Il processo è da rifare
La Cassazione: “furono ignorate le prove contro i neofascisti per la strage di Brescia”
Il processo di appello per la strage di Brescia è da rifare perché la scandalosa sentenza del 14 aprile 2012 che ha assolto tutti gli imputati e condannato i familiari delle vittime a pagare le spese processuali era viziata da un “ipergarantismo distorsivo” che ha portato la Corte di Assise di appello a delle assoluzioni “ingiustificabili e superficiali”.
Lo ha stabilito la Corte di Cassazione nelle motivazioni della sentenza depositate il 15 aprile scorso in cui spiega la decisione di accogliere parzialmente il ricorso della Procura generale di Brescia e delle parti civili contro la sentenza di appello, decisione che la suprema corte aveva preso lo scorso 21 febbraio con la sentenza n. 16397 che annullava le assoluzioni dei neofascisti Carlo Maria Maggi e Maurizio Tramonte, annullando anche il pagamento delle spese processuali a carico delle parti civili. Confermate invece le assoluzioni per insufficienza di prove dell'ex comandante dei carabinieri, ex membro del Sismi e accusato dei primi depistaggi, Francesco Delfino, e di Delfo Zorzi, membro di Ordine nuovo e accusato di essere l'esecutore materiale della strage, che oggi vive da ex latitante in Giappone e fa l'imprenditore sotto il nome di Hagen Hoi.
Dopo quarant'anni dalla strage di Piazza della Loggia del 28 maggio 1974, quando durante una manifestazione sindacale antifascista una bomba nascosta in un cestino dei rifiuti esplose provocando 8 morti e 103 feriti, anni che hanno visto ben tre lunghi processi caratterizzati da una serie infinita di depistaggi, omissioni e manipolazioni e conclusi invariabilmente con assoluzioni di tutti i neofascisti imputati, resta dunque ancora un ultimo tenue filo per portare all'accertamento della verità giudiziaria e alla punizione di almeno alcuni dei responsabili di quell'efferato crimine fascista coperto dagli apparati dello Stato.
40 anni di processi finiti nel nulla
Il primo filone d'indagine (prima e seconda istruttoria) inizia nel 1974 e si conclude con la sentenza di Cassazione del settembre 1987; quasi subito le indagini vengono depistate su un gruppo di piccoli delinquenti e giovani estremisti di destra della Brescia-bene. Figura chiave del processo è Ermanno Buzzi, noto neofascista che traffica in opere d'arte nonché assiduo frequentatore dei covi di estrema destra. Condannato in primo grado, alla vigilia del processo d'Appello (aprile 1981) Buzzi fu trasferito nel carcere speciale di Novara, dove fu subito strangolato dai terroristi neri Mario Tuti e Pierluigi Concutelli per impedirgli di fare possibili rivelazioni.
Il secondo filone d'indagine parte nel 1984, con la terza istruttoria che viene avviata sulla base delle rivelazioni fatte in carcere da alcuni ex camerati "pentiti" fra cui Angelo Izzo. Gli imputati per strage (tutti assolti nell'89) sono Alessandro Stepanoff, Sergio Latini e Cesare Ferri: estremista di destra, quest'ultimo, collegato al gruppo ordinovista milanese de "La Fenice" di Giancarlo Rognoni e alle S. A. M. (Squadre armate Mussolini) di Giancarlo Esposti. L'iter giudiziario si conclude nel 1993 con la sentenza-ordinanza della quarta istruttoria emessa dal Giudice istruttore Gianpaolo Zorzi che per la prima volta parla di un quarto livello di responsabilità, "non concentrico - scrive - ma intersecantesi con gli altri e quindi sempre presente, come un comune denominatore: quello dei sistematici, puntuali depistaggi", dal lavaggio della piazza subito dopo l'eccidio, alla misteriosa scomparsa di Ugo Bonati, figura chiave nel primo processo, all'omicidio che ha chiuso per sempre la bocca a Buzzi; depistaggi che sono arrivati persino a sabotare la rogatoria in Argentina per impedire l'interrogatorio di Guido Gianni, criminale legato all'estrema destra e latitante.
Nella quinta e ultima istruttoria le indagini ruotano intorno alla cellula mestrina dell'organizzazione eversiva neofascista Ordine Nuovo (la stessa di piazza Fontana), in collegamento al gruppo milanese de "La Fenice" di Rognoni. Il giudice Zorzi identificò nel giovane missino Maurizio Tramonte la fonte "Tritone" (che era l'informatore dietro una mole di documenti emersi dagli archivi del Sid a partire dalla fine degli anni Ottanta). Nel 1995, Tritone-Tramonte comincerà a collaborare con i ROS dei Carabinieri e le sue dichiarazioni insieme agli atti provenienti dall'istruttoria di Guido Salvini per la strage di piazza Fontana sono alla base del terzo processo conclusosi nel 2010 con l'assoluzione di tutti e cinque gli imputati, sentenza confermata poi in appello nel 2012.
Per questo terzo processo sono state centrali anche le dichiarazioni del pentito Carlo Digilio, alias "zio Otto", l'armiere di Ordine Nuovo, unico condannato nell'ultimo processo per la strage di piazza Fontana. A partire da "Tritone" e Digilio, l'imputazione per concorso in strage era stata infatti estesa anche ai vertici mestrini di Ordine Nuovo (Maggi e Zorzi), a Pino Rauti e al generale Delfino, che fu incaricato delle indagini alla base della prima istruttoria.
Oggi le motivazioni depositate dalla Cassazione rappresentano già di per sé una inequivocabile e autorevole conferma che in questi quarant'anni, da parte dello Stato, dei servizi segreti e dei settori reazionari della magistratura è stato fatto di tutto per ignorare ed inquinare le prove, nascondere o prosciogliere gli esecutori e i mandanti della strage e pilotare i processi verso il nulla di fatto e l'assoluzione di tutti gli imputati. Assoluzioni che per la Cassazione sono da ritenersi “ingiustificabili e superficiali”, perché ottenute praticando sistematicamente, come dice la relazione del giudice Paolo Demarchi Albengo, un “ipergarantismo distorsivo” a favore degli imputati, in particolare di Maggi e Tramonte, che per tale motivo tornano ad essere processati come presunti mandanti e forse anche esecutori della strage.
Una sistematica azione di depistaggio
Contrariamente alle conclusioni della sentenza di secondo grado, definite dalla Cassazione “assolutamente illogiche e apodittiche” (ossia giudicate talmente evidenti da non avere bisogno di essere dimostrate), Tramonte non sarebbe stato un esterno o un semplice informatore, bensì un “intraneo”, cioè appartenente organicamente alla destra eversiva veneta, che peraltro “non raccontava al maresciallo Felli tutto ciò che sapeva o aveva fatto”. E Maggi sarebbe a sua volta un vero “propugnatore” della linea stragista, assolto nonostante la “gravità indiziaria” delle dichiarazioni di Battiston, che unite ad altri elementi avrebbero dovuto fornire ai giudici di appello una “visione complessiva” di “straordinaria capacità dimostrativa” delle accuse.
Quanto all'ordigno della strage, la suprema corte afferma che non doveva essere ignorato che “sia stato confezionato utilizzando la gelignite di proprietà di Maggi e Digilio, conservato presso lo Scalinetto”. Un dato di fatto “importantissimo che muta notevolmente il quadro indiziario rispetto al giudizio di primo grado”, che però i giudici di appello hanno completamente ignorato, non traendo “da questa diversa ricostruzione in fatto le necessarie implicazioni sul piano probatorio”. E non si tratta di un caso fortuito, poiché la “erronea applicazione della legge processuale – si legge sempre nella relazione – è un vizio ricorrente nel processo per la strage di piazza della Loggia, se si pensa che anche nel procedimento cautelare sulla misura irrogata a Tramonte, Zorzi e Maggi la Cassazione ebbe a osservare l'esasperata opera di segmentazione del quadro complessivo”, che “rifuggiva dalle regole di coerenza e completezza”.
In altre parole la tattica dei giudici è sempre stata quella di isolare dal contesto e trattare separatamente le singole prove e responsabilità a carico degli imputati in modo da confondere il quadro generale e suffragare la tesi dell'”insufficienza di prove”: “Ogni volta che si è trovata a valutare un indizio di colpevolezza a carico degli imputati, si è soffermata sulla potenziale esistenza di diversi significati, finendo per distruggere il valore delle prove raccolte”, dice infatti la relazione a proposito dell'operato della Corte di Appello di Brescia. Ed inoltre sono state “sottovalutate le dichiarazioni del collaboratore Carlo Digilio” e “liquidata troppo frettolosamente la ritrattazione di Tramonte”.
Le motivazioni della sentenza della Cassazione sono state accolte con lacrime di commozione dai sopravvissuti e dai parenti delle vittime di piazza della Loggia, per i quali essa riaccende una sia pur debole luce di speranza che sia fatta almeno in parte giustizia: “Ritrovo il senso di una giustizia che ha dato risposta alla storia. Ritrovo qui i compagni che non ci sono più”, ha detto Manlio Milani, il presidente dell'Associazione dei familiari delle vittime, che nella strage ha perso la moglie. “Finalmente – ha aggiunto – si certifica fino in fondo che la strage è ascrivibile all'estrema destra e che ci sono stati depistaggi”.
25 giugno 2014