Bersani: “Il percorso di avvicinamento tra SEL e PD è maturo”. Delrio: “Chi vuole entrare nel PD lo faccia”
Sel si spacca sugli 80 euro. Ma la crisi del partito è più profonda
Migliore, capo dei filo PD, si dimette da capogruppo dei deputati del partito. Già due deputati di SEL sono passati al PD
I falsi comunisti di un tempo alla fine si autosmascherano
La spaccatura che covava da mesi all'interno di SEL si è materializzata il 18 giugno, dopo la votazione alla Camera sul decreto Irpef del governo su cui erano confluiti anche i voti dei deputati del partito di Vendola. La decisione di votare sì al provvedimento del governo contenente gli 80 euro di mancia elettorale ai lavoratori (ma anche la spending review
che preannuncia altri tagli alla sanità, all'assistenza sociale e ai servizi), era stata presa la sera avanti in una concitata assemblea dei deputati di SEL a Montecitorio, con una maggioranza di 17 a 15, durante la quale per spingere con più forza verso il voto a favore del governo il capogruppo e leader della corrente filo Renzi, Gennaro Migliore (che quella stessa sera si era visto a cena col vice di Renzi, Guerini), aveva messo sul piatto le sue dimissioni.
Dimissioni poi accettate da Vendola, che inutilmente si era precipitato a Montecitorio per convincere Migliore ad accettare il compromesso di un voto di astensione che avrebbe permesso di salvare capra e cavoli, dato che oltretutto alla Camera, vista la maggioranza schiacciante che ha il PD, i voti di SEL non erano determinanti per far passare il provvedimento. Ma Migliore e i suoi seguaci, ormai impazienti di salire sul carro di Renzi, dove per la gran ressa – come qualcuno ha malignamente osservato – sono rimasti “solo posti in piedi”, hanno colto l'occasione per rompere gli indugi e fare il gran salto in braccio al PD.
Insieme a Migliore hanno dato le dimissioni altri tre deputati, il vice presidente vicario Titti Di Salvo, il segretario Ileana Piazzoni, il vicepresidente del Copasir Claudio Fava, mentre nei giorni precedenti se ne erano già andati i deputati Michele Ragosta e Ferdinando Aiello. Ma altri parlamentari di SEL, di cui almeno sei alla Camera e due al Senato, hanno già annunciato di voler lasciare i rispettivi gruppi nei prossimi giorni. Le ipotesi che circolano sono che tutti loro potrebbero confluire temporaneamente in un gruppo misto insieme ai socialisti di Nencini e ai transfughi di Scelta civica, oppure andare subito a confluire nel PD di Renzi: dove il suo braccio destro Delrio ha già spalancato loro le porte.
Due fronti diversamente opportunisti
La spaccatura covava da mesi, almeno da quando per le europee nel partito era prevalsa la linea dell'adesione alla lista Tsipras, che la corrente favorevole all'alleanza col PD (del resto pienamente confermata per quanto riguarda le contemporanee amministrative) aveva mal digerito, ma comunque sopportato più o meno in silenzio fino alla data del voto. Ma immediatamente dopo, e ancor più sotto l'effetto del 40,8% (sui voti validi) di Renzi, è iniziato il rompete le righe, con la formazione di due schieramenti contrapposti (che poi tanto contrapposti non sono).
Il primo era quello filo PD di Migliore, del tesoriere Sergio Boccadutri, Ileana Piazzoni, Claudio Fava e un'altra decina di deputati che, come andava teorizzando Migliore, in nome del “terremoto che ha sconvolto la geografia politica italiana ed europea”, era favorevole ad aprire subito una trattativa col PD di Renzi per la formazione di un contenitore unico, o “soggetto unitario di sinistra”, per dare ali alla vocazione di SEL come “sinistra di governo”, valutando di volta in volta la collocazione politica e i provvedimenti da votare, partecipando al processo delle “riforme” costituzionali, entrando nel PSE di Schulz e Renzi, chiudendo con la vocazione di “sinistra minoritaria” di chi vorrebbe continuare nella strada della lista Tsipras, e così via.
Il secondo, capeggiato da Nicola Fratoianni, affiancato da Massimiliano Smeriglio, Loredana De Petris, Paolo Cento e Fabio Mussi, era ed è invece favorevole a continuare l'esperienza della lista Tsipras trasformandola in una “costituente”, per la quale spinge anche Rifondazione, per ricostruire una “sinistra unitaria” collocata all'opposizione – beninteso di tipo “responsabile” - del governo Renzi. Continuando però la collaborazione col PD nelle giunte locali e regionali e a livello europeo.
Continuando in altre parole “dall'esterno” a coprire a sinistra il PD e a fargli all'occorrenza da ruota di scorta parlamentare; mentre la destra “migliorista” proponeva di sciogliersi subito nel PD, ritenendo da una parte ormai inutile continuare a coprirlo a sinistra, avendo ora Renzi una maggioranza schiacciante, e dall'altra temendo che una “sinistra minoritaria” sarebbe cancellata dal parlamento alle prossime politiche, come già accaduto alla “sinistra arcobaleno”.
Gli inutili contorcimenti dell' “anguilla” Vendola
In mezzo a queste due posizioni diversamente opportuniste si è barcamenato incessantemente Vendola, cercando disperatamente di tenere insieme i cocci di un partito ormai in frantumi e in preda alla guerra per bande, sotto l'urto dello sfondamento elettorale del PD e il risucchio irresistibile di Renzi (“bisogna stare nel gorgo”, era infatti lo slogan di Migliore che non vedeva l'ora di farsene risucchiare). Il governatore della Puglia le ha tentate tutte per nascondere lo sporco sotto il tappeto e rimandare la resa dei conti: è arrivato perfino a “narrare” per settimane, ricorrendo a tutta la sua retorica barocca e farlocca, che lo scontro interno a SEL non era “una minaccia ma una ricchezza” (“piuttosto che reprimere ci piace discutere”, si vantava coi giornalisti), inventandosi le formule più assurde e ipocrite per tenere insieme la vocazione “di opposizione” e quella “di governo” di SEL: come la formula bizantina che “una sinistra di governo non è una sinistra nel governo”; quando poi il sì al decreto Irpef lo aveva propiziato proprio lui dicendo, davanti alla Direzione del partito del 30 maggio conclusasi con un nulla di fatto: “Noi non abbiamo detto che gli 80 euro sono una mancia per il voto di scambio. Vedremo, se è ottimo lo votiamo, se è pessimo lo bocciamo, se è possibile migliorarlo non ci tireremo indietro, come sempre”. Del resto, non c'era già stato il precedente del sì al rinvio del pareggio di bilancio al 2016, quando il 17 aprile i cinque senatori di SEL avevano contribuito con i due ex M5S a far passare per il rotto della cuffia la risoluzione del governo?
Quanto a Renzi, il narcisista trotzkista neoliberale aveva detto: “Dico al mio mondo che questo è il momento in cui bisogna sfidare in positivo Renzi”. Lui è “oggi il leader europeo più forte”, il suo rapporto con il Paese “è in pieno idillio”, ora “è nelle condizioni di battere il club dell'austerity. Bisogna incoraggiarlo”. Nella successiva Assemblea nazionale del 14 giugno, pur di evitare la spaccatura, aveva fatto un'ulteriore concessione ai filo PD liquidando la “costituente di sinistra”, rinviando tutto ad una futuribile “conferenza programmatica” in autunno, e aprendo ancor più audacemente a Renzi: “Caro Matteo, hai un ruolo e una forza che non ha eguali in Europa, usali”. E si era detto pronto anche ad entrare nel governo se il Berlusconi democristiano si liberasse “della destra impresentabile e delle politiche dell'austerity”. Salvo poi mascherare il suo sbracamento a destra con le solite metafore pseudo poetiche, come quella che SEL vuole essere “un'anguilla” per sgusciare da tutte le parti e “sfuggire alla cattura di chi vuole portarci indietro o ci vuole portare fori strada”.
Una fine inevitabile scritta fin dall'inizio
Ma per quanti contorcimenti anguilleschi abbia tentato di fare per evitare di prendere una posizione chiara e netta e salvare la “pace” interna, le cose sono precipitate suo malgrado quando si è arrivati come si è detto al voto sul decreto Irpef, in cui i filo PD hanno deciso di rompere la fragile tregua temendo di perdere gli ultimi strapuntini rimasti ancora liberi sul carro trionfale di Renzi. Non che Vendola, e nemmeno lo stesso Fratoianni, non stessero pensando e lavorando alla stessa prospettiva, ma non subito, e non attraverso spaccature e scissioni.
Anch'essi vogliono rientrare nella maggioranza, e magari nel governo, e non escludono neanche di sciogliersi nel PD, ma vorrebbero farlo con i dovuti tempi e portandoci dentro il partito tutto intero, per avere più potere contrattuale e più poltrone, nell'illusione di trattare da pari a pari con Renzi. Esattamente come ha suggerito loro Bersani, quando ha detto che “il percorso di avvicinamento tra SEL e PD è maturo, mi auguro che avvenga in modo ordinato e politico”, senza “improvvisazioni, personalismi, opportunismi”.
Mentre invece il comportamento di Migliore e soci risponde più al tipo di invito fatto da Delrio, a mettersi subito a disposizione servile della banda vincente di Renzi, sperando di raccattare qualche avanzo della sua tavola: “Sono benvenuti – ha detto infatti degli scissionisti il sottosegretario alla presidenza del Consiglio – non andiamo a caccia di parlamentari ma abbiamo bisogno di un esecutivo forte. Chi vuole entrare nel PD lo faccia, è cambiato il partito, si è concretizzato il partito leggero, è diventato una casa aperta”.
In un modo o nell'altro, come il PMLI ha sempre denunciato alle masse, il destino di questo partito di falsi comunisti di un tempo, era già segnato all'atto della sua nascita da una scissione a destra di Rifondazione trotzkista. E prima ancora fin dalla nascita di quest'ultima attraverso una scissione a sinistra del PCI all'atto della sua liquidazione e trasformazione in PDS. Scissioni pensate entrambe solo per recitare meglio il ruolo di copertura a sinistra del PDS, poi DS e poi PD liberale, e per tenere ingabbiati i sinceri anticapitalisti e fautori del socialismo nel riformismo, nell'elettoralismo e nel parlamentarismo borghesi. Per poi, arrivati oggi al capolinea, autosmascherarsi e rientrare nel PD avendo terminata la loro sporca funzione di imbroglioni e controrivoluzionari, servi del capitalismo.
25 giugno 2014