I fondi stranieri detengono il 38% della Borsa italiana

Sette anni di crisi economica e finanziaria hanno cambiato profondamente la composizione e gli assetti della Borsa capitalistica in Italia, tanto che oggi ben il 38%, pari a 200 miliardi, dell'intero portafoglio di Piazza Affari, è detenuto da fondi di investimento stranieri. Non sono più cioè le grandi famiglie industriali e i grandi gruppi statali del passato, con i loro complessi intrecci societari e di potere garantiti da Mediobanca, a fare il bello e cattivo tempo nella Borsa di Milano a loro esclusivo piacimento, ma cominciano a prendere il sopravvento, nel capitale azionario e nelle assemblee delle delle grandi società quotate pubbliche e private, gli umori e le decisioni di nuovi forti investitori prevalentemente stranieri. Che in questi anni, favoriti dalla crisi e dalla mancanza di liquidità delle vecchie famiglie italiane, abituate a comandare grazie alle scatole cinesi e agli intrecci politici e senza rischiare un soldo dei propri patrimoni, sono entrati silenziosamente ma in forze sul mercato nazionale comprandosi intere fette delle “blue chips” italiane.
Investitori tanto potenti quanto sconosciuti ai più, come per esempio il fondo Scottish Widows, il fondo delle vedove scozzesi nato nel Regno Unito nel 1812 e oggi entrato in forze nel capitale della Telecom; come i fondi delle parrocchie presbiteriane, i gestori dei risparmi dei professori dell'Illinois, e così via. Per non parlare del più conosciuto fondo americano Blackrock, che gestisce ben 4.300 miliardi di patrimonio, pari a 10 volte l'intero listino di Piazza Affari, e che solo negli ultimi mesi ha comprato il 6% di Intesa e Unicredit, il 5% di Bpm, il 3,7% di Mps e altre importanti quote di Generali, Fiat, Atlantia e Mediaset.
Gli effetti di questo sommovimento cominciano già a farsi sentire, come il 16 aprile scorso all'assemblea di Telecom Italia, dove a Telco, la holding finanziaria del gruppo partecipata per il 22,8% da Generali, Mediobanca e Intesa Sanpaolo, non è riuscito imporre un proprio Consiglio di amministrazione già deciso a tavolino, per via dell'opposizione dei grandi investitori internazionali che sono riusciti a far eleggere tre loro rappresentanti nel Cda. Lo stesso è successo più o meno alle assemblee di Eni e Finmeccanica, dove il maggior azionista, il Tesoro, non è riuscito a far passare il nuovo piano di regole fissato per le assemblee per l'ostilità dei fondi stranieri verso quella che hanno considerato un'intrusione indebita dello Stato nel “libero mercato”.
Il legale che ne tutela gli interessi in Italia, Dario Trevisan, che si è presentato all'assemblea di Generali col 15%, a quella di Telecom col 27% e a quella di Eni col 30%, così spiega la fame di soldi che ha spianato la strada ai fondi stranieri in Borsa: “Le vecchie famiglie non li hanno. Le banche di riferimento nemmeno. Il meccanismo del do ut des , delle operazioni gestite chiamando a raccolta un gruppo ristretto di amici si è inceppato. Le aziende per crescere o per non morire sono costrette a cercarli dove ci sono: dal mercato e dai fondi”.
Stando così le cose c'è da chiedersi allora: perché veniamo bombardati quotidianamente - da Napolitano, da Renzi e dalla schiera degli economisti liberali di regime - con interminabili giaculatorie sugli investitori stranieri che non investono in Italia perché non vengono fatte le “riforme”? La risposta è contenuta nella domanda stessa: è solo una tesi strumentale per far passare appunto le “riforme” di Renzi, tra cui il famigerato Jobs Act che liberalizza il precariato e l'apprendistato e legalizzerà i licenziamenti, il ridimensionamento del ruolo del sindacato e la imminente svendita e privatizzazione delle aziende pubbliche in attivo. Come Enav, Poste, Eni, Enel, Terna, ecc., su cui i fondi di investimento stranieri sono pronti a gettarsi in forze dalla testa di ponte di Piazza Affari, già quasi per metà da loro controllata.
 
 
 

25 giugno 2014