Cancellato da destra il diritto borghese del lavoro, col voto di Bersani e Epifani e l'assenso di Napolitano
La Camera nera approva il Jobs Act imposto da Renzi per la libertà di licenziamento
La sinistra del PD non ci sta: due deputati votano contro, due si astengono, 29 non partecipano al voto. Anche la Bindi minaccia di fondare un nuovo partito. Il M5S fa un gran baccano, ma poi non ha il coraggio di votare no
Il nuovo Berlusconi va spazzato via
Il 25 novembre la Camera nera ha approvato a passo di carica in seconda lettura il disegno di legge delega che dà ampia facoltà al governo di scrittura e applicazione del famigerato Jobs Act di Renzi e Poletti. Il provvedimento che abolisce definitivamente l'articolo 18,dando piena libertà di licenziamento ai padroni e scardinando altri diritti sanciti dallo Statuto dei lavoratori, come il diritto a non essere retrocessi nelle mansioni e il diritto a non essere spiati sul posto di lavoro.
Rispetto alla prima approvazione dell'8 ottobre in Senato, avvenuta grazie all'imposizione del voto di fiducia, stavolta Renzi correva meno rischi avendo una maggioranza schiacciante alla Camera, e così ha potuto farsi bello evitando il voto di fiducia, nonostante la defezione di una trentina dei suoi deputati. Un lusso che si è potuto concedere anche grazie alla procedura accelerata per la discussione in aula (poche ore in tutto, complice anche la presidente Boldrini), che gli dava la garanzia del rispetto dei tempi da lui stesso prefissati, altrimenti aveva già pronto il voto di fiducia anche alla Camera. Come è praticamente sicuro che lo imporrà per la terza e ultima lettura di nuovo al Senato, dove i numeri sono molto più risicati per la maggioranza di governo. Ripetendo così per la seconda volta la scandalosa forzatura procedurale di una legge delega approvata col voto di fiducia, che è come dire una doppia cambiale in bianco estorta al parlamento.
Ciononostante l'approvazione è avvenuta con 316 voti a favore, ossia un solo voto in più della maggioranza assoluta del parlamento che il voto di fiducia avrebbe richiesto se fosse stato messo, e questo la dice lunga sulla reale “solidità” della maggioranza su cui si regge il governo del Berlusconi democristiano. In questo caso di voti ne bastavano molti meno, perché 260 deputati erano usciti dall'aula per non partecipare al voto: tra questi tutti quelli di Forza Italia, Lega, SEL e M5S, più una trentina di deputati dissidenti della sinistra del PD, tra cui Fassina e Cuperlo, ma anche D'Attorre, Zoggia,Bindi, Boccia, Marzano, Pollastrini e altri. Invece sono rimasti in aula a votare no Pippo Civati e Luca Pastorino, mentre altri due civatiani si sono astenuti.
Anche i deputati del M5S, pur avendo fatto un gran baccano in aula, sventolando strisce con la scritta “Licenziact”, poi non hanno avuto la coerenza e il coraggio di votare no, ma hanno preferito uscire dall'aula, come i 29 dissidenti PD che non partecipando al voto hanno solo voluto lanciare un segnale a Renzi senza osare pronunciarsi chiaramente contro il suo Jobs Act.
La complicità di Bersani ed Epifani
Il dissenso della minoranza interna era stato annunciato alla vigilia del passaggio parlamentare dagli stessi Cuperlo e Fassina, col primo che dichiarava “così com'è il Jobs Act è insostenibile, non posso votarlo”, e il secondo che accusava il provvedimento di puntare alla “libertà di licenziamento”. Rosy Bindi, esponente di punta della corrente prodiana, ventilava addirittura la possibilità di una scissione del PD per formare un nuovo partito “di sinistra”. Il giorno precedente alla votazione finale 17 deputati della minoranza, tra cui Cuperlo, Fassina e Civati, votavano un emendamento dell'ex sindacalista Fiom Airaudo (SEL), che chiedeva di ripristinare l'articolo 18 per i neo assunti dopo un anno di contratto anziché i tre previsti dal provvedimento. Emendamento bocciato, ma che suonava un campanello d'allarme per il governo.
Ecco allora accorrere in aiuto a Renzi l'altra metà della “sinistra” interna, con l'ex segretario Bersani che, pur brontolando contro gli attacchi del premier alla Cgil e il suo menefreghismo verso la batosta astensionista in Emilia Romagna, ha garantito i suoi voti “per disciplina di partito, perché chi ha fatto il segretario non può tirarsi fuori facilmente”, e perché vuole assolutamente evitare scissioni. A lui si sono uniti a puntellare Renzi votando il Jobs Act anche gli ex sindacalisti Epifani e Damiano, diventati per questo, insieme ad altri ex dirigenti sindacali che hanno votato la legge, meritatamente oggetto di una petizione di delegati di grandi fabbriche e del settore pubblicoche chiede alla segreteria diritirare loro la tessera di iscrizione alla Cgil. Petizione su cui però la Camusso fa orecchie da mercante.
Su un altro fianco i leader di Area riformista, gli ex bersaniani Speranza, Martina e Micheli, orarenziani convinti, provvedevano a mettere i sicurezza il provvedimento col loro pacchetto di voti, vantandosi pure di essere stati decisivi per la sua approvazione, perché “senza di noi saltava il numero legale e il governo”. Ancora una volta, perciò, Renzi l'ha avuta vinta sulla frastagliata e divisa minoranza interna, e ha potuto cantar vittoria così: “Abbiamo tolto l'articolo 18, e volete che non ci siano dei dissidenti? Ci dicevano che i dissidenti sarebbero stati 80 e invece sono 30. Ci dicevano che saremmo stati attaccati al voto di Forza Italia, invece ce l'abbiamo fatta da soli”.
Nessuna concessione alla sinistra PD
Del resto, per quanto i dissidenti si affannino a dichiarare che la battaglia proseguirà al Senato, Renzi sa che non avranno il coraggio di non votare la fiducia, perché ciò farebbe cadere il governo provocando le elezioni anticipate, e di conseguenza anche la loro non ricandidatura al nuovo parlamento. Anzi vorrebbe forzare al massimo i tempi per arrivare ad approvare il Jobs Act prima dello sciopero generale del 12 dicembre, così da mettere il sindacato davanti al fatto compiuto. E comunque vorrebbe partire con i decreti attuativi già da gennaio. E difatti di questo è andato subito a parlare con Napolitano al Quirinale, rassicurandolo anche sulla tenuta del patto del Nazareno con Berlusconi e sul cammino delle altre “riforme”,in particolare dell'Italicum e dell'abolizione del Senato. Ricevendo ovviamente in cambio il più convinto e soddisfatto assenso da parte del nuovo Vittorio Emanuele III.
In ogni caso la “battaglia” della sinistra PD non è per affossare il provvedimento, che è l'unica cosa che conta veramente, ma solo per ottenere da Renzi qualche minimo ritocco che possa farle piantare una bandierina e certificare la sua esistenza in vita. Delle cose che gli aveva chiesto e che lui aveva promesso, oltre al dovuto reintegro per i licenziamenti discriminatori (ma spetta al lavoratore l'onere di dimostrarlo in tribunale), è rimasto solo il reintegro per alcuni tipi di licenziamenti disciplinari respinti dal giudice. Quali? Sarà sempre il governo a stabilirlo nella delega, probabilmente solo in caso di licenziamento per furto inesistente. Non ci rientrerebbero per esempio nemmeno i tre sindacalisti Fiom di Melfi licenziati da Marchionne con false accuse di sabotaggio e riammessi in fabbrica dal tribunale del lavoro.
Delle garanzie sugli ammortizzatori sociali non c'è traccia, per l'anno prossimo ci sono solo 1,9 miliardi stanziati dalla legge di stabilità, poi si vedrà; mentre è certo che sarà abolita la cassa integrazione in caso di licenziamenti per cessazione aziendale o di un ramo di essa, e che dal 2017 sarà abolita l'indennità di mobilità. Così come non c'è la soppressione, promessa nella proposta originale, e nemmeno lo sfoltimento, delle decine di contratti atipici, ma solo (forse) l'abolizione dei contratti a progetto. Restano pure il demansionamento e il controllo a distanza dei lavoratori, sia pure limitato (sembra) agli impianti e agli strumenti di lavoro, come computer e cellulari. Non c'è nemmeno la certezza che i contratti “a tutela crescente” senza articolo 18 (in realtà bisognerebbe chiamarli “a monetizzazione crescente dei licenziamenti senza giusta causa”) siano applicati solo ai nuovi assunti, e non siano invece estesi a tutti i lavoratori. Il fatto è che si tratta di una legge delega, una legge in bianco per definizione, e che una volta ottenuta il governo potrà scriverla come gli pare e piace, senza che il parlamento possa più intervenire per correggerla, ma solo per esprimere al massimo un parere consultivo.
Realizzati i “sogni” della confindustria
In sostanza escono riconfermati tutti i punti più antisindacali e filopadronalidi cui il Jobs Act si è caricato via via che Renzi scopriva le sue carte. Lo ha rivelato fra l'altro “Il Fatto Quotidiano”, facendo una comparazione tra il Jobs Act così come si è andato configurando negli ultimi mesi e un documento della Confindustria del maggio scorso in cui erano elencati esattamente gli stessi punti, sovente anche con le stesse formulazioni, poi riapparsi nel provvedimento di Renzi e Poletti. Tanto da farlo sembrare un “copia e incolla” del documento confindustriale.
Solo la lotta di massa nelle piazze, nelle fabbriche, nei campi, nelle scuole e in tutti i luoghi di lavoro può bloccare perciò l'odioso attacco del nuovo Berlusconi, in combutta con Marchionne, la Confindustria e i vertici dell'Unione europea imperialista, ai diritti normativi, contrattuali e democratici dei lavoratori, strategicamente volto a cancellare da destra i fondamentali dello stesso diritto borghese del lavoro e far tornare le relazioni industriali al modello mussoliniano e vallettiano in vigore fino alle grandi lotte del '68-'69.
In questo quadro lo sciopero generale di Cgil e Uil del 12 dicembre rappresenta una prima, se pur parziale e tardiva, risposta che va nella giusta direzione, ma non ci si deve assolutamente fermare qui, a una mera azione di testimonianza come nelle intenzioni dei vertici sindacali cedevoli e opportunisti. Occorre invece intensificare ed allargare le lotte per spazzare via il governo del nuovo Berlusconi, che è l'unico modo per affossare anche la sua politica antioperaia, antipopolare e piduista.
3 dicembre 2014