Alla direzione del PD
Renzi fa carta straccia del diritto borghese del lavoro
Per lui i padroni sono dei lavoratori (il PD “si candida a rappresentarli”) e devono essere liberi di licenziare quando vogliono, il lavoro nel capitalismo non è un diritto ma un dovere e i sindacati vanno emarginati
Più a destra di Berlusconi e simile a Mussolini
La Direzione del Partito democratico che si è tenuta il 29 settembre con al centro il tema della “riforma del lavoro” e dell'articolo 18, considerata l'ultima occasione per la minoranza interna di marcare la sua presenza e imporre uno stop allo strapotere di Renzi, si è conclusa anche stavolta non solo con la vittoria schiacciante del Berlusconi democristiano, del resto ampiamente prevista, ma pure con la divisione del fronte avversario, che non è nemmeno riuscito a presentare una mozione alternativa, e l'isolamento degli ex revisionisti capeggiati da Bersani e D'Alema.
La mozione della maggioranza renziana ha ottenuto infatti 130 voti a favore, contro solo 20 contrari, tra cui D'Alema, Bersani, Cuperlo, Fassina, D'Attorre e Civati, e 11 astenuti, tra cui i “giovani turchi” come il presidente del partito Matteo Orfini e il ministro della Giustizia Orlando e i “riformisti” ex bersaniani capeggiati dal capogruppo dei deputati Speranza, tutti saltati da tempo sul carro di Renzi e da lui lautamente remunerati con poltrone di peso e la garanzia della rielezione. Per fornir loro un alibi atto a motivare il loro voto di astensione, al segretario è bastato offrire la foglia di fico del mantenimento dell'articolo 18 anche per i licenziamenti per motivi disciplinari, oltre che per motivi discriminatori, più l'annuncio di voler riaprire la Sala verde di Palazzo Chigi per riprendere i colloqui con sindacati e Confindustria su rappresentanza sindacale, contrattazione aziendale e salario minimo.
E così il nuovo Berlusconi ha potuto dichiarare trionfante di aver asfaltato l'opposizione con l'80% dei voti, “perché – ha detto - si doveva spaccare la maggioranza e invece si è divisa la minoranza”, e che adesso la strada è spianata in parlamento per l'approvazione del Jobs act e l'emendamento del governo sull’articolo 18, dicendosi sicuro che alla fine dei 40 senatori PD firmatari dei 7 emendamenti che ne chiedono la modifica, alla fine non ne rimarranno più che 6 o 7. E che comunque il governo avrebbe valutato se mettere la fiducia sulla delega al provvedimento sul lavoro nel caso la sua approvazione fosse a rischio.
La posta in gioco immediata
Il braccio di ferro con la minoranza era nato dall'emendamento del governo alla legge delega sul Jobs act che gli dava carta bianca anche per l'abolizione definitiva della reintegra al lavoro per i licenziamenti senza giusta causa prevista dall'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Articolo già gravemente menomato due anni fa dalla “riforma” Fornero, anche con i voti del PD diretto allora da Bersani, che aveva sostituito la reintegra con un indennizzo pure in caso di licenziamento per motivi economici accertato come pretestuoso dal giudice. L'emendamento del governo Renzi era passato in commissione anche grazie all'astensione di Forza Italia, e ora fa parte integrante della legge delega sul lavoro in approvazione al Senato.
Per Renzi la posta in gioco immediata è presentarsi al prossimo vertice europeo di Milano sul lavoro con lo scalpo dell'articolo 18 per dimostrare che il suo governo fa effettivamente le “riforme” chieste dalla Ue, dalla Bce e dal Fmi, e che è capace di mettere i sindacati con le spalle al muro e governare praticamente senza opposizione, viste quella finta di Berlusconi e quella di cartone della “sinistra” interna al PD.
Dalla sua parte stanno risolutamente la Confindustria di Squinzi, il nuovo Valletta Marchionne, che lo ha accolto a braccia aperte in America, il rinnegato Napolitano e il neoduce Berlusconi, che appoggia incondizionatamente la sua “riforma del lavoro” perché è da sempre anche la sua, e gli ha offerto i suoi voti in parlamento per farla passare se ci fossero imboscate della fronda interna al PD. Da parte sua Renzi ha utilizzato tutta la potenza di fuoco dei super compiacenti mass media di regime, per preparare la resa dei conti in Direzione e schiacciare ogni pur minima opposizione al suo disegno di riscrivere da cima a fondo in senso mussoliniano il diritto del lavoro borghese, così come si era configurato dopo le grandi lotte e conquiste operaie e sindacali degli anni '60 e '70.
E lo ha fatto non solo sfoggiando platealmente il suo asse privilegiato con Marchionne, il primo non a caso che ha infranto tutte le regole sindacali consolidate per imporre nei suoi stabilimenti relazioni industriali di stampo apertamente mussoliniano, ma anche attaccando frontalmente i sindacati e considerandoli ormai superati, dichiarando per esempio al Wall Street Journal
che “la riforma del mercato del lavoro è una priorità e se i sindacati sono contro per me non è un problema”. E dichiarando per esempio a Che tempo che fa
, che “il Paese sta con me e non con i sindacati”, e che “io non voglio che la scelta di chi deve assumere o licenziare sia in mano a un giudice. L'imprenditore, se deve fare a meno di alcune persone, siccome non è cattivo, deve avere il diritto di lasciarne a casa alcune”. Cioè, in altre parole, che lui se ne frega dei dissensi e delle proteste di piazza, e che è arrivato il momento che i diritti costituzionali dei lavoratori cedano definitivamente il passo a quelli del mercato e del profitto capitalistici.
La posta in gioco strategica
In Direzione PD Renzi è stato altrettanto sfrontato nel fare carta straccia del diritto borghese del lavoro e perfino della terminologia di “sinistra” che ancora sopravvive nella base di questo partito, arrivando a sentenziare che con questa riunione “noi oggi abbiamo detto con serenità che gli imprenditori sono dei lavoratori e non dei padroni e che la sinistra si candida a rappresentarli”. Questa, ha aggiunto invocando una “profonda riorganizzazione del mercato del lavoro e anche del sistema del welfare”, è un’occasione per “votare con chiarezza un documento che segni il cammino del PD sui temi del lavoro e ci consenta di superare alcuni tabù che ci hanno caratterizzato in questi anni”. Quanto ai sindacati, ha rincarato le accuse sottolineando che “non è accettabile che non si dica che in questi anni hanno avuto una responsabilità drammatica”, perché “hanno rappresentato una sola parte”: sottinteso, quella che lui chiama i “garantiti”, cioè i lavoratori iscritti al sindacato e con contratti non precari, quasi fossero dei privilegiati e dei profittatori: “Il rispetto del diritto costituzionale”, ha sentenziato infatti Renzi, ”non è nell’avere o no l’articolo 18, ma nell’avere lavoro”.
Il nuovo Berlusconi non fa nulla a caso ma si è costruito questa occasione a tavolino per dare un'altra robusta spallata a destra al PD e al Paese, stando però ben attento a trascinare dietro di sé tutte le truppe, salvo un pugno di sbandati, sempre pronti comunque a qualche accordo di compromesso. La sua “riforma del lavoro” è ancor più a destra e pericolosa di quelle di Craxi e di Berlusconi, perché mentre il primo la faceva su singoli temi, come sull'abolizione della scala mobile, Renzi lo fa sull'intero fronte del diritto del lavoro e dello Stato sociale borghesi, mirando a smantellarli completamente e definitivamente. E rispetto a Berlusconi, egli sta riuscendo a realizzare da “sinistra” quello che al suo maestro non è riuscito da destra, e per di più tirandosi dietro quasi tutta la “sinistra” borghese, a costo di distruggere il PD come ex partito politico di massa e trasformarlo in un comitato politico-elettorale al suo esclusivo servizio, sul modello di quello che è Forza Italia per Berlusconi: il cosiddetto “partito della nazione”, un partito interclassista che ha rotto ogni legame con la storia della sinistra italiana e guarda sempre più all'elettorato di destra, infischiandosene se i militanti e l'elettorato di sinistra se ne allontanano sempre più schifati. Questa è per lui la posta in gioco a livello strategico.
Lo stanno dimostrando tra l'altro gli ultimi dati sul tesseramento, crollato in un anno dai 539 mila iscritti del 2013 ad appena 100 mila a due mesi dalla chiusura della campagna di rinnovo delle tessere. Un crollo di cui Renzi si strafrega, contrapponendogli l'aumento dei consensi elettorali e suo personale nei sondaggi. In questo senso il suo percorso è molto simile a quello di Mussolini, il cui esordio politico nel Partito socialista gli servì solo come trampolino di lancio per le sue smisurate ambizioni politiche, utilizzando prima la demagogia di “sinistra” per farsi una base di massa per conquistare il potere assoluto, e poi coltivando il rapporto diretto con “gli italiani” per conservarlo a lungo.
La fronda di bottega degli ex revisionisti
Tutto questo è possibile anche grazie all'incapacità, all'opportunismo e alla complicità della minoranza degli ex revisionisti del partito, che sull'articolo 18 non gli hanno fatto certo un'opposizione di principio, ma puramente strumentale e di bottega. E come avrebbero potuto, dal momento che sono stati proprio loro per primi a manomettere i diritti dei lavoratori e lo stesso articolo 18? Inoltre hanno paura di tirare troppo la corda e far cadere il governo, perché Renzi li ricatta continuamente con lo spauracchio delle elezioni anticipate, nel qual caso non sarebbero ricandidati. E infatti si limitano a chiedere solo alcune modifiche al Jobs act, come il reintegro dell'articolo 18 per i neo assunti dopo un certo numero di anni, anche superiore ai 3 proposti inizialmente dal provvedimento, chiedono che si condizioni la sua cancellazione al reperimento di stanziamenti certi nella Legge di stabilità per finanziare gli ammortizzatori sociali per i licenziati, e così via.
Quanto ai loro leader storici, i rinnegati D'Alema e Bersani, non hanno fatto neanche questo, ma hanno cercato più che altro di marcare il territorio per testimoniare di essere ancora in vita: il primo, sebbene un po' più forte di come ha fatto timidamente il suo figlioccio Cuperlo, con un attacco puramente personalistico al segretario, senza entrare in merito ai suoi programmi neofascisti, piduisti, antioperai e antisindacali, ma accusandolo solo di essere un parolaio e propalatore di promesse a vuoto, chiedendogli “meno slogan e meno spot e un’azione di governo più riflettuta”. E il secondo piagnucolando come suo solito sul trattamento da “metodo Boffo” che starebbe subendo dagli uomini di Renzi, riferendosi forse con ciò alle accuse di sperperi durante la sua passata gestione.
Comunque tutti costoro non hanno il coraggio di contrapporsi frontalmente al nuovo Berlusconi, anzi respingono frettolosamente qualsiasi voce di scissione, e Bersani, pur continuando a mugugnare, ha assicurato che alla fine si allineerà alla maggioranza e voterà sì al provvedimento. E lo farà a maggior ragione, come tutti i suoi compari della minoranza PD, ora che Renzi ha deciso di chiudere la partita mettendo la fiducia sulla legge delega sul lavoro. Bisogna fermarlo, prima che sia troppo tardi. Ma è impossibile senza la lotta di piazza e lo sciopero generale di 8 ore, che nessun sindacato, a oggi, nemmeno la FIOM di Landini ha osato programmare. La manifestazione nazionale del 25 ottobre promossa dalla CGIL è solo un palliativo.
8 ottobre 2014