“Indicibili accordi”
La testimonianza di Napolitano non convince
Non poteva non sapere della trattativa Stato-mafia
Il 28 ottobre la Corte d'assise di Palermo, affiancata dai legali degli imputati, si è recata al Quirinale per porre una serie di domande a Giorgio Napolitano, sentito come teste in ordine al processo sulla trattativa Stato-mafia del 1992-1993. Una richiesta avanzata un mese prima dai pm palermitani, in base a nuove carte emerse, a cui l'inquilino del Quirinale aveva tentato di sottrarsi in tutti i modi evocando ostacoli e conflitti di natura istituzionale, soprattutto per interposta persona, tramite le indignate proteste del governo, del PD e della compiacente stampa di regime. Indignazione ipocrita e strumentale che aveva raggiunto l'apice dopo l'assenso dei magistrati alle richieste di imputati come Salvatore Riina di presenziare all'udienza, assenso manifestamente tecnico e dettato unicamente dalla necessità di evitare un annullamento degli atti per violazione dei diritti degli imputati, e non certo dalla volontà di recare un'offesa alla dignità del capo dello Stato. Lo stesso Renzi aveva tuonato dal palco della Leopolda in sua difesa contro lo “sgarbo” dei magistrati.
E anche quando è stato deciso in deroga alle regole di ammettere solo i legali degli imputati, Napolitano ha preteso un ulteriore grave strappo alla legge, per rimarcare che l'interrogatorio non era fatto a un cittadino comune, ma al capo dello Stato nel pieno delle sue prerogative costituzionali, quasi fosse un atto di lesa maestà: ha preteso cioè di essere affiancato dal vicesegretario generale della presidenza e, in spregio alle stesse consuetudini borghesi sul diritto di informazione, di tener fuori giornalisti e telecamere, di far effettuare la registrazione esclusivamente da personale del Quirinale e di rendere pubbliche le sole trascrizioni dei verbali. É stato riferito inoltre che per la prima mezz'ora ha risposto alle domande voltando le spalle alla Corte, in ostentato atteggiamento di alterigia. Anche se poi in un comunicato ufficiale, anche per smentire le dichiarazioni dell'avvocato di Riina e rifarsi un'immagine di “trasparenza democratica”, ha teso a sottolineare che “il presidente ha risposto alle domande senza opporre limiti di riservatezza connessi alle sue prerogative costituzionali né obiezioni”.
Le molte domande dei pm di Palermo
I pm palermitani Vittorio Teresi e Nino Di Matteo avevano preparato una serie di 37 domande da rivolgergli. In particolare chiedevano chiarimenti sulla famosa lettera di dimissioni del 18 giugno 2012 in cui il suo consigliere giuridico Loris D'Ambrosio, morto poche settimane dopo di infarto, faceva riferimento a non meglio precisati “indicibili accordi” di cui sarebbe stato inconsapevole strumento durante il periodo 1989-1993, in cui era stato collaboratore di Giovanni Falcone e capo dell'ufficio studi della Direzione generale del ministero della Giustizia. Volevano sapere cioè se Napolitano avesse allora chiesto a D'Ambrosio in cosa consistessero tali accordi, chi ne facesse parte e perché e che cosa questi gli avesse risposto.
Volevano sapere inoltre se durante la stagione delle stragi mafiose del 1992-1993 da parte di Napolitano, allora presidente della Camera, e di altre cariche istituzionali vi fosse stata conoscenza di una trattativa tra organi dello Stato e Cosa nostra, se Napolitano fosse a conoscenza di un piano della mafia per attentare alla sua persona e a quella dell'allora presidente del Senato Spadolini, se l'allora presidente della commissione parlamentare Antimafia, Luciano Violante, gli avesse parlato di una richiesta di Vito Ciancimino di essere ascoltato dalla commissione, e altre domande riguardanti il processo.
A tutte queste domande l'inquilino del Quirinale ha risposto in maniera vaga e reticente, o non ha risposto affatto, agevolato in questo anche dal presidente della Corte, Alfredo Montalto, che gli ha evitato domande chiave come quella di Di Matteo se fosse stato a conoscenza della revoca di 334 provvedimenti di carcere duro (art. 41 bis) ad altrettanti capi mafiosi, disposta nel novembre 1993 dall'allora ministro della Giustizia Conso, che il ministro affermò di aver deciso in “perfetta solitudine” e senza alcun condizionamento, mentre i pm sospettano sia stata una contropartita dello Stato in cambio della cessazione delle stragi di mafia della primavera-estate di quell'anno a Firenze, Milano e Roma; tanto che Conso figura indagato per falsa testimonianza, come l'allora ministro dell'Interno Mancino che giura di non aver mai saputo nulla di questa trattativa. Montalto non ha ammesso la domanda, perché, ha riferito Di Matteo, “si allontanava dal capitolato di prova”.
Anche gli avvocati di Mancino e dei generali Mori e Subranni, che evidentemente non avevano che da guadagnare dalla reticenza di Napolitano, hanno evitato di porre domande imbarazzanti. Quello del generale Mori ha rinunciato addirittura a porre domande “per rispetto istituzionale e della persona del capo dello Stato”. E solo con il legale di Totò Riina il capo dello Stato ha dovuto ingaggiare qualche battibecco, senza peraltro particolari conseguenze. Salvo impappinarsi in un maldestro tentativo di giustificare i maneggi di D'Ambrosio per venire incontro alle pretese di Mancino di far avocare l'inchiesta di Palermo, trattandolo alla stregua di un intervento per evitare “scontri tra procure” come quello che ci fu per il caso De Magistris.
Silenzio tombale sugli “indicibili accordi”
Sulla lettera di D'Ambrosio che gli comunicava le sue dimissioni dopo lo scandalo della pubblicazione delle telefonate con Mancino, che insisteva affinché il Quirinale intervenisse per far assegnare ad un'altra procura l'inchiesta di Palermo, Napolitano è stato praticamente tombale, nel senso che ha ribadito di non sapere nulla e di non aver nemmeno chiesto al suo collaboratore cosa intendesse dire riferendosi a quegli “indicibili accordi”. Eppure dalla lettera sembra che D'Ambrosio desse per scontato che il presidente sapesse di che cosa si stava parlando: “Lei sa – scriveva infatti D'Ambrosio in quella lettera - che di ciò ho scritto anche di recente, su richiesta di Maria Falcone (per un suo libro sul marito ucciso a Capaci, ma nel libro ciò non risulta, ndr), e sa che in quelle poche pagine non ho esitato a fare cenno a episodi del periodo 1989-1993, che mi preoccupano e fanno riflettere. Che mi hanno portato a enucleare ipotesi, solo ipotesi, di cui ho detto anche ad altri (ad altri oltre a lei, sembra voler dire lo scrivente, ndr), quasi preso anche dal vivo timore di essere stato allora considerato solo un ingenuo e utile scriba di cose utili a fungere da scudo per indicibili accordi”.
É forte il sospetto che D'Ambrosio parlasse proprio della trattativa segreta ingaggiata da organi dello Stato con la mafia dopo l'uccisione di Salvo Lima e la successiva strage di Capaci del giugno 1992. Possibile che Napolitano, che pure ha ammesso la “forte drammaticità” di questo passaggio, si limiti a dire che non ritenne allora di doverne parlare col suo collaboratore e che è solo un passo di “difficile interpretazione”?
Ad un certo punto, per chiudere questo spinoso argomento su cui i pm, evidentemente non molto convinti, insistevano a porgli domande, Napolitano ha anche alluso alla possibilità di ricorrere alle sue prerogative di intoccabile, quando ha detto con malcelata ipocrisia: “Vorrei pregare la Corte e voi tutti di comprendere che da un lato io sono tenuto e fermamente convinto che si debbano rispettare le prerogative del capo dello Stato così come sono sancite dalla Costituzione repubblicana. Dall'altro mi sforzo, faccio il massimo sforzo per dare nello stesso tempo il massimo di trasparenza al mio operato e il massimo contributo anche all'amministrazione della giustizia. Sono, come dire, certe volte proprio su una linea sottile, quello che non debbo dire non perché abbia qualcosa da nascondere, ma perché la Costituzione prevede che non lo dica, e quello che intendo dire per facilitare il più possibile un processo di chiarificazione”. A buon intenditor...
Altre omissioni e reticenze
Sul possibile attentato alla sua persona Napolitano dice che ne fu informato dall'allora capo della polizia Parisi, presumibilmente a nome del ministro Mancino, ma non si capisce allora perché non ne aveva mai fatto cenno prima, e perché non lo ha fatto neanche Mancino, pur sapendo tutti e due che i pm di Palermo indagavano sulle stragi e sulla trattativa. E la cosa è venuta fuori solo perché i pm palermitani a metà ottobre hanno scoperto una nota del Sismi depositata in un archivio a Firenze. La stessa cosa più o meno è successa con la confidenza avuta da Violante su Ciancimino che voleva deporre all'Antimafia: perché Violante non ne aveva mai parlato prima che la cosa venisse fuori sui giornali? Perché Napolitano ne parla solo ora che è interrogato? E a quale scopo Violante lo disse proprio a lui? E perché poi l'audizione non si fece? Tutte domande che rimangono tuttora senza risposta.
Di tutte le sue “risposte” solo una è in grado di aggiungere qualcosa a quanto già si sapeva (o non si sapeva) finora, e forse perché gli è più che altro scappata di bocca: quella in cui ha ammesso che nell'estate del 1993, dopo le bombe a Milano e a Roma, con il black out che colpì Palazzo Chigi e che l'allora presidente del Consiglio Ciampi temette (come di recente ha rivelato) si trattasse di un tentativo di colpo di Stato ordito dalla mafia e dalla P2, egli e le altre cariche politiche del governo e istituzionali furono consapevoli che si era in presenza di una strategia mafiosa per ricattare lo Stato. Alla domanda infatti di Di Matteo su quali furono le reazioni immediate ai vertici istituzionali e politici su quelle stragi, Napolitano ha ammesso che la valutazione comune “fu che si trattava di nuovi sussulti di una strategia stragista dell'ala più aggressiva della mafia”, presumibilmente dei corleonesi, “per mettere i pubblici poteri di fronte a degli aut aut”.
E alla successiva domanda di Di Matteo se questo si potesse considerare un ricatto della Mafia allo Stato, Napolitano ha risposto: “Ricatto o addirittura pressione a scopo destabilizzante di tutto il sistema”. E subito dopo ha sentito il bisogno di aggiungere: “Probabilmente presumendo che ci fossero reazioni di sbandamento delle autorità dello Stato”, quasi si fosse accorto di essersi sbilanciato troppo e avesse cercato di rimediare precisando che quella della mafia era solo una “presunzione” che però non ha trovato sponda nella politica e nello Stato.
Come poteva non sapere della trattativa?
Questa mezza ammissione di Napolitano è stata comunque incassata dai magistrati palermitani con una certa soddisfazione, perché suffragherebbe in qualche modo la loro ipotesi accusatoria sulla trattativa Stato-mafia. Ma si tratta di ben poca cosa, in confronto alla massa di cose irrilevanti, reticenze e vere e proprie banalità di cui è costellata la deposizione di oltre tre ore del capo dello Stato. La testimonianza di Napolitano non è per nulla convincente perché non poteva non sapere della trattativa e conoscerne tutti i risvolti segreti, visto che ricopriva la terza carica dello Stato in quel momento, e che negli anni successivi è stato anche ministro degli Interni. Se non lo sapevano lui, Spadolini, il presidente Scalfaro, Ciampi, Mancino e Conso, che erano le massime autorità politiche e istituzionali rappresentanti lo Stato in quel momento, chi altri potrebbe saperlo?
E che la trattativa ci sia stata non solo è un fatto già acclarato con sentenza del tribunale di Firenze, ma appare inoppugnabilmente anche da un rapporto del Sisde (il servizio segreto civile) datato 20 agosto 1993, ritrovato dopo 20 anni in un archivio dai magistrati palermitani, e che è stato uno dei motivi che hanno condotto all'audizione di Napolitano, in cui si dice testualmente che da quelle stragi i mafiosi si proponevano di “ricavare nuove forme di trattativa miranti ad ottenere forti sconti di pena nell'ambito di una più vasta e generale pacificazione sociale necessaria all'instaurazione del nuovo ordine costituzionale”.
E in effetti è andata proprio così, visto che le tappe successive furono la revoca del 41 bis per oltre 300 mafiosi come primo segnale di “buona volontà” dello Stato, e che nell'anno successivo la strategia stragista fu abbandonata dalla mafia quando apparve sulla scena Forza Italia di Berlusconi e Dell'Utri, che come ebbe a dire il boss Graviano all'esecutore delle stragi di Borsellino e dei Georgofili, poi diventato collaboratore di giustizia, Spatuzza, era il partito che avrebbe loro messo “l'Italia nelle mani”.
5 novembre 2014