Carminati, il boss fascista che aveva in pugno esponenti politici e istituzionali della destra e “sinistra” borghese, della finanza, delle “forze dell'ordine” e dei servizi segreti
La storia di Massimo Carminati, 56 anni, milanese di nascita ma romano di adozione, è indissolubilmente legata agli anni dello stragismo nero e sedicente “rosso” degli anni ’70. Agli attentati, le stragi, i depistaggi, le trame piduiste e i tentativi golpisti di quegli anni.
Di estrazione sociale piccolo borghese, Carminati fin da giovanissimo frequenta gli ambienti dell'estrema destra e dopo aver militato in organizzazioni come il Fuan e Avanguardia nazionale, aderisce ai Nar, i Nuclei armati rivoluzionari neofascisti. Stringe subito amicizia con i suoi compagni di liceo, alIstituto paritario Federico Tozzi del quartiere di Monteverde: i neofascisti Alessandro Alibrandi, figlio di un noto giudice della Capitale; Franco Anselmi, ex missino e fondatore dei Nar, e Valerio Fioravanti, condannato in via definitiva per la strage alla stazione di Bologna (2 agosto del 1980, 85 morti e 218 feriti) assieme alla sua compagna Francesca Mambro.
La base di Carminati e dei suoi amici camerati era il ristorante il "Fungo” nel quartiere Eur molto noto all’epoca proprio per essere un ritrovo di neofascisti ma molto frequentato anche dai boss della Banda della Magliana.
Humus ideale per il giovane Carminati, che a 14 anni girava già con la pistola, per coltivare i suoi loschi rapporti fra i militanti neofascisti e i boss della malavita organizzata verso i quali però Carminati non ha grande considerazione e li definisce: “Banda di accattoni straccioni, per carità, sanguinari, perché si ammazzava la gente senza manco discutere, la mattina si decideva se uno doveva ammazzare qualcuno la sera... A parte il “negro”, Franco Giuseppucci, l’unico vero capo che c’è mai stato della banda della Magliana che era un mio caro amico, abitava di fronte a casa mia, lo conoscevo da una vita”
Con Fioravanti invece la stima è reciproca e i due acquistano grande potere e prestigio per la dimestichezza che hanno con gli ordigni esplosivi e per la facilità con cui si maneggiano e procurano le armi. Un connubbio politico-criminale che si palesa fin da quando il gruppo compie la prima delle tante rapine per autofinanziarsi nel caveau della Chase Manhattan bank dell'Eur. E i traveller cheques trafugati vengono affidati a Giuseppucci che provvederà a riciclarli.
Tant’è che ancora oggi Carminati ricorda con “orgoglio”: “Noi eravamo piccoli mo’ li vedi i pischelli di diciott’anni... co ‘a biretta in mano... sò creature... Compa’ , a me m’hanno bruciato casa due volte... vivevi con l’estintore... ti aspettavano... A quattordici anni avevo la pistola, una 7,65, 20.000 lire la pagai... Ci andavo a scuola con la pistola... col Vespone... Erano altri tempi... adesso ti carcerano subito... ”.
I legami tra neofascisti e la criminalità organizzata nella Capitale diventano così stretti che le due organizzazioni agiscono quasi in simbiosi e insieme si procurano le armi per le rapine, gli attentati e gli agguati contro i militanti di sinistra. Alcune di queste armi furono poi ritrovate in un garage nei sotterranei del ministero della Sanità a Roma e sul treno Taranto-Milano dove servirono per inscenare un depistaggio dalle indagini sulla strage di Bologna nel quale furono coinvolti due due altissimi esponenti dei Servizi segreti in mano alla P2 insieme allo stesso Carminati che poi fu assolto nel processo d'appello.
Non sarà l'unica assoluzione per il "guercio": soprannome guadagnato sul campo in seguito alla brutta ferita all'occhio sinistro provocata da un colpo di pistola esploso dai carabinieri nel tentativo di catturarlo. Carminati è sempre uscito indenne dai tanti processi che lo accusavano di reati pesantissimi nonostante molti pentiti e testimoni oculari lo abbiano indicato tra gli autori di attentati e agguati mortali.
Il caso più inquietante riguarda l'omicidio di Mino Pecorelli, direttore del settimanale “Op” Osservatorio Politico, iscritto alla P2 e legato ai Servizi segreti. Assassinato con tre colpi di pistola a Roma la sera del 20 marzo del 1979, il giornalista, famoso per i suoi ricatti che lanciava attraverso le pagine della rivista, si è portato nella tomba i tanti segreti che custodiva. Aveva appena stampato l'ultimo numero con un titolo eloquente, quello che anticipava lo scandalo delle tangenti ai partiti: "Gli assegni del Presidente". Secondo Antonio Mancini, pentito della Banda della Magliana, "fu Massimo Carminati a sparare assieme a Angiolino il Biondo, Michelangelo La Barbera, un killer di Cosa Nostra. Il delitto era servito alla banda per favorire la crescita del gruppo, favorendo entrature negli ambienti giudiziari e finanziari romani, ossia negli ambienti che detenevano il potere". L'assassinio di Pecorelli era un favore a Cosa nostra e ad Andreotti che nel processo d’Appello si prese una condanna poi annullata dalla Cassazione.
Agli inizi degli anni ’80 Carminati fu costretto a rifugiarsi in Libano, dove “ti compravi un fucile M16 con 150 dollari”, passando da Cipro con altri camerati: “Noi stavano con dei francesi... poi siamo andati al Sud, quando siamo dovuti scappare da Beirut, e siamo andati all’ enclave dove... c’era un colonnello che lavorava per gli israeliani”.
Solo nel 1998 Carminati fu condannato in secondo grado a 10 anni di reclusione. Per un lungo periodo sparisce dalla circolazione, forse espatriato in Giappone, ma nell’ombra continua a coltivare le vecchie amicizie in attesa di tempi migliori che puntualmente arrivano con l’elezione di Alemanno al Campidoglio al quale i neofascisti presentano il conto sotto forma appalti, favori, incarichi, prebende e assunzioni dei camerati e spianando di fatto la strada al nero Carminati e al “rosso” cooperativista Buzzi di allungare le mani sulla Capitale con l'assegnazione dei grandi appalti pubblici.
Indagato per essere l’ideatore del furto al caveau della Banca di Roma interno al Palazzo di Giustizia di Piazzale Clodio nel 1999 in cui, fra l’altro, venne rubata documentazione per ricattare i magistrati, e coinvolto nel 2012 nell’inchiesta sul calcioscomesse Carminati è ora indagato per essere il capo di “Mafia Capitale” l’organizzazione a cui la Procura di Roma contesta l’associazione di stampo mafioso, capace di corrompere politici di destra e di “sinistra”. E chissà se anche questa volta riuscirà a farla franca.
Nell’ordinanza di arresto si legge che Carminati mutua il ruolo che aveva “all’interno del sistema criminale romano degli anni ’80, cioè quello di trait d’union tra mondi apparentemente inconciliabili, quello del crimine, quello della alta finanza, quello della politica”. Insomma per dirla con le sue parole, “io sono il Re di Roma“.
Un capo che – secondo i magistrati – “avvalendosi della forza di intimidazione derivante dal vincolo associativo” poteva puntare ad una “condizione di assoggettamento e di omertà”. L’attività di Carminati si spingeva anche nell’individuare e “reclutare imprenditori” ai quali forniva protezione, manteneva i rapporti con gli esponenti delle altre organizzazioni criminali che operano su Roma “nonché con esponenti del mondo politico, istituzionale, finanziario e con appartenenti alle forze dell’ordine e ai servizi segreti”.
Si tratta, come lui stesso afferma in una delle tante intercettazioni a suo carico della: “teoria del mondo di mezzo dove tutto si incontra…tutto si mischia…perché anche la persona che sta nel sovramondo ha interesse che qualcuno del sottomondo gli faccia delle cose che non le può fare nessuno…”.
Quel “mondo di mezzo” dove Stato e criminalità vivono e si alimentano a vicenda in perfetta simbiosi e nel quale lui ci sguazza da quasi 40 anni tra inchieste, accuse, depistaggi e arresti.
10 dicembre 2014