La Direzione nazionale rovescia la linea della campagna elettorale accettando l'alleanza con il neoduce Berlusconi Il PD si consegna a Napolitano Solo 14 astenuti e 7 contrari La base del partito in rivolta contro il governo insieme a Berlusconi Il 23 aprile, quale degno epilogo della vergognosa vicenda dell'elezione del presidente della Repubblica, che lo ha visto frantumarsi per le faide interne per poi cadere ai piedi di Napolitano e di Berlusconi, lo stato maggiore del Partito democratico ha riunito la Direzione nazionale per ratificare il ribaltamento della linea politica della campagna elettorale e dare via libera al governo delle "larghe intese" con il PDL. Linea che proclamava il "cambiamento" e di voler chiudere per sempre l'era Berlusconi, come sancito solennemente nel documento fatto firmare ai partecipanti alle primarie per scegliere il candidato premier del "centro-sinistra", facendo pure pagare loro due euro a testa, e che era stata ribadita nel programma elettorale e dalle due precedenti Direzioni tenute dopo le elezioni. Lo stesso Bersani aveva rifiutato a parole il governo col neoduce in tutte le occasioni possibili, la più celebre delle quali, appena dieci giorni prima, era stata quella alla manifestazione "contro la povertà, per un governo del cambiamento": quando, della serie le ultime parole famose, a chi gli gridava dalla platea di non cedere sul governissimo con Berlusconi, aveva risposto: "Ma cosa vuoi che ceda... come si può credibilmente pensare che io con Gasparri, Brunetta ecc..."? La Direzione, trasmessa in streaming dalla sede centrale di Largo del Nazareno assediata dalle telecamere e dai militanti del PD che mostravano cartelli con scritto "mai con Berlusconi", è durata appena un paio d'ore, giusto il tempo di ascoltare il discorso con cui Bersani ha ufficializzato le sue dimissioni e chiesto di approvare un ordine del giorno col quale il PD si affidava totalmente a Napolitano per formare un governissimo col neoduce. Cosa che è stata sbrigata in tutta fretta, dopo uno striminzito "dibattito" che più che altro è stato un veloce giro di dichiarazioni di voto su un documento che dà mandato al vicesegretario Letta e ai capigruppo di Camera e Senato, di "assicurare pieno sostegno al tentativo del Presidente della Repubblica di giungere alla formazione del governo, raccogliendo la sollecitazione ai partiti a esercitare la loro responsabilità, secondo le linee illustrate nel discorso di insediamento al Parlamento, e mettendo a disposizione la propria forza politica e le personalità utili a questo fine". Nessuna opposizione al diktat di Napolitano Il documento era atteso impazientemente dal Quirinale per poter dare l'incarico per la formazione del governo, che poi è stato assegnato allo stesso vicesegretario del PD che glielo ha portato su un piatto d'argento. Non per nulla il giorno precedente in parlamento, il nuovo Vittorio Emanuele III aveva fustigato severamente il vertice piddino, pur senza nominarlo direttamente, ammonendolo a fare i conti coi risultati elettorali, "piacciano oppur no", e quindi, "qualunque patto si sia stretto con i propri elettori", a "non sottrarsi al dovere della proposta, alla ricerca della soluzione praticabile". Cioè l'abbraccio con il partito del neoduce: pena, nel caso recalcitrasse dall'ingoiare il rospo delle "larghe intese", le proprie dimissioni e il rinvio alle urne con gli esiti disastrosi che al PD si prospetterebbero. Ma tali minacce si sono rivelate alla luce dei fatti perfino superflue, visto che nessuno ha osato mettersi seriamente di traverso al diktat di Napolitano e alla linea trionfante dell'inciucio a tutti i costi col PDL, e la paventata resa dei conti, se mai ci sarà, è stata rinviata al congresso, che non potrà tenersi prima di luglio, ma molto più probabilmente ad ottobre. Più in là di qualche isolato mugugno e di tentativo di mettere dei "paletti" al nascente governo, subito del resto zittiti dalla platea, non si è andati. Tanto che alla fine, su 197 presenti i voti contrari al documento sono stati solo 7, quasi tutti di area prodiana, e 14 astensioni, tra cui Civati e la Puppato, che successivamente si sono rimangiati il dissenso e almeno la seconda voterà la fiducia al governo Letta. Più qualcuno dei "giovani turchi" (così viene definito dalla stampa il gruppo di giovani opportunisti e carrieristi di "sinistra" interno al PD), come Orfini e Orlando. Fassina, che già aveva votato per Marini, ha votato invece il documento, forse pensando a quel posto di ministro di cui i giornali già vagheggiavano, ma che poi gli è stato soffiato dal suo compare di corrente Orlando, molto più gradito agli uomini del neoduce fin da quando, come responsabile Giustizia del PD, trattava già con loro sulle leggi per mettere il bavaglio ai magistrati. Renzi nuovo leader di fatto del PD Intanto, all'esterno della sede, il Berlusconi piddino, Renzi, che per un giorno era stato addirittura in predicato di diventare il premier incaricato, salvo poi essere scartato dall'originale per ragioni si dice di gelosia anagrafica, si pavoneggiava e sparava dichiarazioni davanti a microfoni e telecamere come fosse già il nuovo leader di fatto del PD, l'unico capace di riunire tutte le sue frantumate e litigiose tribù, che ora guardano a lui affinché salvi il partito che corre il rischio di sparire insieme alle loro amate poltrone e carriere politiche. Non a caso D'Alema aveva già ricucito per tempo i rapporti con lui andandolo a incontrare a Firenze, e perfino i "giovani turchi", appena caduto Bersani, si sono spostati su di lui, al punto che Orfini aveva avanzato la sua candidatura a premier incaricato. Perfino il governatore della Toscana, Rossi, suo antico "avversario", che ora sostiene a spada tratta il governo di "emergenza" con Berlusconi, si è arreso alla stella ascendente di Renzi, mettendosi come lui a invocare il presidenzialismo e nominando Napolitano "il nostro De Gaulle". Tra Renzi e Letta, poi, c'è pieno accordo, e anzi i due se la intendono a meraviglia nello scambiarsi i ruoli di attori principali della nuova fase politica che si è aperta con la fine della stagione bersaniana: "Con Letta ci siamo capiti al volo. Se andavo a Palazzo Chigi il segretario sarebbe stato lui", ha buttato lì il neopodestà fiorentino, lasciando intendere che vale anche il viceversa. Ma non vuole bruciarsi anzitempo: intanto è lanciatissimo verso la presidenza dell'Anci, l'associazione di tutti i neopodestà d'Italia, e lascia che sia qualcun altro, come per esempio Epifani, a prendersi per i momento la patata bollente della "reggenza" di un partito col vertice nel caos e la base in rivolta. E mentre nel fortino del Nazareno andava in scena questa disgustosa farsa, in molte città d'Italia, dal Piemonte alla Sicilia, e sulla rete attraverso i blog e i social network, militanti ed elettori del PD continuavano le manifestazioni e le iniziative di protesta contro l'inciucio romano iniziate fin dalla sera del 17 aprile, appena appreso della candidatura di Marini al Quirinale che rivelava la chiara intenzione del vertice del PD di andare al governo delle "larghe intese" con Berlusconi. Proteste che avevano raggiunto un livello di tensione altissimo con l'assedio della folla a Montecitorio blindato dalla polizia la sera della rielezione di Napolitano. Scollamento record tra il vertice e la base del PD Autoconvocazioni, occupazioni di sedi e federazioni, assemblee permanenti, con l'esposizione di striscioni con accuse inequivocabili come "vergognatevi", "no all'inciucio", "basta con i giochi di palazzo", "adesso basta, non vi votiamo più", promosse anche da movimenti appositamente costituiti come "Occupypd" e "Resetpd", si moltiplicavano un po' dappertutto. Come a Torino, dove la sede provinciale è stata trasformata in una "sala della pallacorda" a imitazione della storica protesta del "terzo Stato" che diede il via alla rivoluzione francese, e dove 250 tesserati chiedevano di "resettare" i vertici del PD. Manifestazioni simili si svolgevano a Napoli, Bologna, Cagliari, Viterbo, Teramo (che ha il primato di sedi provinciali occupate), ecc. Mobilitazioni anche a Bari e in altre città della Puglia. proteste e occupazioni di sedi anche in tutte le province della Sicilia. Palermo è stata tra le prime città che ha visto l'occupazione fisica della sede cittadina del PD, insieme a Prato, Firenze e Lucca. Molta però è anche la confusione che regna nella base dei militanti e degli elettori di sinistra del PD accanto alla rabbia e alla protesta. Li accomuna senz'altro il rifiuto corale del tradimento dell'inciucio col partito del neoduce; ma come si capisce dalle loro dichiarazioni e prese di posizione, molti di loro credono ancora e sperano che il loro partito in mano a rinnegati del comunismo, riformisti, liberali e democristiani sia recuperabile in qualche modo alla sinistra. Quasi nessuno di loro si è reso conto del ruolo presidenzialista decisivo giocato da Napolitano nel portare il PD in ginocchio da Berlusconi, e continuano a pensare al nuovo Vittorio Emanuele III come a un garante della democrazia e della Costituzione. Altri rischiano di affidarsi come "salvatore" del partito al Berlusconi che hanno già in casa senza rendersene bene conto: l'ambizioso presidenzialista Matteo Renzi. E tutti alla fine rischiano di farsi convincere ad accettare il governo Letta come una medicina amara ma inevitabile, una parentesi breve nell'attesa di un illusorio cambiamento di linea e di direzione che venga dalle assise congressuali. Auguriamoci che questa vicenda serva invece a convincerli che, come sostiene il PMLI, non si può farla finita con l'ingiustizia sociale e il presidenzialismo neofascista imperante se non si abbatte il capitalismo che li genera e sostiene. E che solo il socialismo può davvero cambiare l'Italia e dare il potere al proletariato. 2 maggio 2013 |