tecniche, produttive, organizzative o sostitutive che lo rendono necessario. Fino a ieri ciò era possibile solo per 12 mesi e solo per il primo contratto. In questo modo, secondo il giuslavorista liberista, ex PD e oggi senatore montiano, Pietro Ichino, il contratto a termine non è più considerato dal nostro ordinamento come “socialmente pericoloso”, e questo la dice lunga sui reali obiettivi del “Jobs Act” renziano, al di là della retorica di dare “speranza” e “futuro” ai giovani.
Come se non bastasse, in questo arco di tre anni, il “datore di lavoro” può prorogare a suo piacimento fino a 5 volte il termine del contratto, senza più alcun intervallo tra l'uno e l'altro, e tutto ciò indipendentemente dal numero dei rinnovi contrattuali. Il che vuol dire che se supera le 5 proroghe egli può sempre licenziare quel lavoratore e assumerne uno nuovo con un altro contratto a tempo dotato di altre 5 proroghe, e così via. Con questo meccanismo gli si permette in pratica di impiegare liberamente mano d'opera a tempo non solo per lavori straordinari o stagionali, ma per tutti i lavori, anche ordinari e continuativi, quando e come gli possa far comodo.
É vero che c'è un tetto legale di utilizzo dei contratti a tempo del 20% (che non vale comunque per gli enti di ricerca pubblici e privati, che potranno ricorrere ad un numero infinito di precari), ma il suo superamento non comporta alcun obbligo di trasformazione a tempo indeterminato dei contratti eccedenti, bensì solo il pagamento di una sanzione pecuniaria del 20% della retribuzione complessiva del lavoratore per la prima volta, e del 50% per le volte successive, da destinare al Fondo sociale per l'occupazione e la formazione. É evidente che si tratta di un meccanismo studiato apposta per tenere i lavoratori sempre sotto ricatto e senza alcun serio deterrente per i padroni, che al massimo rischiano di pagare una multa. Un meccanismo che il giuslavorista Piergiovanni Alleva ha definito uno “sconcio etico e incostituzionale”, fatto in spregio agli articoli 2 e 4 della Costituzione e in violazione della stessa normativa europea sui contratti a termine.
La stessa logica apertamente filopadronale domina anche la parte della legge che riguarda l'apprendistato, dove inizialmente erano state cancellate addirittura le quote previste dalla legge Fornero di assunzioni obbligatorie degli apprendisti prima di poterne assumere degli altri (30% fino a luglio 2015 e poi 50%). Alla Camera le quote erano state reintrodotte, ma solo nella misura del 20%, e solo per le aziende oltre 30 dipendenti. Al Senato questa parte è stata poi ulteriormente peggiorata aumentando il numero di dipendenti a 50.
Inoltre la retribuzione per l'apprendistato di 1° livello potrà essere inferiore del 35% del livello contrattuale di inquadramento, e quanto all'offerta formativa pubblica, che finora le aziende erano obbligate a garantire in integrazione alle ore di formazione interna, d'ora in poi potrà essere svolta, secondo gli standard fissati dalle Regioni, “in via sussidiaria, anche dalle imprese e dalle loro associazioni”, il che darà sicuramente modo alle aziende di aggirare l'obbligo rendendolo un puro atto formale.
Soddisfatta anche la “sinistra” del PD
Nel passaggio in commissione Lavoro e alla Camera il testo uscito due mesi fa dal Consiglio dei ministri aveva subito alcune modifiche di facciata che lo avevano ritoccato qua e là senza mutare di una virgola il suo odioso impianto iperliberista, ma sufficienti tuttavia ad accontentare la “sinistra” del PD e permetterle di sbandierarle come una sua grande “vittoria”, per poi disinteressarsi soddisfatta della faccenda. Come da copione a questo punto il gioco delle parti è passato in mano alla destra, con il NCD e Forza Italia che in maniera sincronizzata parlavano di “stravolgimento” del testo originario e della necessità di ricorreggerlo al Senato, e col neoduce Berlusconi che per drammatizzare la scena accusava il “Jobs Act” di Renzi e di Poletti di essere diventato nientemeno che un “Cgil-Act”.
Seguiva scontata trattativa interna alla maggioranza, affidata guarda caso all'ex ministro del Lavoro berlusconiano, Maurizio Sacconi (NCD), e al relatore del provvedimento, Pietro Ichino (come aver messo cioè la volpe e la faina a guardia del pollaio), e alla fine il testo che approdava al Senato per essere imposto con la fiducia era accompagnato da otto emendamenti in forza dei quali anche quelle poche e marginali modifiche che erano uscite dalla Camera, o venivano cancellate con un tratto di penna, o venivano riformulate in modo da poter essere facilmente aggirate per riavvicinarsi al testo originale del decreto.
Tra le prime, per esempio, la trasformazione del rapporto a tempo determinato in indeterminato nel caso di sforamento del tetto del 20% di contratti precari, abolita senza troppi complimenti e sostituita con la semplice sanzione pecuniaria. Tra le seconde l'esclusione dal tetto del 20% dei contratti a tempo per i ricercatori, l'innalzamento da 30 a 50 dei dipendenti per obbligare le aziende ad assumere gli apprendisti in caso di superamento del tetto, e così via. In pratica dei tanto vantati “miglioramenti” sbandierati dalla “sinistra” PD è rimasta intatta solo la riduzione da 8 a 5 delle proroghe possibili di un contratto a tempo nell'arco di tre anni, che come abbiamo detto è assolutamente irrilevante data la mancanza di un limite alla stipula di nuovi contratti.
Eppure stavolta neanche la riformista di destra Camusso ha potuto evitare di denunciare il provvedimento, talmente sfacciato e devastante è il suo impianto liberista, antisindacale e anticostituzionale: “Così si toglie l'unico argomento e si passa alle sanzioni pecuniarie. Che è un modo per dire che non c'è più un vincolo e un'idea di limitazione e che ci sarà un uso illimitato, e anche illegittimo, di forme di lavoro a termine”, ha detto la segretaria della Cgil appena appreso della trasformazione in multa della punizione per chi abusa dei contratti a termine. Perfino il crumiro Bonanni ha dovuto ammettere che “le modifiche introdotte nei contratti a termine sono più a favore delle aziende che dei lavoratori.
L'insofferenza antisindacale di Renzi
Ma allora perché, al di là di queste mezze denunce, i vertici sindacali non hanno mosso un dito per fermare l'infame legge, e perché non chiamano i lavoratori allo sciopero generale per affossarla? E si badi bene che con questa legge non è in gioco soltanto la liberalizzazione e legalizzazione del precariato, ma l'avvenire e il ruolo stessi del sindacato in questa società capitalista. Renzi non fa certo mistero di puntare con leggi come questa a ridimensionarlo, togliergli ogni potere contrattuale e infine assoggettarlo al governo e al padronato, in perfetta sintonia con la dottrina neocorporativa di stampo mussoliniano del suo amico e ammiratore Marchionne.
“I sindacati devono capire che la musica è cambiata. Noi stiamo cercando di cambiare l'Italia, se vogliono dare una mano lo facciano, ma non stiamo ad aspettarli. Perché non possono pensare di decidere o bloccare tutto”, li ha minacciati dagli schermi del Tg5 berlusconiano il premier, che a rincarare la dose ha pure rifiutato l'invito della Camusso a intervenire al Congresso Cgil di Rimini (quando invece, solo qualche settimana prima, aveva parlato ad una platea di imprenditori entusiasti al Salone del mobile di Milano). E li minaccia pure di tagliare i permessi sindacali nel pubblico impiego e di pubblicare online i loro bilanci, aizzandogli contro i giusti sentimenti “anticasta” diffusi nel Paese.
É a ben vedere lo stesso identico atteggiamento di insofferenza antisindacale, del “me ne frego della piazza”, che avevano il Craxi dell'abolizione della scala mobile e il Berlusconi del braccio di ferro del 2003 sull'art. 18, che proviene a sua volta direttamente dal programma della P2. Lo riconosce anche l'ex ministro socialista Rino Formica, in un'intervista a Il Fatto Quotidiano,
in cui denunciando l'attuale “snervamento della democrazia politica e sociale organizzata arrivata al punto finale con Renzi”, osserva che “i programmi di Gelli e Renzi sono uguali e oggi non c'è alcuna forza maggioritaria, compresa quella di Grillo, che si pone il problema della democrazia organizzata”.
Occorre perciò chiedere che le direzioni sindacali, o quantomeno quella della Cgil, indìcano al più presto uno sciopero generale nazionale di 8 ore con manifestazione a Roma contro il governo Renzi e la sua politica antioperaia e antisindacale, e promuovano una lotta ad oltranza per affossare questa infame legge che estende e legalizza il già abnorme e insopportabile precariato. Ma solo come primo passo di una lotta senza quartiere, come indicato nel Documento dell'Ufficio politico del PMLI sul precariato, per l'abolizione di tutte le forme di lavoro precario e per un lavoro stabile, a salario intero, a tempo pieno e sindacalmente tutelato per tutti, compresi le ragazze e i ragazzi al termine degli studi.
14 maggio 2014