Imbroglioni della “sinistra” borghese si disputano Berlinguer
Nella gara sempre più affollata a santificare la figura di Berlinguer e a disputarsene l'eredità morale, in cui si sono distinti imbroglioni della “sinistra” borghese come Scalfari, lo stesso Berlusconi democristiano Renzi e perfino il destro Grillo, si inseriscono adesso anche certi imbroglioni trotzkisti, e la cosa può sembrare tanto più sorprendente quanto più si tratta di personaggi che a suo tempo lo criticavano da sinistra, e che solo a questo devono ancora oggi la loro fama politica.
E' il caso per esempio di Luciana Castellina, che dopo aver scritto un articolo su Berlinguer per il corposo inserto che gli ha dedicato “L'Unità” in occasione del trentennale della scomparsa, ha sentito il bisogno di un secondo intervento, stavolta su “il manifesto” trotzkista (di cui fu tra i fondatori, per poi uscirne per fondare insieme a Lucio Magri il PdUP e ritornare infine nel partito revisionista), per fare un'appassionata esaltazione della sua figura di “politico scomodo”, in polemica con la “grande banalizzazione della sua memoria” che a suo dire è “la peggior sorte che gli si potesse riservare”.
Castellina dà un giudizio blandamente negativo sulla prima parte della politica di Berlinguer come leader del PCI, quella che si apre con la radiazione del gruppo del Manifesto nel 1969, compresa lei stessa, e culmina con il “compromesso storico” e la “solidarietà nazionale”, mentre lo assolve in pieno per quanto riguarda la seconda parte, che fa partire dalla “seconda svolta di Salerno”, dopo il terremoto dell'Irpinia del novembre 1980, quando egli fu costretto ad abbandonare ufficialmente la politica del “compromesso storico” con la DC che in quella tragedia aveva mostrato tutto il suo marciume politico e morale.
Riguardo al primo periodo, Castellina sorvola pudicamente sulle responsabilità di Berlinguer nella radiazione del suo gruppo, che pure era nella segreteria del partito guidato allora da Longo, e anzi quest'ultimo lei lo rievoca come “un compagno largamente e così ingiustamente dimenticato”. Si limita solo ad accennare alla “sordità” di Berlinguer verso i movimenti emergenti e il “suo sospetto verso il '68”, la sua diffidenza verso la democrazia diretta, la sua tendenza a privilegiare il dialogo con la DC piuttosto che con i cattolici di base (“fin dai tempi della FGCI”, precisa), attribuendo a questa sua tendenza lo sbocco successivo nel “compromesso storico” e nel governo di unità nazionale.
Tutt'altra musica il leader del PCI avrebbe invece suonato dopo la “svolta”, le cui note più alte sarebbero state, secondo lei, l'abbandono del “compromesso storico”, un presunto contrasto con Lama sulla lotta alla Fiat che culminò con il comizio che tenne davanti ai cancelli della fabbrica, il referendum per ripristinare la scala mobile abolita da Craxi, “la rottura con l'URSS brezneviana”, il sostegno al pacifismo, la “terza via” europea, il discorso sull'austerità e quello contro la corruzione, e
dulcis in fundo, poco prima di morire, la proposta al PdUP della stessa Castellina e di Magri, che la accettarono, di rientrare nel PCI.
La trotzkista Castellina rilegge cioè la storia spacciando un'inesistente “svolta” nella vita e nella linea politica del revisionista Berlinguer, e una ancor più inesistente frattura tra quella sua linea e quella che porterà avanti il PCI fino alla sua liquidazione e alle sue trasformazioni successive fino al PD di Renzi. In realtà c'è un unico filo conduttore revisionista riformista e parlamentarista che unisce il PCI di Gramsci, Togliatti, Longo, Berlinguer, Natta e Occhetto, al PD liberale e anticomunista di Renzi. Il secondo è figlio naturale del primo, checché ne dicano i trotzkisti de “il manifesto”, che da parte loro aggiungono al fondo della Castellina il titoletto “se ne esalta la memoria (di Berlinguer, ndr) per rivendicare una continuità che non c'è”.
C'è eccome, invece, dal momento che è stato proprio Berlinguer col “compromesso storico” a rivalutare la DC e a sdoganare il primo governo di “solidarietà nazionale”, antesignano delle “larghe intese” attuali; a decretare finita “la spinta propulsiva della Rivoluzione d'Ottobre”, per chiudere per sempre con la lotta di classe per rovesciare il capitalismo e conquistare il socialismo; a dichiarare di sentirsi “più sicuro sotto l'ombrello della Nato”, schierandosi definitivamente con l'imperialismo Usa ed europeo. Lo conferma anche il liberale anticomunista, già fascista e monarchico, Eugenio Scalfari, sulle colonne de “La Repubblica” paragonandolo a papa Francesco per testimoniare il ruolo svolto da Berlinguer nella decomunistizzazione del PCI dicendo: “Nel corso degli anni, dal 1977 all'84, le domande più importanti che gli feci e le risposte che ne ottenni furono sette: la natura del Partito comunista italiano rispetto agli altri e in particolare a quelli che operavano in paesi occidentali; il suo rapporto con l'Urss e col Partito comunista sovietico; il suo rapporto con il leninismo; la concezione che aveva della futura Europa; la dialettica in atto con i socialisti e con la Dc; la natura del centralismo democratico e il ruolo che il Pci doveva avere con l'Italia; il problema da lui sollevato della questione morale”. E compiacendosi da una risposta di Berlinguer nel settembre 1980 riguardo al suo rapporto con il leninismo: “Lenin ha identificato il partito con lo Stato; noi rifiutiamo totalmente questa tesi. Lenin ha sempre sostenuto che la dittatura del proletariato è una fase necessaria del percorso rivoluzionario; noi respingiamo questa tesi che da lungo tempo non è la nostra. Lenin ha sostenuto che la rivoluzione ha due fasi nettamente separate: una fase democratico-borghese e successivamente una fase socialista. Per noi invece la democrazia è una fase di conquiste che la classe operaia difende ed estende, quindi un valore irreversibile e universale che va garantito nel costruire una società socialista" (vedi “Il Bolscevico” n. 12/2014). Tutte scelte che hanno spianato la strada all'attuale PD liberale, anticomunista e filo imperialista di Renzi.
Quanto alla “seconda svolta di Salerno”, Berlinguer vi fu costretto solo dalla scoppola elettorale presa dal PCI alle elezioni del '79 per colpa della “solidarietà nazionale”, e dall'esplodere della “questione morale” in cui erano immersi la DC e il PSI di Craxi, che lo obbligò a prendere le distanze e rispolverare slogan demagogici come la “diversità” del PCI, l'“austerità” e l'“alternativa”. E non vi fu nessuna contrapposizione col riformista e destro Lama (basti pensare al ruolo concertato tra il segretario della CGIL e il PCI per spegnere il movimento di lotta del'77 trattandolo come un fenomeno terroristico), ma solo un gioco delle parti, per cui mentre Berlinguer fingeva solidarietà alla lotta degli operai Fiat, Lama pensava a farla fallire aspettando l'occasione propizia per arrendersi ad Agnelli e Romiti, cosa che avvenne con la cosiddetta “marcia dei 40 mila”.
Il panegirico berlingueriano della Castellina dimostra che avevamo ragioni da vendere a denunciare già al suo primo apparire il gruppo ingraiano e trotzkista del “manifesto” come una copertura a sinistra del PCI revisionista di Longo e Berlinguer. Allora la Castellina, insieme a Rossanda, Pintor, Parlato e Natoli esaltavano la Cina di Mao e il socialismo in contrapposizione al PCI revisionista e riformista e a Berlinguer: oggi la stessa ex parlamentare europea del PdUP, PCI e PRC, attuale presidente onoraria dell'ARCI non si sente minimamente imbarazzata nell'esaltare la memoria del leader revisionista contendendola agli imbroglioni riformisti di destra.
D'altronde così fanno regolarmente gli imbroglioni trotzkisti, che nella loro opera di copertura a sinistra dei partiti revisionisti e riformisti, sono costretti a seguirne passo passo la degenerazione, finendo sempre per rivalutare ed esaltare come “di sinistra” ciò che c'era prima dell'ultima svolta a destra.
2 luglio 2014