No, No, No al welfare di Prodi Col nuovo accordo peggiora la situazione dei precari. Miserevole astensione di PRC e PdCI Davvero ridicolo e insieme grottesco, ci verrebbe da dire, quanto è successo tra la conclusione del referendum sindacale sul Protocollo Prodi sul welfare e la trasformazione di esso in disegno di legge (ddl), se non ci fossero in ballo diritti e interessi fondamentali dei lavoratori, dei pensionati e dei giovani precari. Come minimo inusuale e con pochi precedenti. Il 12 ottobre il consiglio dei ministri vara all'unanimità, salvo le astensioni dei ministri PRC e PdCI Ferrero e Bianchi, un primo ddl che sì recepisce gli accordi sottoscritti con i sindacati confederali, più l'Ugl, e le associazioni padronali ma con alcune piccole e tutto sommato marginali variazioni. Di che tipo? Vi è un contentino alla cosiddetta "sinistra radicale" governativa sui limiti entro cui poter utilizzare i contratti a termine e sul tetto annuale dei "lavori usuranti", vi sono alcuni punti, riguardanti le finestre d'uscita per chi ha maturato 40 anni di contributi, nonché la garanzia di una pensione al 60% della retribuzione per i giovani precari che sono rinviati a deleghe future. Nei giorni successivi, i segretari di Cgil, Cisl e Uil Epifani, Bonanni e Angeletti da un lato e il presidente della Confindustria, Luca Cordero di Montezemolo dall'altra, all'unisono insorgono e minacciano di ritirare il loro consenso al Protocollo. I primi minacciano addirittura uno sciopero generale (sic!). Come se nulla fosse, Prodi e l'autore del ddl, il ministro del Lavoro Cesare Damiano, riconvocano sindacati e rappresentanti padronali per accogliere le loro lamentele e correggere le difformità rispetto ai testi sottoscritti nel luglio scorso. Ma non esattamente, con qualche peggioramento per i precari. Il che è tutto dire, considerando la negatività originale del Protocollo. Il 17 dello stesso mese, ossia dopo appena 5 giorni, il consiglio dei ministri si riunisce di nuovo in forma straordinaria per approvare un secondo ddl sulla base del nuovo accordo raggiunto con i segretari sindacali confederali e il leader della Confindustria, votato da tutti i ministri salvo l'astensione di Ferrero e quella "costruttiva" di Bianchi, un comportamento questo non giustificabile e ancora più miserevole della volta precedente. Il testo passa ora al parlamento per essere approvato, come collegato alla Finanziaria 2008, entro il 31 dicembre prossimo. Si è così ricomposto in fretta il patto di stampo neocorporativo tra governo, sindacati confederali e Ugl e Confindustria. "Posso dire finalmente - ha dichiarato Epifani per la Cgil - che il testo del Governo corrisponde esattamente all'accordo firmato con le parti sociali il 23 luglio scorso. Sul tema del tempo determinato - aggiunge mentendo - abbiamo salvaguardato l'impostazione approvata nel Consiglio dei ministri, con una clausola di transitorietà che ha consentito un'intesa con la Confindustria". Stessi toni da parte dei dirigenti di Cisl e Uil, Santini e Foccillo. Secondo il vicepresidente della Confindustria Alberto Bombassei: "È stato raggiunto un accordo su un testo definitivo. È un fatto importante che consolida i contenuti dell'accordo di luglio e in qualche punto va anche più in là". Ma quali sono le questioni oggetto del nuovo accordo? Quella principale e più grave riguarda i contratti a termine. Nel testo approvato è ribadito il limite di 36 mesi, con una sola proroga a condizione che la stipula avvenga presso l'ufficio provinciale del lavoro con l'assistenza di un rappresentante sindacale "rappresentativo". Cosicché per avere diritto a un contratto a tempo indeterminato il lavoratore interessato si deve fare anni e anni di precariato, senza nessuna certezza che ciò avvenga. È sufficiente che il "datore di lavoro" interrompa il rapporto di lavoro alla soglia dei tempi massimi stabiliti. Ma non è tutto, nella normativa varata sono previste ampie deroghe, che ne riducono ulteriormente l'impatto. Infatti, le regole dei 36 mesi più una proroga non saranno applicate ai lavori stagionali definiti nel Dpr 1525/63, in particolare in settori come l'alimentare e il turismo, né a quelle mansioni che sindacati e imprese individueranno nei contratti collettivi o negli avvisi comuni. C'è poi la clausola transitoria che allunga ulteriormente i tempi. Per i lavoratori che a gennaio 2008 si trovino con un contratto a termine in corso le nuove regole saranno applicate con 15 mesi di ritardo, cioè nella primavera del 2009. Infine la sorpresa: per tutti i lavoratori attualmente occupati a termine resta in vigore la vecchia disciplina. A meno che l'azienda non decida di rinnovare il contratto, il che nella maggioranza dei casi è molto improbabile. Ci sono poi le precisazioni e i ritocchi relativi agli aspetti previdenziali. Sono confermate le quattro finestre per il pensionamento di coloro che hanno maturato 40 anni di lavoro. È inoltre confermata l'introduzione delle finestre per le pensioni di vecchiaia (65 anni per gli uomini e 60 per le donne) quattro anziché due come scritto nell'accordo di luglio. Tali misure sono valide sino al 31.12.2011. Tra tre anni occorrerà una nuova trattativa per confermare o meno le suddette finestre. Vale la pena di ricordare che nel pensionamento di vecchiaia non c'erano finestre che, di fatto, ritardano di alcuni mesi la fine del rapporto di lavoro anche per le donne; alle quali i vertici sindacali avevano garantito nessun peggioramento della normativa. Sui "lavori usuranti" nel ddl è stato cancellato il tetto di 5 mila pensionamenti all'anno. Però è stato confermato pari pari lo stanziamento iniziale. Nel caso che questa soglia venga superata non è precisato se e come sarà reperita la copertura finanziaria. Inoltre, il governo ha confermato l'impegno a mettere in essere per i giovani una copertura previdenziale non inferiore al 60%. Anche qui non si dice come. E nemmeno si dice che questo 60% corrisponde a una pensione da fame, 600 euro mensili circa. Circa l'aumento dei contributi dello 0,9%, nessuna marcia indietro: esso è confermato per il 2011, anche se è subordinato ai risparmi che dovrebbero venire dall'accorpamento degli enti previdenziali. Una verifica negativa di tali risparmi rimetterebbe automaticamente in pista l'aumento dei contributi. Questi sono i punti dibattuti nell'ultima parte della trattativa. Negli accordi complessivi del 23 luglio c'è, come è noto, dell'altro e di peggio. C'è l'elevamento dell'età pensionabile attraverso gli scalini e le quote (cioè la somma a crescere degli anni di lavoro e l'età anagrafica), c'è la riduzione automatica dei coefficienti di trasformazione delle pensioni che riducono il valore degli assegni pensionistici futuri, c'è la detassazione per i padroni del lavoro straordinario e degli aumenti salariali aziendali a danno di quelli derivanti dai contratti collettivi nazionali; che hanno fatto infuriare una grandissima quantità di lavoratori, specie nelle grandi aziende dell'industria, che hanno votato No o non si sono recati alle urne del referendum sindacale dell'8-10 ottobre. Noi marxisti-leninisti avevamo espresso sin da subito un chiaro e forte No al welfare di Prodi e invocato lo sciopero generale per respingerlo (vedi il n.31/2007 de "Il Bolscevico"). A ddl approvato dal consiglio dei ministri non abbiamo motivo di cambiare posizione, semmai ci sono ragioni ulteriori per confermare una netta opposizione e rinnovare propositi di lotta. La partita non è chiusa. Ci sono i tempi parlamentari per l'approvazione del disegno di legge sul welfare, unitamente alla Finanziaria. Dopo la manifestazione del 20 ottobre a Roma con un milione di elettrici e elettori di sinistra, coerenza vorrebbe che i vertici di PRC e PdCI si battessero quanto meno per modifiche sostanziali e non per ridicoli ritocchi formali, senza preoccuparsi della caduta o meno del governo. Ma non c'è da contarci, visto le loro posizioni opportuniste filo-Prodi tenute sin qui. Visto l'attaccamento dimostrato alle poltrone governative e parlamentari. 24 ottobre 2007 |