Sentenza della Corte di appello di Potenza I tre operai di Melfi licenziati da Marchionne non erano "sabotatori" ma sindacalisti La vittoria giudiziaria non sarebbe stata possibile senza l'art. 18 Le ampie e articolate motivazioni di 67 pagine rese note il 23 marzo, della sentenza della Corte d'appello di Potenza emessa il 23 febbraio scorso, conferma in modo chiaro ed inequivocabile che: i tre operai dello stabilimento della Fiat di Melfi, la S.A.T.A., Giovanni Barozzino, Marco Pignatelli e Antonio Lamorte, i primi due delegati FIOM e il terzo iscritto lo stesso sindacato, furono licenziati ingiustamente e con motivazioni antisindacali da Marchionne nel luglio del 2010 e dunque (sulla base dell'art. 18 dello Statuto dei lavoratori) devono essere reintegrati nel loro posto di lavoro e risarciti degli stipendi mancati; che essi non commisero nessun sabotaggio alla produzione ma esercitarono correttamente il diritto di sciopero; non vi fu nessuna insubordinazione ma una regolare discussione, ancorché animata, di fronte all'aggressione e alla provocazione del caporeparto. I giudici hanno ricostruito i fatti in modo minuzioso avvalendosi anche delle testimonianze dei lavoratori e dei delegati della Rsu per giungere al seguente giudizio: i licenziamenti dei tre operai di Melfi furono "nulla più che misure adottate solo per liberarsi di sindacalisti che avevano assunto posizioni di forte antagonismo", misure che portano a "pregiudicare la libertà sindacale". Nei confronti di Barozzino, Pignatelli e Lamorte, scrivono i giudici, il responsabile di linea tenne un atteggiamento "provocatorio" e "non così tranquillo e pacato come la società sostiene". Circa la protesta organizzata unitariamente dalla Rsu FIOM, FIM e UILM nella notte del 6-7 luglio 2010, stigmatizzata dall'azienda come atto di sabotaggio alla produzione, i tre operai ingiustamente licenziati "hanno esercitato un diritto costituzionalmente garantito" qual è quello del diritto di sciopero "senza valicarne i limiti", con una forma di lotta che ha visto la partecipazione di altri operai ai quali però la Fiat "non ha contestato nulla". Spulciando le copiose motivazioni si trovano delle argomentazioni adottate dai giudici a sostegno della sentenza che meritano di essere evidenziate. Ad esempio quelle sul diritto di sciopero. Il datore di lavoro non può lamentarsi del danno alla produzione che deriva dall'astensione del lavoro: "il fatto che lo sciopero - scrivono - arrechi danno al datore di lavoro impedendogli o riducendo la produzione dell'azienda è connaturale alla funzione di autotutela coattiva propria dello sciopero stesso". Sul fatto specifico chiariscono che: "nessuna premeditata volontà di sabotaggio aveva sostenuto il comportamento di nessuno dei partecipanti al corteo, difformemente da quanto lasciato intendere da alcune dichiarazioni pubblicate su due articoli comparsi su un noto settimanale nazionale". Interessante e rivelatrice la ricostruzione dell'intervento del dirigente aziendale durante lo sciopero. Quando arriva sul posto, il gestore operativo Tartaglia vi trova 50 operai circa che manifestano e si rivolge non all'insieme dei lavoratori ma a Lamorte e a Barozzino e Pignatelli sopraggiunti subito dopo, come delegati sindacali della FIOM per inveire e lanciare le sue scomposte accuse alle quali i suddetti si sono limitati a rispondere per difendere la correttezza dell'iniziativa di lotta. Il tutto è durato un tempo tra i 5 e i 10 minuti. È sulla base di questa provocazione che poi l'azienda ha costruito il pretesto del licenziamento. Altrettanto interessante è l'accertamento del comportamento degli altri 6 delegati della Rsu appartenenti alle sigle sindacali FIM e UILM che, insieme alla FIOM erano state promotrici dello sciopero. È emerso che costoro subito dopo il fatto avevano addirittura redatto un documento che denunciava la provocazione dell'azienda e confutava le sue accuse; documento chissà perché rimasto interno, non reso pubblico. La posizione di questi delegati sarà ridimensionata quando saranno sentiti come testimoni. Ciò dovuto al fatto che, scrivono i giudici, questi delegati fanno parte di quelle organizzazioni sindacali che avevano firmato, appena un mese prima, il contratto aziendale imposto da Marchionne alla Fiat Pomigliano, mentre la FIOM lo aveva avversato. Nonostante la netta sentenza di condanna della Corte d'appello di Potenza, come è noto Marchionne si rifiuta arrogantemente di reintegrare in fabbrica i tre operai ingiustamente licenziati. Preferisce retribuirli purché se ne stiano a casa loro. Invece di accettare l'esito giudiziario il nuovo Valletta ha fatto ricorso alla Cassazione nonostante che, nel frattempo, gli piovano addosso, una dopo l'altra, sentenze di condanna per attività antisindacale, l'ultima quella del tribunale di Bologna che ha imposto alla Magneti Marelli, di proprietà Fiat, di mettere fine alla discriminazione contro la FIOM, di riconoscere i suoi rappresentati sindacali aziendali (Rsa) e di rendere ad essi la piena agibilità sindacale. La vicenda dei tre operai della Fiat di Melfi evidenzia una volta di più quanto sia importante difendere l'art. 18 dello Statuto dei lavoratori come efficace strumento deterrente contro i licenziamenti illegittimi, discriminatorio e antisindacali, dai furiosi attacchi liberisti di Monti e della Fornero. 4 aprile 2012 |