Per il piano di dismissione che comporterà la perdita di 3.500 posti di lavoro
Gela in rivolta contro l'Eni
Dura lotta degli operai con presìdi, picchetti e sciopero generale
PMLI: “Cancellare le privatizzazioni e rinazionalizzare l'ENI”
Dal nostro corrispondente della Sicilia
Sono in lotta dall'inizio di luglio gli operai del petrolchimico di Gela, da quando l'amministratore delegato della società a maggioranza dello Stato, Claudio Descalzi, nominato nel maggio 2014 dal governo Renzi, ha annunciato la revoca di 700 milioni di investimenti nell'impianto di Gela (Caltanissetta), già fermo da maggio a seguito di un incendio che ne ha danneggiato una parte. Un annuncio che lascia intravedere all'orizzonte una vera e propria dismissione dell’impianto che rischia di lasciare a casa 3500 operai, di cui 1800 dell'indotto.
Da un mese si susseguono nella cittadina industriale della provincia nissena dure lotte, con blocchi stradali, picchettaggio dei cancelli e dell’approdo del gasdotto dalla Libia. Gli operai non hanno lasciato passare nessuno, nemmeno i turnisti che avrebbero dovuto dare il cambio ai colleghi che hanno lavorato durante la notte e le petroliere rimangono a lungo ferme in mare per mancanza di personale.
Il 28 luglio è stato indetto lo sciopero generale unitario di tutte le categorie. Un lungo serpentone di oltre 20mila manifestanti, partito dal museo civico di Gela, ha percorso il centro storico della cittadina, interamente scesa in piazza a difesa della raffineria. Erano presenti non solo gli operai, ma anche le famiglie, tantissimi giovani. Lungo tutto il percorso centinaia di bandiere sindacali, tra cui anche quelle della categoria marinari di Gela, e moltissimi manifesti che chiedevano “lavoro”.
In corteo anche delegazioni delle raffinerie di Milazzo (Messina), Gagliano (Enna) e Priolo (Siracusa), perché la vicenda assume un rilievo regionale dal momento che per una sorta di effetto domino economico, la chiusura di Gela rischia di far cadere ad uno ad uno tutti gli stabilimenti siciliani, con un calo del PIL regionale del 7%.
Presente al corteo anche Crocetta che minaccia “risarcimenti miliardari se la società confermerà nel piano industriale l’intenzione di abbandonare la Sicilia”, ma si guarda bene dal citare colui che sta dietro questa vicenda, Renzi.
La vicenda dell'Eni, del resto, sta assumendo un carattere nazionale a rischio infatti anche Taranto, Livorno e Porto Marghera.
Il 29 luglio, con un'adesione di oltre il 90%, si è svolto lo sciopero per l'intera giornata dei 30mila lavoratori del gruppo Eni, oltre a quelli della produzione, perforazione, chimica e petrolchimica, delle sedi direzionali, dei depositi, degli uffici commerciali e amministrativi e delle aziende territoriali indetto da Filctem-Cgil, Femca-Cisl e Uiltec-Uil, con il blocco di tutti gli impianti di raffinazione sul territorio nazionale. Nella stessa giornata del 29 anche una partecipata manifestazione nazionale a Roma, alle 15 davanti a Montecitorio.
La CGIL chiede che “'Eni torni sui propri passi” e “rispetti gli accordi". Bisogna però additare con fermezza chi sta dietro questo sciagurato progetto di dismissione. L'azionista principale di Eni è il governo Renzi. Non è infatti pensabile che, detenendo il 30% delle quote e vari privilegi che lo Stato si è garantito nel processo di privatizzazione ancora in corso, il nuovo Mussolini non sapesse nulla e non condividesse le scelte di Descalzi, peraltro da lui stesso nominato amministratore.
Se si vuole salvare gli stabilimenti italiani di Eni la strada da percorrere è una: alzare il tiro e costringere il governo Renzi a “cancellare le privatizzazioni e rinazionalizzare l'Eni”, come chiede il PMLI sin dall'inizio del percorso di privatizzazione dell'Ente nazionale idrocarburi.
30 luglio 2014